Si conclude così, con una sentenza di assoluzione pronunciata dal gup di Palermo Piergiorgio Morosini, l’avventura dell’insegnante di scuola media accusata di abuso di mezzi di correzione ai danni di un alunno reo di bullismo. Ricordiamo che la professoressa aveva punito il dodicenne per avere impedito l’ingresso al bagno dei maschi a un compagno dicendogli “Sei gay, devi andare nel bagno delle femmine”. Lo aveva castigato imponendogli di scrivere cento volte sul quaderno la frase “Sono un deficiente”. Un purgante molto blando rispetto alle umiliazioni reiterate che questi aveva somministrato alla sua vittima. Ma si sa, chi sceglie di non tacere davanti ad atti di prevaricazione fa di se stesso un bersaglio. Così l’insegnante s’era vista denunciare da una famiglia che ha fatto la discutibile scelta di sostenere la condotta violenta del figlio piuttosto che educarlo al vivere civile.
Oggi, la sentenza del gup ci sembra magari ovvia. Diciamolo, una condanna sarebbe stata inconcepibile oltre ogni dire. Rimane grave la scelta del pm Ambrogio Cartosio di aver chiesto due mesi di reclusione per la condotta (in realtà legittima) della docente. Una scelta che, se convalidata dalla sentenza, sarebbe stata di supporto alla mentalità mafiosa ancora oggi (come questo episodio insegna) dilagante nelle nostre scuole.
Che segnale avrebbe mai dato la magistratura al paese condannando la professoressa per avere punito l’indegno comportamento di un bullo? Con quali occhi avremmo guardato, in seguito, alle successive campagne contro il bullismo, una volta che l’arroganza fosse stata tutelata dalla giustizia con maggiore puntualità delle vittime?
La solidarietà raccolta dall’insegnante in queste settimane ci fa pensare che i cittadini italiani, in netta maggioranza, vogliano una scuola diversa da un parcheggio dove i figli possano sfrenarsi senza nessun controllo. Il sit in dell’Associazione Omosessuale Articolo 3, davanti al tribunale in attesa della sentenza, deve farci pensare che dare del “frocio” e delle “femminuccia”, anche solo tra bambini in età scolare, non dovrà più essere considerata una cosa da niente. Uno dei loro cartelli recitava “Meglio un figlio mafioso che gay?”. Al di là delle risposte personali (tutti conoscono, ormai, l’opinione della famiglia del piccolo bullo palermitano), saggiamente, la magistratura ha detto “NO”. Se per una volta questa brutta storia non si è conclusa con il suicidio del ragazzo perseguitato, se per una volta un’insegnante ha deciso di non chiudere gli occhi davanti alla vigliaccheria e alla crudeltà, la sentenza di Palermo rappresenterà senz’altro un precedente.
Una piccola vittoria significativa, una speranza che i tempi possano presto cambiare. Che anche la scuola, e l’aria che vi si respira, possa rinnovarsi. E che la famiglia tradizionale, tanto decantata da qualcuno come unico modello possibile, possa diventare altro piuttosto che una fucina di bulli senza alcuna coscienza civile.
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