sabato 16 dicembre 2023

Tumbbad

 


Tumbbad”, è un film horror indiano del 2018, diretto dall'esordiente Rahil Ani Barve. Naturalmente inedito nel nostro paese, ha però spopolato in più festival in giro per il mondo raccogliendo consensi a Sitges, alla 75a Mostra del Cinema di Venezia, al Brooklyn Horror Film Festival e molti altri, ottenendo un consenso raro sulla scena internazionale per una produzione di Bollywood. A riguardo, la sua natura è controversa, in quanto si discute se collocarlo sotto l'etichetta di Bollywood o quella di film Marathi, lingua parlata in India da un'alta percentuale di popolazione e utilizzata in una cinematografia peculiare, nonché in molta letteratura, tra cui il romanzo dello scrittore Narayan Dharap, cui “Tumbbad” si ispira. Resta il fatto che la sua origine hindi gli ha precluso la distribuzione nelle sale occidentali, per niente interessate a concedere spazio a pellicole estranee alle più collaudate dinamiche commerciali.


Ed è l'ennesimo peccato, perché “Tumbaad” è un film splendido in ogni sua singola parte. Nella sua natura di racconto fantastico e storico, pauroso e politico, e nella spettacolarità di un cinema che pur non giovandosi di cifre da blockbuster è in grado di invadere gli occhi e l'anima dello spettatore e mettere radici anche a visione conclusa.

1918, nel piccolo e miserando villaggio di Tumbaad, la madre del giovane Vinayak si prende cura, di un vecchissimo signorotto locale. Assistenza che include anche favori sessuali. La cosa va avanti da anni, e dalla relazione sono nati lo stesso Vinayak e un fratellino più piccolo. La famiglia della donna è considerata pariah e i tre vivono in condizioni di estrema povertà, sopravvivendo con le misere risorse che la madre riceve dall'anziano protettore. Nel palazzo dell'uomo si dice sia nascosto un tesoro inestimabile, oggi testimoniato da un'unica, pregiatissima moneta d'oro che il vegliardo ha promesso alla donna in cambio dei suoi servigi, ma che finora non le ha mai permesso di toccare. Tra le incombenze della donna c'è anche quella di prendersi cura della bisnonna dell'uomo. Una creatura decrepita e mostruosa, forse immortale, che passa la maggior parte del tempo dormendo e viene nutrita per mezzo di un imbuto. Un giorno, il fratellino di Vinayak ha un incidente e la madre è costretta a portarlo d'urgenza da un medico abbandonando le sue mansioni quotidiane. Toccherà all'inesperto Vinayak dare da mangiare alla vecchia strega, che rimasta sola col bambino, per la prima volta dopo tanto tempo, apre gli occhi...

Tumbbad” si presenta come un folk horror, ma forse gli si addice più la definizione di dark fantasy, in quanto è una fiaba nerissima e crudele, che intreccia la mitologia (in questo caso fittizia) e il racconto morale su uno sfondo storico suggerito ma comunque rilevante. Siamo in presenza di un film generazionale, che si apre sulle vicende di una povera famiglia in un angolo dell'India coloniale, attraversa il periodo della resistenza e del cammino politico del Mahatma Gandhi e si conclude all'indomani della rinconquistata indipendenza del paese dal governo britannico.

E' anche un film dall'evidente eco lovecraftiana, dove ai miti dell'orrore dello scrittore di Provvidence si sostituiscono elementi della cultura indiana e la temibile divinità Hastar, personificazione dell'avidità umana di cui solo pronunciare il nome porta disgrazia. Un orrore cosmico dalla valenza allegorica, reso per mezzo di una delle scenografie più suggestive e disturbanti che siano mai apparse sullo schermo.


