giovedì 26 marzo 2020

The Invisible Man



In questo momento buio, la distribuzione di tanti film è rimandata a data da destinarsi. Ma qualche scelta differente fa discutere. La Universal ha infatti deciso di anticipare l'uscita per lo streaming di una manciata di film. "Emma", "The Hunt" e "The Invisible Man". Per quanto sia un peccato che film interessanti e attesi non possano attualmente essere visti in sala, è consolatorio poter fruire di alcune novità nonostante il periodo dell'isolamento. C'era, infatti, una discreta aspettativa circa il nuovo "Uomo Invisibile" di Leigh Whannell. Pellicola che si presenta come un possibile nuovo inizio del progetto che doveva intitolarsi "Dark Universe", e si proponeva di essere una rivisitazione moderna dei classici horror che la Universal produsse a partire dagli anni 30 del ventesimo secolo. Parliamo, quindi, di una nuova versione de "L'Uomo Invisibile" di H. G. Wells e dell'omonimo film diretto da James Whale nel 1933 con Claude Rains protagonista. Quel che va detto subito è che il film di Whannell (che aveva diretto il piacevole "Upgrade") non è esattamente un remake dell'opera di Whale. Non potrebbe, non vuole esserlo. Possiamo dire che le somiglianze con il film del 1933 e il romanzo di Wells sono soltanto il concetto dell'invisibilità e il nome del villain. Detto questo, il film di Whannell naviga su ben altre rotte, e per una volta il panorama è molto interessante. Un modo per reimmaginare il topos narrato da Wells alla luce di una sensibilità aggiornata, rendendolo specchio di una realtà inquietante. “The Invisible Man” si potrebbe ascrivere alla fantascienza, ma la scelta estetica vira decisamente nei territori dell'horror. Di un horror sociale, peraltro, simbolico, in cui la paura e il sangue dipingono mali contemporanei. Bastano i primissimi dieci minuti di “The Invisible Man” per mettere un'ansia insostenibile. Una sequenza quasi muta, ma che comunica più di una valanga di parole, descrivendo in poco tempo un inferno e un senso di angoscia che già da soli sono sufficienti a suscitare nello spettatore un disagio incredibile. E il film è soltanto all'inizio.
E' facile prevedere che, a visione ultimata, non mancheranno le segnalazioni di qualche buco logico, ma per una volta... lasciamoli perdere. “The Invisible Man” va visto come un'allegoria da guardare in prospettiva non come lavoro geometrico. E da quel punto di vista funziona alla grande. Ha ragione da vendere chi lo ha paragonato, per forma e intenti, a “Babadook” di Jennifer Kent. Anche in quel caso, l'orrore era un pretesto per parlare di un antico male del quotidiano, un incubo da vivere e da riconoscere come proprio... o del proprio vicino. E questo “Uomo Invisibile” è uno dei terrori peggiori del nostro tempo, proprio perché non viene visto, non è riconoscibile, non ha un volto, e di conseguenza non esiste. O così vuol farci credere. Così ci fa comodo credere. Elisabeth Moss (vista ne “I Racconti dell'ancella”) rappresenta il punto di vista (!) e vero cuore del film. La sua espressività, suscita un'empatia cruciale che deve fare riflettere. La minaccia narrata dal film, che per una volta non riguarda un genio folle che usa la sua scoperta per andare alla conquista del mondo, può essere letta in modo più o meno circoscritto o in modo più o meno esteso. E quello che vediamo... Anzi, quello che non riusciamo a vedere, fa paura. Maledettamente paura.


lunedì 23 marzo 2020

El Hoyo (Il Buco)


