Ci eravamo occupati più volte della vicenda del piccolo bullo palermitano che, avendo impedito a un compagno di scuola di usare i bagni degli uomini con le parole «Sei una femminuccia, un gay!» aveva subito la punizione della maestra: scrivere una quantità di volte sul quaderno la frase "Sono un deficiente".
Avevamo dato, con una certa soddisfazione, la notizia della sentenza di assoluzione, quando la famiglia del bullo aveva sporto querela. E già, perché viviamo in tempi strani. Una volta, se la maestra ti sgridava, in casa rincaravano la dose. Oggi esiste solo una solidarietà mafiosa con i propri rampolli a prescindere dall'esito della loro educazione e dai loro oggettivi torti.
E' con amarezza che diamo quindi oggi la notizia che in appello la maestra, oggi in pensione, è stata condannata. A gioire oggi sono il padre del bullo (che lamenta di essere stato costretto, dopo la punizione infame, a dover mandare il figlio dallo psicologo) e si suppone il bullo stesso, che crescerà convinto di essere stato perseguitato innocente.
Si può davvero parlare di abuso di mezzi di correzione laddove non si tiene in nessun modo conto della sorte (anche psicologica, ma a chi importa?) della vittima? Laddove un atto di bullismo risulta in ogni caso pericolosamente sdoganato e dove il ruolo dell'insegnante viene messo alle corde, intimidato a intervenire davanti ai soprusi?
Non aggiungiamo altro. Rimandiamo alla notizia nuda e cruda. Giudicate voi.
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giovedì 17 febbraio 2011
martedì 10 luglio 2007
Bullismo a Palermo: Un altro passo indietro
Vivendo in una società così miope, le cui istituzioni sembrano camminare all’indietro come i gamberi, pensare che la vicenda dell’insegnante, del piccolo bullo, e del genitore incazzato si sarebbe conclusa con la recente sentenza che assolveva la professoressa “perché il fatto non sussiste”, sarebbe stato da ingenui.
Ce lo dimostra prontamente il pubblico ministero Ambrogio Cartosio, presentando oggi appello contro la sentenza del gup di Palermo. La professoressa, che insegna in una scuola media, era stata accusata di abuso di mezzi di correzione per aver punito il bulletto costringendolo a scrivere 100 volte sul proprio quaderno la frase “Sono un deficiente”. Questo a seguito di un atto di bullismo, pare reiterato, nei confronti di un compagno, al quale era stato impedito l’ingresso al bagno con le parole “Sei gay. Non puoi entrare, vai nel bagno delle femmine”.
Nell’impugnare la sentenza che assolve l’insegnante, il pm Cartosio dichiara: "Il sistema adottato dalla docente per correggere lo studente è consistito nel costringerlo a insultarsi e rendere pubblica la propria autocritica: un metodo da rivoluzione culturale cinese del 1966".
Dichiara, inoltre, su qualche quotidiano che non c’è prova che il comportamento del bullo fosse recidivo, e che, per quanto censurabile, le frasi e i comportamenti usati nei confronti del compagno, con riferimenti alla sfera sessuale o ai costumi delle madri, fanno da sempre parte di una fenomenologia sociale inveterata nelle nostre scuole, e quindi da considerare totalmente fisiologica e “normale”.
Si evince, dunque, che per il pubblico ministero Cartosio non è, invece, normale reprimere questi atti di prevaricazione tra minori che non fanno presagire nulla di buono sulla loro progressiva formazione. E scomoda addirittura la Rivoluzione Culturale Cinese, per condannare una punizione scolastica in realtà molto più blanda e assai meno violenta dell’offesa che l’ha causata.
Se qualcuno ritiene che le parole del sostituto procuratore incoraggino i nostri giovani alla cultura della legalità, mi vedo costretto a dissentire. Il nostro è uno strano paese. E la figura del minore sembra essere diventata oggi l’ambiguo simbolo della sua difficoltà a maturare. C’è stato un tempo, per noi quarantenni, in cui l’infanzia era un mondo impervio, a volte spaventoso, e il bambino una creatura invisibile, in totale balia degli eventi influenzati dagli adulti. Poi nacque Telefono Azzurro, e fenomeni sempre esistiti, come abusi e violenze sui minori, diventarono palesi per tutti. Il passo successivo sarebbe dovuto essere una maggiore e più responsabile presenza del mondo adulto e delle istituzioni in quel territorio minato che è l’infanzia. Ma nel nostro bel paese abbiamo il brutto vizio (o il disturbo congenito) di digerire male ogni buona partenza. Il risultato, pare, è che oggi il bambino sia stato trasformato in un sacro feticcio da proteggere in modo tribale più che responsabile, spingendo spesso gli adulti a deviare dal cammino educativo pur di rispettare il nuovo dogma. Da qui una serie di situazioni ambigue, dove il concetto di protezione si confonde con quello di fanatismo e cecità sociale. Non a caso ultimamente udiamo sempre più spesso che genitori furiosi hanno aggredito insegnanti che avevano osato bocciare il figlioletto. Negli ultimi anni, il sistema non è maturato. E’ soltanto stato messo a testa in giù.