Hastar è un'invenzione letteraria, ma la sua presenza nel racconto è perfettamente giustificata dalla narrazione di un mito ancestrale che fa del personaggio uno dei demoni più spaventosi che si possano incontrare. Divinità in catene, imprigionata per i suoi peccati dai numi della tradizione e condannata a essere dimenticata dall'umanità, ma eternamente in agguato nelle viscere della terra. La figura di Vinayak, prima fanciullo, poi uomo, è l'archetipo fiabesco del personaggio audace e determinato, le cui ossessioni innescano una spirale sinistra di eventi a orologeria. Non è un caso che in tanti abbiano paragonato alcuni aspetti del film di Rahil Ani Barve alle opere di Guillermo Del Toro, filmografia dove il fantastico e il macabro fanno da lanterna magica a dolenti pagine di storia e a una natura umana sostanzialmente fallace.

Tumbbad” è un film di spavento, avventuroso, mitico, sociale... ed è un film incantevole, fatto di suggestioni oscure, fiabesche. Insomma, un gran film che merita di essere visto.

Un film invisibile in Italia, che per essere recuperato rende necessario rivolgersi ai folletti dell'Internet se non al terribile e dimenticato nume Hastar. Se si cerca bene, esistono anche degli ottimi sottotitoli in italiano.


domenica 10 dicembre 2023

Doctor Who: The Giggle

 


Si conclude con “The Giggle” la celebrazione del sessantesimo genetliaco di “Doctor Who”, il longevo serial della BBC, il cui primo episodio andò in onda nel lontano 1963 e che tanto successo ha mietuto nel corso dei decenni, subendo un temporaneo arresto, qualche scossa in corsa, ma riuscendo comunque a tenersi a galla fino a oggi.

Che dire? Wow! Un senso di vertigine, tanta curiosità, e... l'esordio di Ncuti Gatwa nel ruolo del Dottore.

Il terzo dei tre speciali caratterizzati dal ritorno di David Tennant nei panni del quattordicesimo Dottore, dopo essere stato l'amatissimo decimo, chiude la trilogia in modo pirotecnico, e con una commistione tra vecchio, mediano e nuovo che lascia frastornati, ma anche curiosi di vedere come lo show andrà avanti.

Ormai è evidente che Russell T. Davies, artefice del primo rilancio della serie avvenuto nel 2005, si è messo comodo al timone di questo nuovo corso, riportando in scena atmosfere e situazioni collaudate, ma intenzionato anche a sperimentare. Lo dimostra il ritorno in scena di Mel Busch, compagna del sesto e del settimo Dottore, sempre interpretata dall'attrice Bonnie Langford, e soprattutto del Giocattolaio, avversario comparso nella terza stagione dello show, nel 1966, e scontratosi con il primo Dottore a pilotare il Tardis, il venerando William Hartnell.


Parliamo di un ciclo di tre episodi intitolato “The Celestial Toymaker”, i cui primi due capitoli sono andati, aimé, perduti e oggi esistono solo in forma novellizzata. Sopravvive l'ultimo segmento della trilogia, in cui il Dottore e i suoi due compagni dell'epoca, Dodo e Steven, si scontravano con la potente entità chiamata Toymaker, che allora aveva il volto dell'attore britannico Michael Gough (lo ricordiamo, tra le tante apparizioni, nel ruolo di Alfred Pennyworth, nei due Batman di Tim Burton e nei successivi capitoli diretti da Joel Schumacher).

Il Giocattolaio, creatura antica e quasi onnipotente, al di là di ogni etica, che esiste solo in funzione dell'azzardo del gioco, del divertimento e del puro caos. Un essere che sotto alcuni aspetti potrebbe rammentare per poteri e caratterizzazione Mr. Mxyzptlk, il diavoletto dimensionale nemico di Superman, e che oggi ha il volto di uno scatenato Neil Patrick Harris, perfettamente a suo agio in un ruolo insinuante e temibile.

