venerdì 13 marzo 2020

Swiss Army Man


Tra tutti i film stralunati, bizzarri, sorprendenti, "Swiss Army Man" occupa sicuramente uno dei posti più alti in classifica. Diretto da Dan Kwan e Daniel Sheinert (che firmano la regia in tandem con il nome "Daniels"), è una pellicola davvero difficile da inquadrare. Daniel Sheinert avrebbe in seguito diretto da solo "The Death of Dick Long", altrettanto curioso e spiazzante, ma meno... poetico. Possiamo dirlo? E' strano, ma un film weird (bizzarro) come "Swiss Army Man" può essere definito poetico? Considerato che durante il suo svolgimento (neanche lunghissimo, appena un'ora e trenta) oscilla tra la commedia (nera che più nera non si può), il dramma, il grottesco, il film surreale se non demenziale, e finisce con l'offrire persino spunti commoventi. E ho detto tutto se premettiamo che non mancano alcune scene e situazioni che potrebbero fare schifissimo, e che una buona parte del contrappunto (anche tematico) del film è fornito dai rumori naturali. Sicuramente ci troviamo di fronte a un film di attori, in cui Paul Dano ("Little Miss Sunshine", "Prisoners") e Daniel Radcliffe (che si è da tempo scrollato di dosso l'ingombrante identificazione con Harry Potter) danno il loro meglio, con un duetto virtuoso e un dialogo strampalato ma efficacissimo. Un giovane naufrago su un atollo in mezzo al pacifico è prossimo alla disperazione quando la corrente sbatte sulla spiaggia un cadavere vestito di tutto punto. I gas della decomposizione fanno sì che il morto si trasformi in una imprevedibile zattera di salvataggio (anche più di questo) che trasporta lo sventurato su un nuovo lido. Forse sarà la salvezza, forse no. Ma il rapporto tra il naufrago e il suo inatteso mezzo di sopravvivenza è appena cominciato. Anche perché il cadavere rivelerà risorse insospettabili, e a un tratto... Daniel Radcliffe nel ruolo del cadavere mandato (forse) dalla provvidenza è straordinario. E non meno Paul Dano, in grado di sviluppare un personaggio di cui c'è dato conoscere solo informazioni essenziali, possibilmente per aumentare l'empatia e rendere universale l'identificazione con questo novello Robinson Crusoe alla ricerca della salvezza, ma anche di se stesso. Un film davvero curioso, che potrebbe non incontrare il gusto di tutti. Ma comunque da scoprire.

mercoledì 11 marzo 2020

The Color Out of Space [di Richard Stanley]