Il film "El Hoyo" presentato da Netflix, rappresenta uno di quei casi in cui gli odiati servizi di streaming possono rendere possibile la visione di opere interessanti, che magari non avremmo visto e che potrebbero giacere nel dimenticatoio per molto tempo. Al di là di queste riflessioni, "El Hoyo" (intitolato "The Platform" per il mercato internazionale, e in Italia "Il Buco", con lungimiranza incommentabile), sta facendo discutere molta gente. Tanti ne sono entusiasti. Altri sconcertati. Qualcuno ritiene di riconoscere influenze di opere già viste. Altri ancora ne lodano gli intenti metaforici, accettando gli aspetti più esoterici di una trama che lavora in sottrazione. Opera prima del regista spagnolo Galder Gaztelu-Urrutia, "El Hoyo" (perché non tradurlo "La Fossa", cazzo?!) è una vera sorpresa, che magari non brillerà in modo particolare per originalità, ma che se recupera semi del passato lo fa con criterio, stile, e ottime intenzioni in larga parte ben realizzate. Non è semplice parlarne. In primo luogo perché è uno di quei racconti di cui è meglio scoprire il meccanismo poco per volta. In seconda istanza, perché presenta un curioso e riuscito mix di generi pur non essendo (a sorpresa) un vero film di genere. Potremmo parlare di fantascienza distopica, di horror (sotto parecchi aspetti), di thriller, e di apologo politico. Ma anche mistico, filosofico. "El Hoyo" è anche un ottimo esercizio di stile in cui un pugno di attori, tutti molto bravi, riescono a creare un microcosmo angosciante da uno scenario ridotto e da un'idea semplicissima nella sua crudeltà. Chi conosce e apprezza il teatro dell'assurdo di Samuel Beckett potrebbe avere qualche dejavu da incubo. La costrizione, il senso di vuoto morale, la mostruosità di personaggi che hanno perso quasi del tutto la loro umanità. Finita la visione del film, è lecito interrogarsi in quale misura il messaggio (neanche tanto) nascosto verta sulla rappresentazione allegorica di un ordinamento sociale in classi dove l'incapacità di collaborare destina tutti all'abisso o sulla ricerca di una ragione per andare avanti nonostante tutto, nutrendo la speranza nel domani per i posteri se non per se stessi. Ma un'opera veramente riuscita formula domande e incita alla riflessione più che elargire risposte. E "El Hoyo" questo lo fa. Lo fa dannatamente bene, mettendo in scena un dramma dove conta molto il dialogo, la parola e le atmosfere. Davvero un bell'esordio per un regista che incoraggiato su questa strada potrebbe offrire meraviglie in futuro.

giovedì 19 marzo 2020

Cronache del coprifuoco...

Cronache del coprifuoco...

19 Marzo, San Giuseppe. Festa grande a Palermo. Festa di tradizioni... irrinunciabili. In questi giorni di coprifuoco, la fila fuori del panificio, in cui si entra solo due clienti alla volta, non era mai stata così lunga. Ma non era questa la cosa che balzava agli occhi. Nell'uso diffuso delle mascherine (servono, non servono, in che misura servano... non spetta a me dirlo), dilaga sempre più il trend di tenere il naso fuori. Coprendo, insomma, soltanto la bocca. Cosa già incomprensibile di suo, considerata la necessità di coprire le vie aeree. Ma altrettanto frequente è diventato l'uso incomprensibile di tenerle abbassate, o penzoloni, sul petto o dondolanti da un orecchio. La distanza in fila si tiene come si può. Raramente, vedo, è più di un metro scarso. Non so più dove mi devo piazzare, e lotto per non cedere alla paranoia. Un mendicante, un bellissimo anziano nero che nel quartiere conosciamo da anni, esce dal panificio mangiando una pizza che gli è stata offerta. Tò, solo il giorno prima aveva notato la totale assenza di questuanti, ma a quanto pare oggi è diverso. Forse perché è festa, e in un modo o nell'altro la gente fa compere. In tanti, infatti, chiedono se il panificio ha preparato le tradizionali sfince con la ricotta.
Due signori, in fila per il pane, si incontrano. Sono due amici che non si vedevano da un po'. Inizia un teatrino dell'assurdo, tra le risate dei due. Non possono toccarsi. Stringersi la mano, o scambiarsi baci sulle guance. Ma non riescono a rinunciare a qualche gesto simbolico. Un gesto della mano da distante non gli basta. No, uno dei due avanza sporgendo il gomito ridendo. Poi... si prendono a calci. Anzi, no. Si urtano le punte dei piedi, per aria, a calci volanti, per inventare una "stretta di piedi" forse a loro avviso loro più sicura. Solo che per farlo, magari, si sono avvicinati troppo. La fila nel frattempo cresce. Da lontano si avvicina una giovane nomade che spinge un bimbetto nel passeggino. Non vedevo da un po' neppure loro. Ha un fazzoletto legato sulla faccia. Chiede l'elemosina al mendicante nero (Ah!). Poi si rivolge a me. Troppo vicina. Ma che posso farci? Mi chiedo se arriveremo alla violenza quando la paranoia avrà raggiunto il giusto caglio. Io non ho spiccioli (e neppure un reddito, attualmente). Chi le dà qualcosa è uno dei signori che si sono salutati con i piedi.
Alla fine compro il pane e vado via. Se non una folla, quel gruppuscolo di varia umanità mi ha lasciato una sensazione di inquietante trasandatezza. Non so. Teniamo a bada la paranoia, le esplosioni di rabbia. Ma cerchiamo anche di essere prudenti. Per questo ho preso più pane, oggi. Magari domani non dovrò uscire.
Oggi, dopotutto, era festa.
Già. Festa.