Riesumare un villain così classico, finora mai ricomparso nella serie classica né in quella revival, non è una scelta casuale. Davies, dicevamo, parla di passato e futuro, di canone e di rovesciamento delle prospettive. Da un lato si dimostra uno dei migliori architetti possibili cui affidare le sorti dello show (Chris Chibnall, con le sue innovazioni fallimentari, è già un pallido ricordo). Dall'altro, si rivela pronto a svecchiare i moduli e prendere il largo facendo tesoro dei nuovi mezzi a sua disposizione.

The Giggle” è un vero caleidoscopio. Tra gli ingredienti troviamo l'horror (che nelle avventure del Timelord è di casa) e la satira sociale, con un fugace ma corrosivo riferimento alla pandemia da Covid-19 e a certo complottismo (scommetto che qualcuno si incazzerà). L'elemento gotico si esprime al meglio parlando di giocattoli e di temi infantili che diventano sinistre sfide. Lo stesso primo incontro con il Toymaker, in fondo, echeggiava il modello di gioco mortale che oggi conosciamo bene grazie a film e prodotti seriali di successo come “As the Gods Will”, “Alice in Borderland” e soprattutto il gettonatissimo “Squid Game”.

E' quasi una resa dei conti con un discorso lasciato in sospeso tanto tempo fa, ma anche la ricerca di una linea di demarcazione e di un nuovo punto di partenza. Tutto deve restare simile affinché lo show non si snaturi e vada avanti, ma nello stesso tempo deve cambiare pelle. Vecchi avversari che risorgono, altri nascosti nell'ombra, veloci riassunti delle saghe precedenti... e il nuovo Dottore, il Quindicesimo, pronto a iniziare il suo viaggio.


Il twist finale proposto da Russell T. Davies può risultare ostico da mandare giù. Io stesso, inciampato mesi fa in uno spoiler precoce, non so dire quanto mi senta convinto. Tutto sta a vedere come sarà gestita la cosa in futuro. In nostro aiuto, però, accorre una riflessione che mi è molto cara. E cioè che le storie non contano solo per gli accadimenti che ci mostrano, ma vivono nei simboli che ci invitano a interpretare. L'invenzione di Davies per traghettare il ciclo precedente verso la nuova stagione (che ricordiamo: sarà indicata come Prima e non come quattordicesima, secondo la numerazione del revival), si presta a una lettura fortemente allegorica. Lo show, sembra dirci Russell T. Davies, aveva bisogno di tagliare un traguardo, ribadire alcuni principi fondamentali cui resterà sempre fedele, ma anche di prendere il volo alla scoperta di nuove direzioni da scoprire. Il temporaneo ritorno di Catherine Tate e la sua rinnovata condizione di compagna del Dottore, ha la medesima funzione del recupero di David Tennant come protagonista. L'esigenza umanissima di avere un lieto fine, un punto di arrivo, il raggiungimento di un porto sicuro in cui fermarsi e godersi un meritato pensionamento. Ad andare avanti ci penseranno le prossime generazioni.


Non si tratta solo di salutare la parentesi firmata da Chibnall, ma anche quella scritta da Steven Moffat, ribadendo che il Dottore è un'idea, un'invenzione anarchica in continua evoluzione, e pertanto è libero da qualsiasi vincolo di continuity, pur riservandosi nostalgiche reunion di quando in quando.

Lo scrittore Neil Gaiman, nel suo “Sandman”, a conclusione del ciclo intitolato “La stagione delle nebbie”, scrive che chiunque può avere la sua storia a lieto fine. E' sufficiente trovare un cielo azzurro, un prato verde, un luogo dove ci si sente in pace. Sedersi, guardare il tramonto e semplicemente... smettere di leggere.

Qualcosa che nella vita reale non è possibile, ma che la fantasia e una brillante scelta di scrittura possono realizzare. Sempre che la smania di spin off non ci metta del suo. Ma questo è tutto da scoprire.

Pertanto: benvenuto, Quindici. Non vediamo l'ora di scoprire cosa farai a Natale, l'ultimo degli speciali di quest'anno che segnerà l'inizio ufficiale della prossima stagione. Nuovi viaggi, nuovi compagni, nuove sfide alle convenzioni da parte di chi è capace di evolversi, di cambiare.