"The Color Out of Space" rappresenta il ritorno di Richard Stanley alla regia di un lungometraggio dopo un periodo piuttosto lungo. Infatti, dopo le ottime prove di "Hardware" e "Dust Devil" (noto anche come "Demoniaca"), nella prima metà degli anni 90, il regista sudafricano aveva firmato soltanto corti, documentari e brevi episodi in film antologici. Nel 1996 avrebbe dovuto dirigere "L'isola perduta", ma la sua visione personale e l'ingombrante presenza della star Marlon Brando, causarono il suo allontanamento dal progetto che fu portato a termine da John Frankenheimer. Un peccato, considerato il valore dei suoi primi film. Opere di genere horror baciate da una sensibilità autoriale e una capacità evocativa visionaria, in cui scenografie, fotografia e colore danno vita a sogni lucidi inquietanti e di grande impatto sulla memoria. "The Color Out of Space", del 2019, è quindi un film di una certa importanza. Che somma il ritorno in scena di un regista che ha tanto da dire (e che lo dice in modo personalissimo) con un nuovo approccio alla narrativa di H. P. Lovecraft, ritenuto (e non a torto) uno degli scrittori horror meno filmabili per via della sua particolare poetica, fatta di orrori suggeriti e sempre collocati oltre l'immaginazione umana. "Il Colore venuto dallo Spazio" è peraltro uno dei racconti più noti e adattati di Lovecraft. La sua prima versione cinematografica risale al 1965 e al film "Die, Monster, Die!" di Daniel Haller, che in italiano diventa "La morte dall'occhio di cristallo" e vede come protagonista il mitico Boris Karloff. Da allora, la vicenda dell'entità extraterrestre che giunge in una zona boscosa della terra all'interno di un meteorite e che si manifesta come un colore inesistente nel nostro piano di realtà, dotato di una volontà maligna che ridefinisce il mondo intorno a sé secondo uno schema alieno e incomprensibile, mutando cose e corpi, è stata più volte ridotta per lo schermo. Raramente in modo efficace. E già, parliamo sempre del non adattabile Lovecraft. Diciamo anche che il titolo italiano del racconto forse non rende giustizia all'idea del suo autore. "The Color Out the Space" è un "colore fuori dello spazio" più che "venuto dallo spazio". Qualcosa di indefinibile e inqualificabile. Un elemento portatore di caos che azzera le norme e stravolge spazio e tempo, infettando ambiente, menti e corpi. Nel racconto il colore non appartiene a nessuna tavolozza, non è descrivibile nella sua alienità, e ovviamente questo non può essere reso al di fuori della rappresentazione letteraria. Richard Stanley, che aveva già dato prova di notevoli suggestioni oniriche con "Dust Devil" (di cui consiglio il recupero della versione Director's Cut con il titolo originale), sceglie per questa tinta aliena una sfumatura di fucsia iridescente (neanche a farlo apposta, un colore che io detesto). Caldo, ma nello stesso tempo morboso. E lo rende centrale e malevolo con la sua crescente onnipresenza a mano a mano che il film va avanti. Non c'è molto da raccontare, in quanto l'opera di Lovecraft, come abbiamo detto, è ampiamente nota e sfruttata. Quello da considerare, dunque, non è tanto il racconto e il suo progredire (che oggi chiunque può facilmente prevedere) quanto la personale visione scenica di Stanley, che la racconta con un ritmo dapprima rilassato e poi sempre più convulso, mentre le sue invenzioni cromatiche divampano e il body horror che si è già fatto interprete degli orrori lovecraftiani su schermo nelle opere di Stuart Gordon e Brian Yuzna si manifesta in tutto il suo disgustoso splendore. E poi... già! Poi c'è Nicolas Cage. In realtà non c'è solo lui. C'è Joely Richardson, protagonista di almeno due scene che mi hanno fatto saltare i nervi. E Madeleine Arthur, veramente brava e intensa. Ma ci si aspetta di sentir parlare di Cage. Nicolas Cage è praticamente diventato il caprio espiatorio di una quantità di film di genere. Per osmosi, sembra che il povero Nicolas sia ormai identificato con il marchio di infamia che definirà un film come pessimo. Quasi come se le sue scelte, la sua stessa presenza, abbiano la stessa caratteristica nefasta del "colore fuori dello spazio". Quella di guastare e trasformare tutto ciò che tocca in qualcosa di indescrivibile nel suo orrore. Beh, non è vero, dai. Nel film di Stanley, Cage è del tutto funzionale al racconto. Ci sarà, nell'ultima parte del film, un momento in cui lo vedremo andare fuori di testa (ma vorrei vedere chiunque in quella situazione) e fare le sue smorfie. Ma mi domando se il regista non lo ha scelto proprio per questo. Per rappresentare la progressiva marcescenza mentale e la trasformazione di un individuo posato e mite in qualcosa di grottesco e privo di senso. Come molti oggi vedono Nicola Cage, dopotutto. Insomma, "The Color Out of Space" è un felice ritorno per Richard Stanley. Potrà non colpire particolarmente, in quanto narra una storia già vista ormai mille volte (anche in numerose varianti del tema), ma dimostra che la poetica visiva del regista è ancora viva e vitale. E il suo progetto di realizzare una trilogia basata sull'immaginario di H.P. Lovecraft non può che ispirarmi un'interessata attesa.