Lo dimostra la completa invisibilità dei diritti e del vissuto del bambino cui è stato impedito l’ingresso in bagno, defraudato dal suo ruolo di vittima a favore del persecutore. Poco importante, quasi inesistente, in quanto bersaglio, come è stato detto, di un “comportamento socialmente accettato”. Oggi, il pubblico ministero Cartosio invoca l’articolo 3 della Convenzione di Ginevra e parla di “tortura” e di “trattamento degradante” a proposito della punizione del bullo. Si continuano a ignorare le sofferenze e le possibili conseguenze psicologiche di chi subisce atti di bullismo (anche se per una volta soltanto), e viene di nuovo richiesta una sentenza che servirebbe solo a legare ulteriormente le mani alla classe docente, consacrando una volta per tutte il bullismo come un rito di passaggio “normale” e tollerabile.
Delle eventuali, devastanti conseguenze di situazioni simili, come il possibile suicidio delle vittime, la nostra società sembra voler continuare a non tenere conto. Forse non lo fanno neppure le famiglie dei piccoli perseguitati, dal momento che si sa: avere un figlio che non riesce a difendersi a scuola è una vergogna, averlo bullo è quasi un vanto. E se proprio dobbiamo parlare di Convenzione di Ginevra, che dovrebbero dire i tanti omosessuali italiani discriminati e insultati ogni giorno, per strada, sul lavoro, dappertutto?
Possiamo solo sperare che i successivi gradi di giudizio tronchino questa nefasta spirale che ci sta portando culturalmente indietro in modo forse irrecuperabile. E ricordare che le attuali argomentazioni del pubblico ministero Ambrogio Cartosio sottolineano la necessità impellente di legiferare contro l’omofobia e contro ogni forma di discriminazione. Affinché, se qualcuno compirà ai nostri danni una vigliacca azione vessatoria, ci si possa ancora sentire oltre che esseri umani, soprattutto cittadini, assistiti in quanto tali dalla magistratura, piuttosto che personaggi trasparenti, relegati a margine e ulteriormente umiliati.
giovedì 28 giugno 2007
Assolta l'insegnante di Palermo
Si conclude così, con una sentenza di assoluzione pronunciata dal gup di Palermo Piergiorgio Morosini, l’avventura dell’insegnante di scuola media accusata di abuso di mezzi di correzione ai danni di un alunno reo di bullismo. Ricordiamo che la professoressa aveva punito il dodicenne per avere impedito l’ingresso al bagno dei maschi a un compagno dicendogli “Sei gay, devi andare nel bagno delle femmine”. Lo aveva castigato imponendogli di scrivere cento volte sul quaderno la frase “Sono un deficiente”. Un purgante molto blando rispetto alle umiliazioni reiterate che questi aveva somministrato alla sua vittima. Ma si sa, chi sceglie di non tacere davanti ad atti di prevaricazione fa di se stesso un bersaglio. Così l’insegnante s’era vista denunciare da una famiglia che ha fatto la discutibile scelta di sostenere la condotta violenta del figlio piuttosto che educarlo al vivere civile.
Oggi, la sentenza del gup ci sembra magari ovvia. Diciamolo, una condanna sarebbe stata inconcepibile oltre ogni dire. Rimane grave la scelta del pm Ambrogio Cartosio di aver chiesto due mesi di reclusione per la condotta (in realtà legittima) della docente. Una scelta che, se convalidata dalla sentenza, sarebbe stata di supporto alla mentalità mafiosa ancora oggi (come questo episodio insegna) dilagante nelle nostre scuole.
Che segnale avrebbe mai dato la magistratura al paese condannando la professoressa per avere punito l’indegno comportamento di un bullo? Con quali occhi avremmo guardato, in seguito, alle successive campagne contro il bullismo, una volta che l’arroganza fosse stata tutelata dalla giustizia con maggiore puntualità delle vittime?
La solidarietà raccolta dall’insegnante in queste settimane ci fa pensare che i cittadini italiani, in netta maggioranza, vogliano una scuola diversa da un parcheggio dove i figli possano sfrenarsi senza nessun controllo. Il sit in dell’Associazione Omosessuale Articolo 3, davanti al tribunale in attesa della sentenza, deve farci pensare che dare del “frocio” e delle “femminuccia”, anche solo tra bambini in età scolare, non dovrà più essere considerata una cosa da niente. Uno dei loro cartelli recitava “Meglio un figlio mafioso che gay?”. Al di là delle risposte personali (tutti conoscono, ormai, l’opinione della famiglia del piccolo bullo palermitano), saggiamente, la magistratura ha detto “NO”. Se per una volta questa brutta storia non si è conclusa con il suicidio del ragazzo perseguitato, se per una volta un’insegnante ha deciso di non chiudere gli occhi davanti alla vigliaccheria e alla crudeltà, la sentenza di Palermo rappresenterà senz’altro un precedente.
Una piccola vittoria significativa, una speranza che i tempi possano presto cambiare. Che anche la scuola, e l’aria che vi si respira, possa rinnovarsi. E che la famiglia tradizionale, tanto decantata da qualcuno come unico modello possibile, possa diventare altro piuttosto che una fucina di bulli senza alcuna coscienza civile.
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