E un sentito vaffanculo agli idioti che alla notizia del casting di Ncuti Gatwa hanno commentato affermando che skipperanno schifati la nuova stagione, caratterizzata da questa scelta “politicamente squallida”, buona solo per eccitare gli sciocchi “woke”.

Doctor Who, per fortuna, vola sopra tutto questo. E rimane lo show più progressista (e queer) di tutti i tempi.

Buon viaggio, Fourteen.


mercoledì 6 dicembre 2023

Godzilla Minus One

 

Alla fine sono riuscito (facendo salti mortali, vista la programmazione per me problematica) a vedere "Godzilla Minus One", di Takashi Yamazaki, regista che conoscevo soprattutto per i suoi film ispirati a manga: "Space Battleship Yamato", "Kiseiju parte 1 e 2". "Godzilla Minus One" riporta il primo dei kaiju alle sue radici giapponesi dopo anni di brandizzazione americana, e ricomincia da zero, con la prima apparizione del mostro, collegata (anche metaforicamente) alle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki.

Il film di Takashi Yamazaki, però, è qualcosa di più di un semplice reboot. Oggi, forse, lo definiremmo "reimaging", la nuova visione di un mito. Il racconto, infatti, stavolta inizia durante la fine della seconda guerra mondiale (il film originale diretto da Ishirō Honda nel 1954 si svolgeva nella sua contemporaneità) , e procede negli anni di ricostruzione del Giappone, in un clima politico delicato e instabile, dove la presenza statunitense (solo suggerita nel film) rappresenta un'ulteriore condanna dopo la devastazione causata dall'attacco nucleare.


La venuta di Godzilla diventa così il simbolo di conflitto irrisolto, anche interiore, così come la metafora di un pianeta squarciato, che non potrà più essere lo stesso e presenta catastrofi immani che di naturale ormai hanno poco. Una guerra destinata a non finire mai, negli animi di uomini e donne come nelle ferite del pianeta violato.


A metà strada tra il disaster movie, il monster movie e il melodramma (ebbene sì), "Godzilla Minus One" è un film spettacolare e intenso (la scena della distruzione di Tokyo è un colpo al cuore), che non lesina una buona dose di introspezione.

L'attore Ryūnosuke Kamiki, qui più maturo dopo le prove di "Bakuman" e "As the Gods Will", interpreta un kamikaze disertore, tormentato dal passato e in cerca di riscatto, proprio come la società giapponese, ridotta in ginocchio dalla guerra, ma anche dalle scelte scellerate dei propri governanti. Il kaiju come spunto di redenzione sociale, mentre il film di Yamazaki si mantiene in equilibrio tra l'avventura di mostri e il dramma, in un modo assolutamente inedito per un film del genere.

L'ottima notizia è che, dopo l'annuncio di soli sei giorni di programmazione, la sala palermitana che lo proietta (unica e sola) ha fatto sapere che prolungherà le proiezioni fino al 13 dicembre.

Una scelta forse motivata dall'evidente affluenza di un pubblico interessato, probabilmente non prevista per un film in lingua originale sottotitolato in italiano.
Ogni tanto, il pubblico sorprende. Ne sono contento.

Vai, Godzy. Spacca tutto quello che puoi. Parlando di botteghini, ovvio.



martedì 28 novembre 2023

Un'altra serialità è possibile - Seconda Parte


Torniamo a parlare di serialità alternativa. Niente di trascendentale o particolarmente trasgressivo. Semplicemente serie che pur avendo motivo di interesse non godono della ribalta mediatica riservata ad altri titoli, citati, discussi, analizzati nel dettaglio con cadenza regolare.

Ecco dunque una seconda infornata, e ricordate che non si tratta di una classifica, ma solo di una lista di serial da me ritenuti consigliabili.