mercoledì 18 marzo 2020

Riscoprire "Castaway on the Moon" durante la quarantena


Questo periodo di isolamento potrebbe essere l'occasione per recuperare (o rivedere) "Castaway on the moon", film sud-corano diretto da Lee Hae-Jun nel 2009. Una commedia agrodolce che dà molteplici spunti di riflessione sulla solitudine (vera o presunta), i possibili modi di arginarla, la riscoperta della fantasia per superare le difficoltà e una diversa modalità di interazione con gli altri, al di là delle convenzioni sociali e delle dinamiche di cui siamo in larga parte dipendenti. Un giovane uomo afflitto dai debiti e dal senso di fallimento, tenta il suicidio lanciandosi da un ponte nel fiume che attraversa la sua città. Ma si ritrova su un piccolo atollo, circondato dall'acqua, in un punto in cui nessuno può vederlo o sentirlo. Quindi naufrago di fatto sia pure vicinissimo alla civiltà da cui si era sentito schiacciato. Non sapendo nuotare, e non potendo lasciare l'isolotto, l'uomo cerca di sopravvivere come può, sfruttando gli oggetti che trova per imparare nuove pratiche, nuove forme di vita, e costruendo giorno dopo giorno una rinnovata forma di indipendenza. Da lontano, tuttavia, qualcuno che si accorge di lui c'è. Una ragazza con seri problemi di agorafobia e asocialità, quello che nel linguaggio orientale è definito hikikomori. Persone afflitte da problemi relazionali che le inducono a isolarsi in una stanza mantenendo con l'esterno solo contatti telematici. Il rapporto, stabilito attraverso mezzi tecnologici e un cannocchiale, getta un ponte emotivo tra i due soggetti isolati, e... E il resto è da scoprire. E amare. "Castaway on the moon" è un film semplicemente delizioso, fatto di dettagli e di un'idea potentissima nella sua tenerezza. Se vi sentite soli, annoiati, prigionieri, e non lo conoscete... cercatelo, scopritelo. Se lo conoscete già, meditatelo. Magari rivedetelo. Ci sono troppe cose date per scontate che contribuiscono a farci sentire soli e inermi se ci vengono sottratte all'improvviso. E l'arte, come questo bellissimo film è qui per ricordarci che le nostre risorse non sono poche, e che dobbiamo solo allungare la mano e darci da fare per scoprire che possiamo andare avanti comunque. E che ci sono tanti modi per smettere di essere soli, impauriti, alla deriva, naufraghi. Si può essere naufraghi. Ma sulla luna, e guardare le stelle da vicino. Vedete "Castaway on the moon". La bellezza può ancora salvare il mondo.

lunedì 16 marzo 2020

Die Farbe (Il Colore)


"Die Farbe" (letteralmente "Il colore") è un film indipendente tedesco del 2010 ispirato a "Il colore venuto dallo spazio" di H. P. Lovecraft. A parte la variante geografica, che ambienta la vicenda nella campagna tedesca, e qualche libertà, il film diretto da Huan Vu è molto più fedele alla fonte letteraria di tanti altri adattamenti. Il racconto è articolato in tre atti che rimbalzano su altrettanti piani temporali. Subito prima il secondo conflitto mondiale. Subito dopo la fine della guerra, e quindi molti anni più tardi, dal punto di vista del figlio di un ex militare americano che di recente è tornato a visitare la Germania, dove aveva vissuto una strana esperienza, facendo perdere le sue tracce. La vera peculiarità del film è la scelta di lavorare in sottrazione. Nessun effetto speciale vero e proprio, nessuna mostruosità evidente e in piena luce, ma solo tanta suggestione. Né più né meno dell'irriferibile portato in scena dallo scrittore di Provvidence nei suoi racconti. Un altro aspetto importante di "Die Farbe" è quello di essere una pellicola in bianco e nero, dove l'unico colore è quello maligno venuto da un'altra dimensione. Qui ancora più alieno, in quanto unico colore presente nel film. Curiosamente, anche qui parliamo di una sfumatura di fucsia, come avrebbe scelto molto tempo dopo Richard Stanley per la sua recente versione. Peccato per l'uso di una CGI molto approssimativa in alcune scene di cui si sarebbe potuto fare a meno. Peccato per un uso forse non del tutto equilibrato del contrasto tra fotografia in bianco e nero e colore fuori contesto. Idea molto interessante, ma che forse poteva essere sfruttata meglio e in modo più ossessivo. "Die Farbe" è comunque un esperimento interessante. E se vi chiedete se è migliore del recente film di Richard Stanley... Non credo abbia senso paragonarli. Troppa distanza formale, intenzioni troppo diverse, con la sola base del racconto di Lovecraft che rende i due film lontani cugini. Ovviamente è inedito in Italia, e nel dvd mancano i sottotitoli nella nostra lingua. Questi sono comunque reperibili in rete, nei consueti modi esoterici.