lunedì 2 marzo 2020

Freaks [di Zach Lipovsky e Adam B. Stein]



"Freaks" è un film statunitense/canadese del 2018, e per quanto il titolo ricordi precedenti ingombranti non ha niente a che vedere con loro. Potremmo dire addirittura che il titolo, abusatissimo, sia l'unico neo su una pellicola tutta da scoprire. Dimenticatevi quindi del fim di Todd Browning del 1932, non c'entra nulla. Dimenticate anche "Freaks!" (con il punto esclamativo), la web serie diretta da Claudio Di Biagio e Matteo Bruno, che ha spopolato su Youtube nel 2011. Non c'entra nulla. Beh... Chissà... Forse forse... con questa qualcosina potrebbe entrarci... Mettiamola così. "Freaks" di Zach Lipovsky e Adam B. Stein è uno di quei film (un altro di quelli che piacciono a me) cui sarebbe meglio accostarsi senza sapere con che cosa si ha a che fare. Se siete abbastanza audaci da fidarvi, e pensate di apprezzare i film thriller a budget ridotto che puntano tutto su attori in gamba, un'idea classica ma gestita ottimamente, forse fareste meglio a smettere di leggere e cercare di vedere "Freaks". Infatti, in questo piccolo film indipendente, ci troviamo davanti all'ennesima dimostrazione che in un buon racconto non conta il "cosa" ma soprattutto il "come". Il punto di vista di un bambino (bravissima e inquietante la piccola Lexy Kolker) serve da filo d'Arianna in un labirinto in cui all'inizio ci si muove spaesati, ma con la consapevolezza che c'è qualcosa di strano e che presto gli avvenimenti prenderanno una piega terribile.


Ci siete ancora?
Ormai vediamo riproporre spesso determinati topoi narrativi in forma di kolossal, affidati a effetti speciali milionari. E altrettante volte ci capita di annoiarci un po' nel sentirci raccontare sempre le medesime dinamiche. Qui è tutto diverso. Gli effetti speciali sono quasi assenti. Determinati snodi li abbiamo già visti, ma non credo ci siano mai stati raccontati in questo modo. Non con le cadenze di un thriller tra lo psicologico e il soprannaturale, che ci irretisce, ci confonde, e a un tratto ci porta a casa, ma arredata in un modo che stentiamo a riconoscere.
Ma siete ancora qui?
E' sorprendente notare quanto sia ampia l'impronta che nel tempo gli X-Men hanno lasciato nell'immaginario contemporaneo. E quanto siano diventati un archetipo, in grado di contaminare più media e riproporre una metafora senza tempo, che parla di paura del diverso, di responsabilità, di rabbia e antitetici approcci a un mondo ostile, di negazione e accettazione, e infine di dignità. Lo stile narrativo fa la sostanza del racconto, e spostandoci da un ambito commerciale miliardario a uno che sceglie di fare di messa in scena e recitazione il suo principale perno, scopriamo quanto una storia di supereroi possa avere in comune con un racconto horror. Se non fosse ancora chiaro, "Freaks" mi è piaciuto un sacco. E penso rappresenti un contraltare affascinante a una ribalta ormai invasa da blockbuster sfornati con lo stampino. Sì, l'ho detto. "Sfornati con lo stampino". Aspettando l'ennesima versione cinematografica dei mutanti Marvel, potremmo accorgerci che in fondo non abbiamo bisogno di ulteriori repliche. Il cuore degli X-Men, quelli raccontati da Chris Claremont, è politico, è umano, e in "Freaks" lo troviamo vivo e pulsante senza bisogno di ricorrere a personaggi variopinti. Se siete arrivati a leggere fin qui, un po' è un peccato. Ma vale comunque la pena di vedere il film di Lipovsky e Stein. Anche solo per il suo formidabile cast.

