giovedì 1 ottobre 2020

Il naso dell'avanguardia (e l'uso della mascherina)

 


Quando ero ragazzo circolava una battuta riguardo il cosiddetto teatro d'avanguardia. In termini molto semplificati, una forma di spettacolo che si proponeva, nelle scelte e nella forma, come alternativa e di rottura rispetto alla tradizione classica, fatta invece di testi storici e approcci convenzionali alla recitazione. La battuta era superficiale e sarcastica, ma non del tutto infondata, e consisteva nel dire che per realizzare uno spettacolo di "avanguardia" si poteva portare in scena qualunque cosa, anche il dramma più canonico del mondo, da Shakespeare a Pirandello. L'importante era recitarlo stando "con la ciolla di fuori". 

Il riferimento era ovviamente alle nudità frequenti e spesso anche gratuite di alcuni spettacoli definiti sperimentali. Al di là di facili moralismi, sembrava, infatti, che mostrare le parti intime fosse un ingrediente irrinunciabile a prescindere dal contesto. O almeno era così nelle rappresentazioni più frequenti e ingenue cui capitava di assistere.  Il tempo avrebbe sdoganato il nudo anche nel teatro più classico e la battuta avrebbe perso di senso. Ma all'epoca circolava tantissimo, ed era diventata un tormentone ironico su ciò che pretendeva di essere (a torto o a ragione) una forma di arte avanguardista. 

Oggi, forse, qualcuno potrebbe definire avanguardisti quanti indossano la mascherina sanitaria tenendo allegramente il naso fuori. Sono tanti. Troppi. E se rappresentano l'avanguardia di qualcosa, mi suscitano malessere. Ben più di semplici pudenda esposte all'aria del palcoscenico.
Un tempo, camminando per strada e guardando in faccia la gente che incontravi, potevi provare sensazioni istintive. Simpatia o antipatia. Emozioni superficiali e destinate a rimanere senza certezze, a meno che le circostanze non ti portassero a conoscere da vicino quegli sconosciuti fugando o convalidando i dubbi.

Oggi no. Quel naso fuori della mascherina ti obbliga a dare un'occhiata, per quanto veloce, dentro la testa del passante che ti sta sfiorando sul marciapiede, e lo spettacolo non è confortante.

La battuta che circola adesso, in tempo di pandemia, è un'altra. Quella sulle mutande, e sul fatto che gli attributi maschili vanno tenuti dentro e non fuori dell'indumento intimo. Ma è appunto una battuta e lascia il tempo che trova.

E' davvero così complicato spiegare (ma anche comprendere) che il naso fa parte dell'apparato respiratorio, e che tutto quello che esce o entra dalle narici espone se stessi e gli altri ai medesimi rischi di quanto entra o esce dalla bocca? Così difficile capire, spiegare, che tenere il naso fuori equivale a non indossare nessuna protezione? Che è come calzare un profilattico sullo scroto invece che sull'uccello, santiddio (e qui abbiamo prodotto un'altra, inutile battuta)!

Dovrebbe essere un ragionamento elementare per tutti. Ma evidentemente non lo è.

L'orrore massimo è dato dal vedere individui con mascherine aderentissime, strette sul viso così forte da lasciare intravedere la forma delle labbra e del mento. Come la calzamaglia di Diabolik, sissignori. Ma con il naso di fuori, mi raccomando. Perché qui non parliamo di mascherine lasche, che scivolano giù, ma di veri e propri bavagli. Legati con diligenza. Come se l'intento fosse zittire un ostaggio più che proteggere dalla trasmissione di un virus.