Gli orrori di Dolores Roach – basato su uno spettacolo teatrale in seguito adattato in podcast, narra la storia di Dolores, compagna di un piccolo boss di quartiere a Manhattan. Un giorno la donna si ritrova incastrata per i traffici del convivente, e sconta sedici anni di prigione mentre l'uomo scompare senza lasciare traccia. Una volta uscita, tenta di riprendere faticosamente in mano la sua vita praticando massaggi, ma qualcosa va inevitabilmente storto, innescando una spirale di omicidi, cannibalismo e colpi di scena. The Horror of Dolores Roach è un teatrino del grand guignol retto tutto sulle spalle dell'istrionica Justina Machado, in cui grottesco e humor nero la fanno da padroni dall'inizio alla fine. Lo trovate su Prime TV.


From
– Curioso il fatto che di From si parli così poco. Eppure sembra piacere a tutti quelli che lo guardano. Anche la critica lo ha accolto piuttosto bene. Due stagioni (finora, una terza in produzione) di dieci episodi l'una. Un ritmo serratissimo e un concept abbastanza pauroso da togliere il sonno. Da qualche parte, non si sa dove, esiste una cittadina fantasma. Le persone vi capitano per caso mentre viaggiano su strade che conducono tutte in posti diversi. Il problema è che non appena arrivati non è più possibile andarsene. Si è in trappola e si diventa preda di creature sanguinarie e sadiche che fanno a pezzi chiunque gli capiti a tiro. L'unica cosa da fare è organizzarsi, darsi regole e cercare di condurre una parvenza di vita normale. Almeno fino al tramonto, quando i mostri iniziano la loro caccia. Le parentele con Lost (con cui condivide uno dei protagonisti, l'attore Harold Perrineau) sono palesi. Un luogo enigmatico dove si manifestano fenomeni soprannaturali. Una comunità di persone disperse costrette a convivere con una minaccia costante e tante domande in attesa di risposta. Il punto è che From funziona, spaventa e diverte. Per essere l'epigono di un cult ha una sua forte personalità, e merita la visione. Su Paramount +.



The Watcher – Poliziesco? Mistery? True crime? The Watcher è una strana creatura televisiva, che si dice ispirata a fatti realmente accaduti. Basata in particolare su un articolo di giornale che avrebbe sviscerato l'inquietante vicenda relativa alla casa maledetta di Westfield nel New Jersey. La famiglia Brannock, padre, madre e due figli, acquista una casa che sembra perfetta per condurre una vita comoda e tranquilla. Una vera casa dei sogni. Qualcosa, però, inizia subito ad andare storto. I vicini sono strani, invadenti e misteriosi. Ma soprattutto qualcuno inizia a scrivere loro delle lettere poco rassicuranti. Qualcuno che sembra sapere tutto della storia precedente della casa, degli eventi che vi si sono svolti, e che osserva i nuovi abitanti con intenzioni non proprio amichevoli. E' l'inizio di un incubo. Lo trovate su Netflix. 



Shrinking – Strizzacervelli allo sbando. Il dramedy (ma che pende più sul comedy) prodotto da Apple TV è una piccola perla di ironia garbata. Scherzare sulla psicoterapia e i terapeuti è un classico, ma qui si fa sul serio. Per ridere, ovviamente. Jason Seagal, che figura anche tra gli ideatori dello show, dipinge un ritratto agrodolce di padre, marito vedovo e terapeuta che si rivela più in crisi dei suoi pazienti. Ma tutto il cast è al massimo, compreso un Harrison Ford in formissima e l'esplosiva Jessica Williams. Se non lo avete ancora visto, potete recuperarlo su Apple TV+.