mercoledì 26 febbraio 2020

L'impero delle ombre [di Kim Jee-woon]


E' allucinante che io mi debba sentire inibito a parlare di cose che apprezzo solo perché l'Oscar a Bong Joon-Ho ha scatenato due fazioni, tra cui alcuni soggetti pronti a disturbarti con toni che posso definire solo maleducati. Chi sta scoprendo il cinema sud-coreano (o asiatico in generale) soltanto adesso (non sarebbe il mio caso, ma in verità la trovo una cosa legittima) e cinefili integralisti che ti accusano di seguire un trend in modo acritico (perché naturalmente leggono solo quello che vogliono leggere e il loro unico fine è sentirsi migliori di qualcun'altro). Invece no, torno alle mie abitudini di condividere i miei pensieri sull'arte parlando de "L'impero delle ombre" di Kim Jee-Woon (regista di "Two Sisters", "Il buono, il matto, il cattivo", "I Saw the Devil" e tanto altro). Anche qui parliamo di un film arrivato da noi solo per l'home video, e anche in questo caso ingiustamente ignorato dal vasto pubblico (e non perché dovremmo imparare qualcosa dai cineasti orientali... ma perché è un cinema molto valido che è cibo per l'anima, e vale la pena di conoscerlo). Quando l'ho visto mi sono scoperto a interrogarmi sul titolo, sia italiano che internazionale. Ritengo che "L'impero delle ombre" sia un po' fuorviante. Il titolo in inglese è "The Age of the Shadows", quindi l'Era delle ombre... o meglio "delle tenebre". Penso che potremmo tradurlo più fedelmente dicendo "Gli anni bui". Il titolo originale "Mil-jeong", credo significhi "Agente segreto", ma non ne sono sicuro. Perché tutto questo girare intorno al titolo? Perché in molti siti ho trovato il film di Kim Jee-Woon definito come una "spy story", quando in realtà è qualcosa di molto diverso. E' un film drammatico, un film di guerra, storico, un racconto di scelte, di onore e tradimenti, di doppi giochi... e sì, è anche un thriller politico, confezionato con una notevole potenza visiva ed emotiva. Ambientato nella Corea degli anni venti durante l'occupazione giapponese, è una storia di resistenza e di riscoperta di un'identità, da parte di soggetti che l'hanno in parte persa e devono (forse, chissà) ricostruirla insieme al senso di appartenenza a un paese sotto il tacco di una potenza autoritaria. "L'impero delle ombre" può essere letto su molti livelli, una cronaca, per l'appunto, della resistenza coreana di quegli anni bui, un racconto di suspense in cui tutti fingono e non sai mai se credere a ciò che senti. Qualcuno ha accostato certe sequenze del film al cinema di Brian De Palma (la famosa, lunga scena del treno). Mi astengo dal dare conferme o smentite che (onestamente) non mi competono. Dirò solo che il film di Kim Jee-woon riesce a coniugare benissimo l'aspetto del thriller con quello della ricostruzione storica, del messaggio politico, dell'inno alla resistenza, dell'esortazione alla dignità e alla lotta contro tutti i totalitarismi. E non si può non sottolineare la presenza di Song Khang-ho, un viso che ormai è noto anche dalle nostre parti, e un attore camaleontico come pochi. Insomma, moda o non moda, ossessioni esterofile o meno, se non lo avete ancora visto, "L'impero delle ombre" di Kim Jee-woon è un film che vi consiglio spassionatamente di recuperare. Perché c'è solo da imparare. Dalle cose belle, intendo. Ed è un peccato che debba specificarlo.

martedì 18 febbraio 2020

Memorie di un assassino [di Bong Joon Ho]