Il disagio. Come vedere scritto sulla fronte delle persone la frase "Sono un coglione!". Ma anche la consapevolezza che tutta l'informazione di questo mondo se ne va giù per lo scarico del cesso davanti a un uditorio sordo e cieco, ma purtroppo non muto. Lo strazio di vedere coppie che passeggiano conversando amabilmente, che fanno la spesa, che entrano e escono dai negozi. Uno con il naso dentro. L'altro con la ciolla di fuori, libera e fiera. E questo a prescindere dal sesso, perché se tieni il naso fuori della mascherina sei una faccia di minchia senza troppe discussioni.
Un fenomeno sociale che ti spinge anche a chiederti quale dialogo ci sia tra le persone che si spostano insieme.  E' evidente che quel naso aperto, pronto a spruzzare goccioline e a inspirare senza nessuna difesa, non è oggetto di alcuna discussione, di nessuna attenzione, di nessun confronto. Nessuna domanda. Nessun dubbio. 

Soltanto la ciolla di fuori. Oggi come allora. Anzi, peggio.

Gli avanguardisti sono tornati. E non devo neppure pagare un biglietto perché mi consentano l'accesso allo spettacolo delle loro teste vuote.


martedì 29 settembre 2020

Seoul Station

 


Finalmente ho trovato il tempo per recuperare la visione di "Seoul Station", lungometraggio animato diretto da Yeon Sang Ho. Per chi non lo sapesse, si tratta del prequel animato di "Train to Busan", film coreano in live action del 2016 diretto dallo stesso regista, e decisamente uno dei migliori zombi-movie degli ultimi vent'anni. "Seoul Station" uscì a distanza di un mese dal film precedente e in seguito fu allegato all'edizione in home video. Possiamo definirlo un prequel, ma anche un altro episodio ambientato nello stesso universo narrativo, in quanto ci narra lo scoppio dell'epidemia zombesca da un'altro punto di vista. "Train to Busan" ci mostra il dilagare degli zombi, famelici e centometristi, sul treno diretto a Busan, e gli sforzi per sopravvivere dei passeggeri in viaggio su un convoglio infestato da mostri carnivori. "Seoul Station" si svolge in città, partendo dalla stazione e da quanti vivono nei suoi paraggi. Lo sviluppo è quello classico del survival horror. Un pugno di personaggi, le dinamiche tra loro, e l'incertezza su chi sopravviverà e come. Ma a differenza di "Train to Busan", focalizzato sui protagonisti e le loro caratterizzazioni, "Seoul Station" punta di più su un contesto generale, in questo caso decisamente degradato e pessimista. L'assenza di empatia, il pregiudizio, l'individualismo. Una corsa a perdifiato per la sopravvivenza in un mondo che era già cupo e ostile prima ancora dell'arrivo della piaga zombi. Un gioiello di animazione che conferma la capacità di Yeong Sang Ho di creare situazioni tese come corde di violino e fare partecipare lo spettatore al destino dei personaggi. A questo punto, i dubbi su "Peninsula", il seguito appena uscito in Corea di "Train to Busian" non sussistono. Sarà una corsa a perdifiato, con le viscere annodate, e quando penseremo di sapere cosa ci aspetta, ci troveremo davanti all'inatteso.



Ratched, il nome di... che cosa?