Calls – Una delle serie più sperimentali degli ultimi anni. Calls, infatti, si presenta come serie televisiva, ma sotto molti aspetti avrebbe potuto essere un podcast. La serie ideata dal regista Fede Alvarez per la piattaforma Apple TV, è una sorta di provocazione antitelevisiva estrema, più vicina al radiodramma. Ogni episodio riproduce una conversazione telefonica mentre sullo schermo lampeggiano astratti disegni geometrici. L'intero racconto è racchiuso nelle parole, nelle reazioni di chi parla e negli eventi che descrivono. Siamo dalle parti della fantascienza, ma anche del soprannaturale in un'accezione più ampia. Quasi un “Ai confini della realtà” senza il supporto delle immagini. Stranissimo e suggestivo. Su Apple TV+, ultimamente generoso di proposte originali.


Le Fate Ignoranti - La Serie – A circa vent'anni dall'uscita in sala del suo film omonimo, il regista Ferzan Özpetek riprende temi e personaggi e confeziona una serie televisiva per Disney+. Era proprio necessario? A essere pignoli no. Eppure la versione seriale de Le Fate Ignoranti non è affatto spiacevole. Qualche cambio di prospettiva sacrifica un po' il twist iniziale del film, ma i nuovi interpreti sono simpatici, e l'approfondimento delle storyline dei comprimari interessante. Un'occhiata, dopotutto, la merita. Come già detto: su Disney+.



Full Monty – La serie – Da Full Monty, il film di Peter Cattaneo, di anni ne sono passati invece quasi trenta. In questo caso non siamo in presenza di un remake, ma di un seguito parecchio tardivo. Anche qui è lecito interrogarsi sul senso dell'operazione. E anche qui la risposta potrebbe essere: perché no? Full Monty – La serie non è una mera riproposizione dello stesso spunto del film del 1997, ma una rimpatriata con i suoi personaggi invecchiati, e un aggiornamento di alcune dinamiche sociali che purtroppo non sono troppo cambiate. Un cast di attori in gran forma, delle divertenti trovate narrative, dialoghi fulminanti e una trama agrodolce che conquista. A un vecchio amico non si nega un saluto affettuoso. Su Disney+.


Paranormal – Una serie egiziana sul soprannaturale prodotta da Netflix, ispirata a un ciclo di romanzi dello scrittore Ahmed Khaled Tawfik. Qualcosa di insolito, per noi occidentali, abituati a osservare il tema del paranormale attraverso le maglie di una cultura completamente diversa. Paranormal narra le vicende di Refaat Ismail, medico egiziano che a seguito di un trauma infantile ha sviluppato un atteggiamento difensivo freddo e rigidamente razionale. Eppure sembra che qualcosa che non appartiene a questo mondo abbia preso a seguirlo e a insinuarsi nelle vite di tutti quelli che gli sono vicini. Una catena di eventi terrificanti apparentemente slegati tra loro, ma in realtà connessi da un obiettivo finale. In bilico tra horror, commedia e dramma, Paranormal è un piccolo gioiello che attinge a miti e leggende metropolitane dell'Egitto per raccontare il rapporto dell'umanità con l'ignoto. L'attore Ahmed Amin, famoso in patria per i suoi ruoli comici, interpreta qui un personaggio indimenticabile, il cui scetticismo granitico è messo a dura prova. Da scoprire su Netflix.



The Lefovers – E' una serie del 2014, conclusa nel 2017 dopo tre stagioni. Mi si potrebbe obiettare che è passata di cottura. Ma la inserisco ugualmente nella lista per un motivo molto valido. Tuttora è una serie sottovalutatissima e vista solo da pochi eletti volenterosi. Ed è un peccato, perché stiamo parlando di una delle serie televisive più belle, strane e ben scritte da che ho memoria. Al timone c'è Damon Lindelof, che recupera alcuni degli espedienti di sceneggiatura usati in Lost per narrare una storia corale che sotto certi aspetti ha tutte le carte in regola per contendere il trono al celebratissimo cult. Alla base di The Leftovers c'è il romanzo omonimo (in Italia si intitola Svaniti nel nulla) di Tom Perotta. Un giorno, senza nessuna spiegazione, il 2% della popolazione mondiale scompare senza lasciare traccia. Un evento mistico? Un enigmatico piano alieno? Il misterioso accadimento stravolge la vita sul pianeta in termini culturali suscitando le più sconcertanti reazioni personali e di massa. Il romanzo di Perotta è interamente adattato nella prima stagione, mentre le successive due sono il risultato del lavoro di scrittura di Lindelof, cui l'autore originale ha comunque fornito assistenza come supervisore. Una saga enigmatica a cavallo tra dramma e mistery, magnificamente interpretata. Da vedere. Attualmente si trova su Netflix.