"Memorie di un assassino", film del 2003 di Bong Joon Ho, era arrivato da noi direttamente in home video, e soltanto adesso, sulla scia del successo planetario di "Parasite", si sta giovando di una (più che tardiva) distribuzione nei cinema. Quel che si può dire... anzi, che posso dire a livello personale, è che negli ultimi anni il cinema orientale, e quello sudcoreano in particolare, mi suscita emozioni che i film occidentali neppure arrivano a sfiorare. Intendo dire che restano dentro, a fermentare nella memoria, dopo avere incantato con immagini di grande impatto, interpretazioni magistrali e temi non scontati. Già "The Host", da alcuni bistrattato come fosse un banale monster movie, era un grande film, con molteplici livelli di lettura e sfumature a perdita d'occhio e di cervello. "Memorie di un assassino" è un'opera per certi versi spiazzante. Si regge su quella linea grottesca che caratterizza la maggior parte dei film di Bong Joon Ho (compreso "Snowpiercer"), e disorienta con i suoi frequenti twist tra noir, con frequenti esplosioni di violenza, e situazioni che sconfinano nel comico. Un altro di quei film dei quali è meglio parlare poco per scoprirli sullo schermo, giacché ogni segmento è una sorpresa, e il film muta di tono ogni quarto d'ora spingendoci a chiederci che cosa ci sta venendo mostrato e perché. La componente sociopolitica è chiara qui sin dall'inizio, ma diventa sempre più delineata a mano a mano che ci si avvicina al finale. Bong Joon Ho non rassicura nessuno, al contrario disturba. Fa ridere e un attimo dopo colpisce allo stomaco. Duramente. E Song Kang Ho, attore feticcio del regista e punta di diamante di tutto il cinema sudcoreano, è un camaleonte inarrivabile. Si stenta a riconoscerlo nelle sue trasformazioni tra "The Host", "Snowpiercer" e "Parasite". In "Memorie di un assassino" recita un ruolo sfaccettato e difficile da inquadrare. Proprio perché umano nelle sue imperfezioni, reale nei suoi sconfinati difetti. Buffo e tragico nello stesso tempo. Insomma, un altro gioiello del cinema sudcoreano da scoprire. Una filmografia e un'estetica della settima arte da cui abbiamo tutti da imparare.

domenica 9 febbraio 2020

Vedendo JoJo Rabbit



Breve storia di vita vissuta. Al cinema, vedendo "JoJo Rabbit". Dietro di me, nel buio della sala, sento le voci di una coppia. Lui sembra un po' annoiato. Lei, invece, molto interessata.
Intanto arriva l'intervallo.
Lui: E' un po' lento, però.
Lei: No, non è vero. E poi che ne sai. Hai dormito tutto il tempo. Ahahaha!
Il film riprende. Ci si avvicina al finale. Ora... se ritenete questo uno spoiler, vuol dire che siete potenzialmente il concorrente medio de "L'Eredità" o "La pupa e il secchione", di quelli che scambiano Stalin per Mussolini.
Arriva la notizia che Hitler è morto e si è sparato in testa (falso storico! La notizia della morte di Hitler fu tenuta segreta a lungo. Ma non importa, il film ha molto di fiabesco). Ad ogni modo... dietro di me...
Lui: Chi? Chi è che è morto? Chi si è sparato?
Lei: (sospirando) Hitler! Hitler si è sparato.
Lui: Aaaah! E' lento, però.
Il film finisce. Iniziano a scorrere i titoli di coda. Dietro di me.
Lui: Eh, che succede?!
Lei: Dai, sveglia. Il film è finito. Possiamo andare via.
Anch'io mi alzo per andare via. Le luci ora sono accese. Realizzo che non mi sono voltato neanche per un momento, neppure durante l'intervallo. Ora lo faccio e scopro una realtà che non mi aspettavo.
Nella mia testa, avevo visto una coppia, con un lui accompagnatore recalcitrante e annoiato, e una ragazza che alzava gli occhi al cielo. Oddio, quasi. Ma non proprio come me l'ero immaginata.
"Lei", dalla voce bianca, era un bambino di circa tredici o quattordici anni.
Lui, era il nonno (non credo fosse il padre, per l'età) cui il ragazzo spiegava il film che faticava a seguire. Mi sembrava un'usuale, antipatica dinamica di coppia, invece, forse, era una cosa carina.
Comunque "JoJo Rabbit" è questo. Un film pedagogico per bambini. Nel senso che parla all'infanzia e la educa. Anche un'infanzia anagraficamente cresciuta, magari. Può non essere perfetto. Anzi, non lo è. Ma di questi film, e di questi bambini (intendo come quello seduto dietro di me, che aveva evidentemente scelto il film da vedere) oggi ne abbiamo un gran bisogno.