 Ma questa serie Netflix, "Ratched", che cosa vuole essere esattamente? Finora ho visto solo i primi due episodi e non so ancora se continuerò. Però mi suscita domande. E' stata presentata come basata sul personaggio dell'infermiera Mildred Ratched, antagonista nel romanzo e nel film "Qualcuno volò sul nido del cuculo". Una sorta di prequel in cui vengono narrati i precedenti del personaggio. Ok, una sparata bella grossa, volta a far chiedere "Ma siamo seri?" e a far dare un'occhiata alla serie anche solo per curiosità. Qualcuno, e a ragione, ha osservato che il personaggio di Mildred Ratched (quella del film e del romanzo di Ken Kesey) non ha bisogno di un background noir. La sua funzione è quella di rappresentare un'istituzione ottusa e glaciale, malvagia e dannosa in quanto espressione di un atteggiamento medico e culturale frutto del suo tempo e di un determinato contesto sociale. Trasformarla in un personaggio da crime drama manda fuori strada i presupposti narrativi. Tutto vero. Ma il punto è: era necessario attribuire quelle generalità e quella destinazione finale al personaggio della serie Netflix? Intendo dire una necessità che non fosse semplicemente quella di far discutere echeggiando il titolo di un classico. Quello che emerge dai primi episodi (senza entrare in dettagli spoilerosi) è la storia di un complotto criminale, e il ritratto di una donna manipolatrice e pronta a tutto che persegue un obiettivo ben preciso. La conduzione e le atmosfere della serie sembrano fare deliberatamente il verso ai film neri degli anni quaranta, da certe dinamiche tra i personaggi all'evidentissima scelta delle musiche. La stessa Sarah Paulson, che figura tra i produttori, recita in un modo che la fa apparire come un ibrido tra Bette Davis e Barbara Stanwick. Una dark lady hollywoodiana in un contesto estetico contemporaneo. Tutto questo mixato insieme produce un risultato dal gusto confuso. Non si capisce dove finisce il thriller che si prende sul serio e dove inizia l'intento parodistico. Ma rimane la sensazione posticcia e forzata di quell'accostamento iniziale, presente nei titoli di apertura. Intendiamoci, magari come racconto nero indipendente potrebbe anche andar bene. Ma abbiamo davvero bisogno di dover ricorrere a brand celeberrimi per promuovere nuovi prodotti commerciali? A pensarci bene, è anche inutile chiederselo. Esiste una divisione marketing, e le cose che già si conoscono vendono meglio di qualcosa che si presenta con un nome mai sentito.

martedì 22 settembre 2020

Lavori in corso alla Biblioteca SRA

Lavorare alla riorganizzazione della Biblioteca del Fumetto è tutt'altro che semplice. Essendo stato (anche) l'archivista della fumetteria Altroquando, conosco bene le problematiche della catalogazione. E adesso, in parte, le sto rivivendo. Sia chiaro: è un dolce problema. Però rimane un problema che deve essere risolto. Durante il trasloco da uno spazio all'altro, e il periodo (un anno) della mia malattia, è arrivata tantissima roba da catalogare ex novo e a cui trovare posto. Anche questo è un problema positivo, ma ci sono momenti di burn out. Devo necessariamente separare il materiale più "consistente" della biblioteca principale (mi riferisco a volumi e miniserie di vari provenienza storica e geografica) da molte serie spillate, altrettanto interessanti, ma che negli stessi scaffali porterebbero caos cognitivo e pratico. Devo inventare uno spazio per loro da un'altra parte. Sempre nello stesso luogo, sempre come parte della biblioteca (dove tra l'altro devo vivere). Insomma, è come trovarsi a dover aprire un Mar Rosso di fumetti e passarci in mezzo. Se non credessi davvero nel progetto di tenere vivo Altroquando, oltre la sua conclusa esistenza commerciale, e fare crescere e condividere una biblioteca intitolata alla memoria di Salvatore, a quest'ora avrei incrociato le braccia. Ma come ripeto sempre a me stesso, non mi arrendo facilmente. I fumetti hanno influenzato la mia vita nel bene e nel male. Se ci schiatto in mezzo, sarà una fine poetica. Ma non è ancora tempo. Non credo, ho ancora un sacco di cose da fare. Quindi si va avanti. Grazie a tutti quelli che sostengono questo sogno pazzo. Ci sarà sempre un Altroquando.

mercoledì 9 settembre 2020

I libri non sono mai troppi: salvare la Biblioteca Itinerante Pietro Tramonte di Palermo


 L'hashtag è #ilibrinonsonomaitroppi.