venerdì 13 marzo 2020

Swiss Army Man


Tra tutti i film stralunati, bizzarri, sorprendenti, "Swiss Army Man" occupa sicuramente uno dei posti più alti in classifica. Diretto da Dan Kwan e Daniel Sheinert (che firmano la regia in tandem con il nome "Daniels"), è una pellicola davvero difficile da inquadrare. Daniel Sheinert avrebbe in seguito diretto da solo "The Death of Dick Long", altrettanto curioso e spiazzante, ma meno... poetico. Possiamo dirlo? E' strano, ma un film weird (bizzarro) come "Swiss Army Man" può essere definito poetico? Considerato che durante il suo svolgimento (neanche lunghissimo, appena un'ora e trenta) oscilla tra la commedia (nera che più nera non si può), il dramma, il grottesco, il film surreale se non demenziale, e finisce con l'offrire persino spunti commoventi. E ho detto tutto se premettiamo che non mancano alcune scene e situazioni che potrebbero fare schifissimo, e che una buona parte del contrappunto (anche tematico) del film è fornito dai rumori naturali. Sicuramente ci troviamo di fronte a un film di attori, in cui Paul Dano ("Little Miss Sunshine", "Prisoners") e Daniel Radcliffe (che si è da tempo scrollato di dosso l'ingombrante identificazione con Harry Potter) danno il loro meglio, con un duetto virtuoso e un dialogo strampalato ma efficacissimo. Un giovane naufrago su un atollo in mezzo al pacifico è prossimo alla disperazione quando la corrente sbatte sulla spiaggia un cadavere vestito di tutto punto. I gas della decomposizione fanno sì che il morto si trasformi in una imprevedibile zattera di salvataggio (anche più di questo) che trasporta lo sventurato su un nuovo lido. Forse sarà la salvezza, forse no. Ma il rapporto tra il naufrago e il suo inatteso mezzo di sopravvivenza è appena cominciato. Anche perché il cadavere rivelerà risorse insospettabili, e a un tratto... Daniel Radcliffe nel ruolo del cadavere mandato (forse) dalla provvidenza è straordinario. E non meno Paul Dano, in grado di sviluppare un personaggio di cui c'è dato conoscere solo informazioni essenziali, possibilmente per aumentare l'empatia e rendere universale l'identificazione con questo novello Robinson Crusoe alla ricerca della salvezza, ma anche di se stesso. Un film davvero curioso, che potrebbe non incontrare il gusto di tutti. Ma comunque da scoprire.

mercoledì 11 marzo 2020

The Color Out of Space [di Richard Stanley]


