In questo momento buio, la distribuzione di tanti film è rimandata a data da destinarsi. Ma qualche scelta differente fa discutere. La Universal ha infatti deciso di anticipare l'uscita per lo streaming di una manciata di film. "Emma", "The Hunt" e "The Invisible Man". Per quanto sia un peccato che film interessanti e attesi non possano attualmente essere visti in sala, è consolatorio poter fruire di alcune novità nonostante il periodo dell'isolamento. C'era, infatti, una discreta aspettativa circa il nuovo "Uomo Invisibile" di Leigh Whannell. Pellicola che si presenta come un possibile nuovo inizio del progetto che doveva intitolarsi "Dark Universe", e si proponeva di essere una rivisitazione moderna dei classici horror che la Universal produsse a partire dagli anni 30 del ventesimo secolo. Parliamo, quindi, di una nuova versione de "L'Uomo Invisibile" di H. G. Wells e dell'omonimo film diretto da James Whale nel 1933 con Claude Rains protagonista. Quel che va detto subito è che il film di Whannell (che aveva diretto il piacevole "Upgrade") non è esattamente un remake dell'opera di Whale. Non potrebbe, non vuole esserlo. Possiamo dire che le somiglianze con il film del 1933 e il romanzo di Wells sono soltanto il concetto dell'invisibilità e il nome del villain. Detto questo, il film di Whannell naviga su ben altre rotte, e per una volta il panorama è molto interessante. Un modo per reimmaginare il topos narrato da Wells alla luce di una sensibilità aggiornata, rendendolo specchio di una realtà inquietante. “The Invisible Man” si potrebbe ascrivere alla fantascienza, ma la scelta estetica vira decisamente nei territori dell'horror. Di un horror sociale, peraltro, simbolico, in cui la paura e il sangue dipingono mali contemporanei. Bastano i primissimi dieci minuti di “The Invisible Man” per mettere un'ansia insostenibile. Una sequenza quasi muta, ma che comunica più di una valanga di parole, descrivendo in poco tempo un inferno e un senso di angoscia che già da soli sono sufficienti a suscitare nello spettatore un disagio incredibile. E il film è soltanto all'inizio.
E' facile
prevedere che, a visione ultimata, non mancheranno le segnalazioni di
qualche buco logico, ma per una volta... lasciamoli perdere. “The
Invisible Man” va visto come un'allegoria da guardare in
prospettiva non come lavoro geometrico. E da quel punto di vista
funziona alla grande. Ha ragione da vendere chi lo ha paragonato, per
forma e intenti, a “Babadook” di Jennifer Kent. Anche in quel
caso, l'orrore era un pretesto per parlare di un antico male del
quotidiano, un incubo da vivere e da riconoscere come proprio... o
del proprio vicino. E questo “Uomo Invisibile” è uno dei terrori
peggiori del nostro tempo, proprio perché non viene visto, non è
riconoscibile, non ha un volto, e di conseguenza non esiste. O così
vuol farci credere. Così ci fa comodo credere. Elisabeth Moss (vista
ne “I Racconti dell'ancella”) rappresenta il punto di vista (!) e
vero cuore del film. La sua espressività, suscita un'empatia
cruciale che deve fare riflettere. La minaccia narrata dal film, che
per una volta non riguarda un genio folle che usa la sua scoperta per
andare alla conquista del mondo, può essere letta in modo più o
meno circoscritto o in modo più o meno esteso. E quello che
vediamo... Anzi, quello che non riusciamo a vedere, fa paura.
Maledettamente paura.
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