L'iniziativa è quella di sostenere la Biblioteca Privata Itinerante "Pietro Tramonte", affinché Palermo non volti lo sguardo e questo spazio culturale spontaneo possa sopravvivere. In queste ore il titolare ha ricevuto un verbale di chiusura con la motivazione che i libri sarebbero troppi. Pertanto la biblioteca a cielo aperto in piazza Monte Santa Rosalia a Palermo, fondata sul baratto dei libri e che tanti giovani ha instradato alla lettura, rischia di scomparire. Trovate i dettagli nel link in fondo, nell'articolo de La Repubblica. L'iniziativa proposta è una lettura video di 1 minuto, da un libro a vostra scelta, seguita dal messaggio "I libri non sono mai troppi. Sostegno alla Biblioteca Itinerante Pietro Tramonte di Palermo" (e ovviamente l'hashtag #ilibrinonsonomaitroppi nel post). Facciamo in modo che questa iniziativa diventi visibile in fretta, e che delle voci si levino in modo pacifico (semplicemente leggendo un libro) per sollecitare una soluzione costruttiva. Associazioni, collettivi, privati, prendete in mano uno dei vostri libri. Apritelo e leggetelo, ad alta voce, per un solo minuto. Abbiamo bisogno che questa biblioteca che pratica il baratto e la diffusione della cultura nel centro storico di Palermo sopravviva. Allargo l'appello anche ai miei contatti non siciliani. Non è un argomento da circoscrivere alla nostra città. Ci riguarda tutti. Perché i libri ci rendono migliori. Sono una possibilità per crescere. E di sicuro non sono mai troppi. L'articolo su La Repubblica

sabato 29 agosto 2020

Les Revenants


Il fotogramma nell'immagine non appartiene a "Curon", ma a "Les Revenants", e il campanile che emerge dall'acqua non è al centro della trama come nella serie italiana.

"Les Revenants", serie francese la cui prima stagione è uscita nel 2012, è uno strano caso di cult di nicchia. Amato praticamente da tutti quelli che lo hanno visto, discusso, interpretato, ma rimasto avvolto nel silenzio del pubblico generalista. Per intendersi, senza arrivare a suscitare il clamore mediatico di altre, successive, serie europee, come "Dark". Eppure "Les Revenants", con la sua trama misteriosa, la sua narrazione corale articolata su diversi piani temporali, i suoi segreti e l'atmosfera esoterica, è una delle prime serie TV che hanno fatto tesoro della ricetta presentata trionfalmente da "Lost". E con esiti artistici notevoli, che vanno da una fotografia spettacolare, alle performance di attori carismatici, alle inquietanti e bellissime musiche originali della band post-rock scozzese Mogwai. Due sole stagioni di otto episodi ciascuna. Un incipit che fa gelare il sangue per quanto è perfetto e sinistro. Una piccola folla di personaggi memorabili e grande suggestione. Prendendo spunto dal film omonimo di Robin Campillo uscito nel 2004, "Les Revenants" narra le vicende di un piccolo paese tra le montagne della Francia in cui d'un tratto e senza preavviso i morti cominciano a tornare.

Non si tratta di zombi antropofaghi come in "The Walking Dead", ma di veri e propri risorti, restituiti alla vita integri e immemori di cosa gli è successo. Naturalmente, il misterioso fenomeno non può restare senza conseguenze, e le reazioni di familiari e amici saranno le più disparate e imprevedibili. Ma l'inatteso ritorno dei cari estinti sembra non essere l'unico fenomeno inquietante. L'acqua della vicina diga ha strani movimenti, gli animali hanno comportamenti inconsueti, e i vivi lasciano trapelare parecchi segreti sepolti. Per una volta, la televisione batte il cinema, e il film di Campillo fornisce il la per una saga allegorica ed enigmatica sulla gestione del lutto, la capacità di fare i conti con il passato, la forza di reinventarsi e andare avanti.


"Les Revenants", un grosso successo in patria, ha ispirato serie statunitensi di modesto valore e scarso riscontro. Come "Resurrection" (che narra una storia simile per lo spunto di partenza, ma in realtà molto diversa per sviluppo e atmosfere) e il remake "The Returned", entrambe cancellate in fretta. Qualcuno (è prassi) si è affrettato a etichettare "Les Revenants" come una sorta di nuovo "Twin Peaks". Ma la serie, scritta da Fabrice Gobert, ricorda di più dinamiche lostiane, in cui l'attenzione dello spettatore e la sua capacità di cogliere le ellissi narrative è sfidata sin dall'inizio.
Alla prima stagione è seguito un lungo intervallo (come spesso accade con le produzioni europee) durato tre anni (tre anni!). Cosa che ha reso necessario rivedere l'intera prima stagione per mettere insieme tutti i pezzi (nella narrazione sono trascorsi solo sei mesi). Ma l'attesa è ripagata da una qualità che non delude le aspettative e regala nuovi colpi al cuore. Due stagioni che portano a compimento una narrazione non convenzionale, dove molte risposte sono nei simboli e nella nostra capacità di interpretarli. L'onnipresente acqua, fonte della vita e a volte dispensatrice di morte. Le ferite del corpo e dell'anima, le seconde, inattese possibilità. Un mosaico vasto e complesso come l'umanità stessa, che davanti a un fenomeno come la morte (ma anche davanti alla vita) reagisce in molti modi eterogenei.