mercoledì 8 gennaio 2020

Dracula di Moffat e Gatiss... è davvero da buttare?

Non si può negare che il "Dracula" realizzato da Steven Moffat e Mark Gatiss per Netflix abbia dei problemi. Li ha. E' un prodotto molto imperfetto. E per parlarne si deve partire da questo dato di fatto. Tuttavia, non mi trovo d'accordo con i pareri che lo bocciano in modo totale, in qualche caso con ferocia, e senza nessuna possibilità di appello. Si è usata molto la parola "trash", vocabolo entrato nell'uso comune senza restrizioni di sorta, e spesso applicato a qualunque cosa si giudichi semplicemente brutta, ma chissà perché nobilitandola con il ricorso a un vocabolo anglofono che a volte è stato usato anche per dire "spazzatura sì... ma nella quale ci piace rotolarci come porcelli". Credo (e il caso di questo Dracula di Moffat e Gatiss non è un'eccezione) che la parola "trash" sia spesso confusa concettualmente con la parola "kitsch". Anche kitsch, parola di origine tedesca dall'etimo incerto, presenta ambiguità. E' riferita generalmente al cattivo gusto, ma anche a determinate produzioni artistiche che fanno dell'eccesso la propria cifra stilistica. In qualche caso, kitsch diventa anche sinonimo di "sopra le righe" e di gusto per l'esagerazione. Tutti ingredienti che a seconda del contesto possono essere valutati negativamente o positivamente, a seconda anche dell'orientamento culturale e del gusto.