The Midnight Club – La penultima delle serie ideate da Mike Flanagan per Netflix, e forse quella meno chiacchierata. Sicuramente meno della miniserie Midnight Mass. Quasi niente a confronto della recente The Fall of the House of Usher, che chiude la lunga collaborazione del regista con la piattaforma streaming. Come mai? E' vero che la serie è stata cancellata dopo appena una stagione, e questo non è mai un bel biglietto da visita. C'è da considerare anche il tema, non troppo allegro, ispirato al romanzo di Christopher Pike. Il Rotterham è un hospice, cioè una struttura ospedaliera che ospita malati terminali che trascorrono tra le sue mura le loro ultime settimane di vita. Compito dell'istituto è rendere quanto più agevole il loro cammino verso il crepuscolo. Il Rotterham è specializzato nell'accogliere pazienti molto giovani, cosa che rende ancora più tragico il concept di base. I ragazzi affrontano la situazione ognuno a suo modo, e cercano la catarsi in riunioni di mezzanotte in cui si raccontano storie paurose. Il patto che li lega è che quanti di loro andranno via per primi dovranno fare di tutto per contattare gli altri, e dimostrare che una vita dopo la morte esiste. 

La cancellazione della serie non deve scoraggiare la visione dell'unica stagione esistente. In primo luogo perché la qualità è alta. In secondo perché, sebbene Flanagan abbia poi pubblicato un articolo in cui rivelava i suoi piani per il seguito mai girato, l'unica stagione di The Midnight Club si regge benissimo in piedi da sola. Le ambiguità, le domande senza risposta, hanno tutte una funzione allegorica che si incastra perfettamente nel clima del racconto. La resistenza alle avversità della vita, il valore dell'amicizia e l'accettazione della morte. Non è affatto impossibile riuscire a rispondere da soli agli elementi (in verità pochi) rimasti insoluti. Siamo davanti a dei simboli, e i simboli vanno interpretati più che spiegati. Quindi date una possibilità a The Midnight Club, che in definitiva è uno show più speranzoso e ottimista di quanto ci si potrebbe aspettare. Ruth Codd, qui al suo esordio, è strepitosa, e fa sempre piacere rivedere Heather Langenkamp. Su Netflix. 



domenica 26 novembre 2023

Doctor Who: Speciale 60 - Star Beast

 



Il Dottore è tornato.

Russell T. Davies è tornato.

E' tornato David Tennant.

E' tornata Catherine Tate.

E siamo tornati noi. I whovians, il pubblico.

Credo.

Diciamo che il primo episodio speciale prodotto in occasione del sessantesimo compleanno dello show iniziato nel lontano 1963, sa farsi voler bene. Non solo per una serie di graditi ritorni su schermo, ma per l'emozione generale che suscita in molti spettatori affezionati. La sensazione di essere tornati finalmente a casa, dopo un porzione di viaggio strana, lunga... non sgradevole, ma neppure confortevole. La run curata da Chris Chibnall e interpretata da Jodie Whittaker nel ruolo del tredicesimo Dottore, infatti, pur presentando elementi intriganti non era stata esattamente il massimo. Chibnall aveva ingranato la marcia e intrapreso sentieri impervi, forse animato da un'ansia di rinnovamento non del tutto ponderata che più che altro aveva portato caos nello show, presentando twist narrativi che allontanavano il personaggio centrale dalla sua visione originale e ne minavano i presupposti più amati. Anche la scrittura di molti episodi non era stata gran che ispirata. Il ritmo s'era rivelato spesso fiacco. La scelta di introdurre una squadra di comprimari al posto della tradizionale spalla unica aveva appesantito la narrazione anziché arricchirla, e tutto l'impianto aveva finito col soffrirne perdendo freschezza. Nel complesso, una sensazione di potenziale sprecato.