"Les Revenants", come già successo con "Buffy", realizza il potenziale di un'opera cinematografica non del tutto compiuta, e sfrutta il linguaggio seriale per produrre qualcosa di nuovo e di grande impatto. Se "Lost" è diventato un feticcio e un modello cui guardare, possiamo dire che la televisione di qualità (in questo caso europea) è andata avanti, e riesce a riprodurre quelle vibrazioni fatte di attesa, sorpresa, desiderio di partecipare al racconto con le proprie fantasie, fino alla fine di un viaggio meraviglioso.
La musica dei Mogwai: https://youtu.be/BYSdLYmfQG4

martedì 14 luglio 2020

Muori, papà, muori!

Un padre poliziotto grande e grosso. Una figlia con dei segreti. Un fidanzato innamorato. Un duello lungo un film. Violenza e sangue a profusione. Divertimento a mille. La cosa buffa di "Muori, papà, muori" (opera prima del giovane regista russo Kirill Sokolov) e quella di essere stato distribuito con l'azzeccato titolo internazionale "Why Don't You Just die!" ("Perché non muori e basta!"), suscitando la consueta mitraglia di insulti (in genere meritati) contro i titolisti nostrani. Buffo, perché in questo caso ci si è limitati ad aggiungere una reiterazione al titolo originale russo, cioè "Papa, sdokhni" ("Muori, papà!"). E' ormai un rito quello di definire "tarantiniano" un film in cui violenza, l'elemento pulp, l'umorismo nero e le pennellate di surrealtà la fanno da padroni. E forse c'è qualcosa di vero anche qui. Ma in verità, più che allo zio Quentin, guardando il film di Sokolov, mi sono scoperto a pensare a un Pedro Almodovar sotto acido e assetato di sangue. Non è semplice definire il genere di "Papa, sdokhni". Commedia nera? Sicuramente. Horror? Forse, dipende a chi chiedi. Thriller? In qualche modo anche. Cartone animato girato con attori in carne e ossa. Sì, assolutamente. Grattachecca e Fighetto ringraziano. E il pubblico anche. Non è nemmeno il caso di perdere tempo a riassumere la trama. Un ragazzo decide di eliminare il padre tiranno della fidanzata che pare l'abbia molestata nell'infanzia e che forse continua a farlo. Uno spunto sufficiente a far partire una lotta senza fine tra due personaggi fisicamente indistruttibili, con buona pace dell'anatomia, delle scienze balistiche, del realismo (chi se ne frega quando un film è così divertente?). Una faida che innescherà una spirale di violenza e distruzione, ma anche di rivelazioni inaspettate. Un divertissement dal ritmo impeccabile, che non lesina neppure citazioni ai western di Sergio Leone, in alcune scelte di regia e nell'uso, studiato e ironico della colonna sonora. Pochi attori, una recitazione che definire sopra le righe sarebbe un eufemismo. E tanto, tantissimo splatter. Meglio non aggiungere altro, e scoprire il film, uscito da poco in dvd in Italia e visibile su Chili. Un film di situazione e di forma che riesce a divertire. Speriamo che Sokolov, che prima di questo film (uscito in patria nel 2018) aveva realizzato solo alcuni cortometraggi, si dimostri all'altezza delle promesse di questo esordio. E di avere la possibilità di metterlo alla prova anche sugli schermi italiani.