"The Color Out of Space" rappresenta il ritorno di Richard Stanley alla regia di un lungometraggio dopo un periodo piuttosto lungo. Infatti, dopo le ottime prove di "Hardware" e "Dust Devil" (noto anche come "Demoniaca"), nella prima metà degli anni 90, il regista sudafricano aveva firmato soltanto corti, documentari e brevi episodi in film antologici. Nel 1996 avrebbe dovuto dirigere "L'isola perduta", ma la sua visione personale e l'ingombrante presenza della star Marlon Brando, causarono il suo allontanamento dal progetto che fu portato a termine da John Frankenheimer. Un peccato, considerato il valore dei suoi primi film. Opere di genere horror baciate da una sensibilità autoriale e una capacità evocativa visionaria, in cui scenografie, fotografia e colore danno vita a sogni lucidi inquietanti e di grande impatto sulla memoria. "The Color Out of Space", del 2019, è quindi un film di una certa importanza. Che somma il ritorno in scena di un regista che ha tanto da dire (e che lo dice in modo personalissimo) con un nuovo approccio alla narrativa di H. P. Lovecraft, ritenuto (e non a torto) uno degli scrittori horror meno filmabili per via della sua particolare poetica, fatta di orrori suggeriti e sempre collocati oltre l'immaginazione umana. "Il Colore venuto dallo Spazio" è peraltro uno dei racconti più noti e adattati di Lovecraft. La sua prima versione cinematografica risale al 1965 e al film "Die, Monster, Die!" di Daniel Haller, che in italiano diventa "La morte dall'occhio di cristallo" e vede come protagonista il mitico Boris Karloff. Da allora, la vicenda dell'entità extraterrestre che giunge in una zona boscosa della terra all'interno di un meteorite e che si manifesta come un colore inesistente nel nostro piano di realtà, dotato di una volontà maligna che ridefinisce il mondo intorno a sé secondo uno schema alieno e incomprensibile, mutando cose e corpi, è stata più volte ridotta per lo schermo. Raramente in modo efficace. E già, parliamo sempre del non adattabile Lovecraft. Diciamo anche che il titolo italiano del racconto forse non rende giustizia all'idea del suo autore. "The Color Out the Space" è un "colore fuori dello spazio" più che "venuto dallo spazio". Qualcosa di indefinibile e inqualificabile. Un elemento portatore di caos che azzera le norme e stravolge spazio e tempo, infettando ambiente, menti e corpi. Nel racconto il colore non appartiene a nessuna tavolozza, non è descrivibile nella sua alienità, e ovviamente questo non può essere reso al di fuori della rappresentazione letteraria. Richard Stanley, che aveva già dato prova di notevoli suggestioni oniriche con "Dust Devil" (di cui consiglio il recupero della versione Director's Cut con il titolo originale), sceglie per questa tinta aliena una sfumatura di fucsia iridescente (neanche a farlo apposta, un colore che io detesto). Caldo, ma nello stesso tempo morboso. E lo rende centrale e malevolo con la sua crescente onnipresenza a mano a mano che il film va avanti. Non c'è molto da raccontare, in quanto l'opera di Lovecraft, come abbiamo detto, è ampiamente nota e sfruttata. Quello da considerare, dunque, non è tanto il racconto e il suo progredire (che oggi chiunque può facilmente prevedere) quanto la personale visione scenica di Stanley, che la racconta con un ritmo dapprima rilassato e poi sempre più convulso, mentre le sue invenzioni cromatiche divampano e il body horror che si è già fatto interprete degli orrori lovecraftiani su schermo nelle opere di Stuart Gordon e Brian Yuzna si manifesta in tutto il suo disgustoso splendore. E poi... già! Poi c'è Nicolas Cage. In realtà non c'è solo lui. C'è Joely Richardson, protagonista di almeno due scene che mi hanno fatto saltare i nervi. E Madeleine Arthur, veramente brava e intensa. Ma ci si aspetta di sentir parlare di Cage. Nicolas Cage è praticamente diventato il caprio espiatorio di una quantità di film di genere. Per osmosi, sembra che il povero Nicolas sia ormai identificato con il marchio di infamia che definirà un film come pessimo. Quasi come se le sue scelte, la sua stessa presenza, abbiano la stessa caratteristica nefasta del "colore fuori dello spazio". Quella di guastare e trasformare tutto ciò che tocca in qualcosa di indescrivibile nel suo orrore. Beh, non è vero, dai. Nel film di Stanley, Cage è del tutto funzionale al racconto. Ci sarà, nell'ultima parte del film, un momento in cui lo vedremo andare fuori di testa (ma vorrei vedere chiunque in quella situazione) e fare le sue smorfie. Ma mi domando se il regista non lo ha scelto proprio per questo. Per rappresentare la progressiva marcescenza mentale e la trasformazione di un individuo posato e mite in qualcosa di grottesco e privo di senso. Come molti oggi vedono Nicola Cage, dopotutto. Insomma, "The Color Out of Space" è un felice ritorno per Richard Stanley. Potrà non colpire particolarmente, in quanto narra una storia già vista ormai mille volte (anche in numerose varianti del tema), ma dimostra che la poetica visiva del regista è ancora viva e vitale. E il suo progetto di realizzare una trilogia basata sull'immaginario di H.P. Lovecraft non può che ispirarmi un'interessata attesa.