E adesso?

Questo speciale che inaugura un nuovo corso è davvero così bello?

Non si tratta di questo. Tutto è ancora da scoprire. Anche perché sappiamo già che il ritorno di David Tennant, quattordicesima incarnazione del Timelord che riprende uno dei suoi volti più carismatici, è soltanto temporaneo, e l'hype per conoscere il vero nuovo Dottore, l'attore angloruandese Ncuti Gatwa è alto.

Allora perché questo entusiasmo?

L'ho detto nelle prime righe. La sensazione, almeno per adesso, è quella di un felice ritorno alle origini. Non solo per il riapparire di volti noti, ma per la scrittura, il modo di narrare il protagonista e il suo rapporto con il resto del cast. Un riallineamento che fa ben sperare.

Lo speciale intitolato “Star Beast” è l'inizio di un nuovo percorso che si ammanta di nostalgia e promette di recuperare il tempo perduto. I toni trascurati nelle stagioni precedenti. Ed è curiosamente... un cinecomic.

Sì, perché l'ossatura dell'episodio si basa su un fumetto, uno dei tanti episodi disegnati che sono stati dedicati al Timelord nel corso dei suoi sessantanni di vita.

Star Beast” nasce nel 1980 come storia a fumetti pubblicata dalla Marvel Comics UK, sceneggiata da Pat Mills e John Wagner (ideatori di Judge Dredd) e disegnata da Dave Gibbons (che qualche anno dopo avrebbe realizzato il celeberrimo “Watchmen” su testi di Alan Moore). L'avventura vedeva come protagonista il Dottore televisivo al tempo in carica, il quarto per la precisione, interpretato dall'attore Tom Baker, e metteva al suo fianco Sharon, la prima companion afro della storia.

A più di quarant'anni di distanza, Russell T. Davies attinge a quel racconto a fumetti, lo vernicia, lo svecchia e lo innesta sulla nuova mitologia televisiva, mettendo al centro un evento che i fans attendevano da tempo: la reunion del Dottore con Donna Noble, la compagna più insolita dello show, e anche una delle più sfortunate, riprendendo le fila di un discorso lasciato in sospeso parecchi anni fa.


Che dire, quindi?

Per cominciare, che è bello rivedere vecchi amici e sperimentare le sensazioni di un tempo. Che David Tennant fosse nato per impersonare il Dottore era una cosa già metabolizzata. Il suo ritorno, sia pure breve, nello show non può che suscitare entusiasmo oltre che clamore. Lo stesso vale per Catherine Tate e la felice chimica che ancora oggi si avverte tra i due attori. E poi c'è Rose. Una nuova Rose (nomen omen), interpretata dall'attrice transgender Yasmine Finney, traghettatrice per un nuovo corso, portatrice di istanze potenti, e di una battuta chiave che farà scoppiare il fegato agli avversatori della cultura woke, già di malumore dall'annuncio del casting di Ncuti Gatwa come primo Dottore nero.


Ma Doctor Who è sempre stato questo. Uno show proiettato nel futuro. Pazzo, anarchico e meravigliosamente queer. Chi pensava che il ritorno del Timelord al genere maschile rappresentasse un passo indietro su un determinato fronte, resterà deluso. E sono solo cavoli suoi.

Di Doctor Who ci piace proprio questo. La sua capacità di cambiare, di adattarsi, magari di sbagliare e fallire, come la run imperfetta gestita da Chibnall. E la possibilità di tornare indietro, ma conservando lo sguardo all'oggi, al domani, alla possibilità di un mondo migliore, facendo battere i suoi due cuori. Quello del protagonista e quello condiviso dal suo pubblico in tutto il mondo.