Tornando al Dracula di Moffat e Gatiss... E' vero. La scrittura è diseguale, e la miniserie in tre parti traccia una parabola discendente in cui la qualità (ma sarebbe meglio dire l'ispirazione degli autori) va scemando, fino a una scelta estetica e narrativa che non mantiene le promesse e va incontro alla conclusione in un modo che avrebbe potuto fare a meno dello scenario scelto, rendendolo in questo modo forzato e praticamente inutile.
Questo non esclude che la miniserie possa essere fruita con divertimento. Amo troppo il romanzo di Bram Stoker e ho visto troppe riletture del suo personaggio centrale per essere spietato nei confronti di questa nuova versione, che in fondo qualche cartuccia da sparare dimostra di averla. Di Dracula abbiamo visto rivisitazioni in chiavi molto disparate, serie, semiserie, decisamente parodistiche. La lettura grottesca, ma anche elegantissima di Roman Polansky in "Per favore non mordermi sul collo". Quella romantica e psichedelica di John Badham con Frank Langella nel ruolo del conte, ispirata a un dramma teatrale, e che ricalca (ma solo in parte) la versione storica di Todd Browning in cui Bela Lugosi incarnava Dracula. Il Dracula amante tormentato interpretato da Jack Palance ne "Il demone nero", e il Dracula villain fortissimo e belluino di Christopher Lee, un conte vampiro che abbiamo visto muovere anche in ambientazioni metropolitane moderne (con risultati non memorabili, è il caso di dirlo). Il Dracula antologico, polimorfo ed estetizzante di Coppola. Abbiamo avuto anche la miniserie italo-tedesca "Il bacio di Dracula" in cui Peter Bergen impersonava una versione del conte vampiro ambigua e volta alla seduzione omosessuale. Insomma, Dracula è un canovaccio, un codice palinsesto sul quale si è scritto e rappresentato di tutto. La "ditta" Gatiss e Moffat, è a sua volta un brand che ha fatto della revisione e della trasgressione il suo marchio di fabbrica. Prendere classici della letteratura e farne delle fantasie moderne (non necessariamente per ambientazione), mantenendo soltanto alcuni punti fermi iconici per poi rimodellare il tutto secondo una concezione pop, irrorata da abbondante humor nero britannico. Non è una ricetta perfetta. Anzi, non è neppure una ricetta, visto che gli approcci ai vari classici sono anche molto diversi tra loro. Ma il gioco, anche solo il tentativo, può essere divertente. Qualcuno ricorderà "Jekill", miniserie firmata anni fa dal solo Steven Moffat, in cui si rileggeva in chiave inedita il classico di Robert Louis Stevenson. Ebbene: "Jekill" era indubbiamente molto più riuscito di questo "Dracula". Ma la festa a cui siamo invitati è la stessa. Una fantasia, anzi una variazione sul tema, che prende direzioni impreviste. Con "Dracula" l'esperimento riesce a metà. E' il caso di dirlo. Il primo episodio introduce numerose varianti, ma seguendo di base gli spunti del romanzo di Stoker. Il secondo imbocca praticamente la stessa via, ma aumentando le trasgressioni e le rivisitazioni, e potrebbe in buona parte funzionare. Ma già nel finale qualcosa si inceppa, e ci lascia intuire che il progetto, interessante, sta per arenarsi. L'ultima, controversa puntata (la più debole delle tre, inutile girarci intorno) fallisce il climax del racconto, e svela le sue ultime carte in un contesto forzato. L'introduzione del personaggio di Lucy appare più che altro una citazione voluta, ma anche una lungaggine a quel punto evitabile. Certe scelte dei personaggi, una in particolare, risultano immotivate e inspiegabili. Il cambio di scenario (non un peccato in sé) azzoppa il gioco fino a quel punto abbastanza divertente, e risulta voluto, quasi stucchevole. Evitabile. Ed è un peccato, perché la risoluzione finale, il disvelamento di questa ennesima interpretazione del mito di Dracula e della sua essenza era interessante. Se condotto con il giusto climax avrebbe potuto spaccare, ma la ricerca dell'eccesso e del cambiamento continuo di registro penalizza tutto. Una conduzione più aderente agli atti del romanzo di Stoker, forse, avrebbe giovato di più. La sterzata invece porta la miniserie a sbattere, e infrange quanto c'era di buono e divertente.


Questo non significa che "Dracula" di Moffat e Gatiss sia un prodotto da cestinare. Ho letto critiche che definiscono il protagonista, l'attore danese Claes Bang privo del carisma necessario e lontano dal ruolo che gli è stato assegnato. Non sono d'accordo neppure su questo. Bang fa un lavoro del tutto diligente e in sintonia con il clima in cui il protagonista è stato inserito. Un Dracula aristocratico (con sprazzi della bestialità che caratterizzava Christopher Lee) che lascia trasparire gli atteggiamenti di un moderno serial killer in pieno delirio di onnipotenza. L'elemento del fattore "Zelig" legato al consumo del sangue è interessante. Van Helsing in versione suora atea e cinica, inoltre, l'ho trovato uno dei punti di maggiore simpatia della miniserie. Non solo un cambio di genere del personaggio, ma una variante complessa, che introduce anche un inedito rapporto tra i due antagonisti.
In definitiva... sì e no. Luci e ombre. Dolce e amaro. Non farei cadere la mannaia su questa miniserie, incompiuta, non del tutto riuscita. Senza promuoverla a must, ma neppure condannandola alla discarica.