mercoledì 20 novembre 2019

A Girl Walks Home Alone at Night


"A Girl Walks Home Alone at Night" (2014) è un film horror indipendente davvero molto, molto strano. Per cominciare si tratta di una produzione statunitense, girato in America con un budget ridottissimo da una regista, Ana Lily Amirpour, inglese di nascita, naturalizzata americana ma con ascendenti iraniani. Ambientato in un'immaginaria cittadina dell'Iran, interpretato da attori iraniani e interamente recitato in lingua persiana. Una bella commistione di culture, per quanto la regista sia formata a una scuola di cinema occidentale. Il film è difficile da inquadrare. Horror? Si direbbe di sì, visto che il perno del racconto è una misteriosa ragazza paludata in uno chador che va in giro di notte da sola (come dice esplicitamente il titolo), e che se avvicina un uomo, in genere, è per morderlo sul collo e succhiargli fino all'ultima goccia di sangue. Ma non è tutto qui. La fotografia in splendido bianco e nero porta in scena un'umanità alla deriva. Un bambino, occhio dello spettatore, sempre per strada e apparentemente senza famiglia. Il protagonista, il giovane Arash, inquieto, incerto sul suo domani e anche un po' cleptomane, e suo padre, vedovo tossicodipendente, che vive con il figlio una drammatica inversione di ruoli. In una città desolata e triste, abitata prevalentemente da spacciatori, magnaccia e prostitute, il vampiro si aggira silenzioso. Quasi un simbolo di più anime dannate, in cerca di una ragione per continuare a esistere. Emblema di una condizione statica, prigioniera di una routine quotidiana che come una forma di dipendenza impedisce di iniziare a vivere davvero. Il film adotta un ritmo lentissimo e frequenti silenzi, affidati a personaggi didascalici e molto è affidato alla lettura dello spettatore. Un determinato risvolto narrativo oggi potrebbe far pensare a un ormai fin troppo citato brand cinematografico per adolescenti, ma qui siamo in un territorio affatto diverso. Un sogno prima che un film, che va vissuto e interpretato. Un'esperienza cinematografica bizzarra e sicuramente molto suggestiva.

lunedì 18 novembre 2019

I Saw the Devil


"I Saw the Devil" è un film di Kim Jee-Woon del 2010. Thriller crudelissimo, che si rifà all'abusato aforisma di Nietzsche sull'abisso che ti guarda quando osi guardare in esso, in modo non scontato. I film sulla vendetta privata non si contano, e la Corea del Sud ha già avuto parecchio da dire sul tema. Kim Jee-Woon realizza un film molto diverso dai precedenti, forse con meno virtuosismi fotografici evidenti, ma con una regia che scatta come una trappola. Si chiude e fa un male cane. Un serial killer uccide la donna (incinta) di un agente dei servizi segreti. Questi promette che quando lo avrà trovato gli farà diecimila volte più male. E lo fa. Con una modalità, però, che lascia disorientati. E non solo per il contagio di mostruosità che ancora una volta si realizza tra criminale e agente dell'ordine, ma per una modalità narcisistica (e terribilmente ottusa) nel piano generale dell'uomo assetato di vendetta. Una vendetta che deflagrerà, facendo tracimare ulteriormente il male che si sarebbe voluto punire. Un film violento come pochi, e recitato benissimo (uno dei due protagonisti è Choi Min-Sik, quello di "Old Boy"). Una storia noir che è anche un esame anatomico dell'idea di vendetta, in termini pragmatici oltre che etici. E una parabola sulla frustrazione, sull'insensatezza del male, e sulla sua fondamentale stupidità. Perché il male non è mai nobile o frutto di ragionamenti elaborati. Molto spesso nasce da pulsioni venali, egoistiche, superficiali. Ed è il genere di male che fa più danno in assoluto.

giovedì 14 novembre 2019

Midsommar, di Ari Aster



Sono finalmente riuscito a vedere "Midsommar" di Ari Aster, film tenuto pochissimo in sala nella mia città. Del quale avevo letto poco (nel senso che avevo preferito non immergermi in troppe recensioni) proprio per arrivare alla visione del film con l'atteggiamento più neutro possibile. E devo dire che, al di là di tutto, mi ha piacevolmente colpito.
Si è parlato di folk horror, ma esiste anche un'altra definizione, meno elegante, coniata non ricordo da chi: inquietanti comunità aliene. Si è basato tutto su questa classificazione e si sono fatte similitudini ingombranti. Inevitabili, d'accordo. Ma per certi versi anche fuorvianti.
Mettendo da parte le ormai scontatissime parentele con "The Wicker Man" di Robin Hardy (ma anche "The Sacrament" di Ti West risponde in qualche modo all'appello), possiamo dire che il film di Aster si affranca da questi rimandi che lo renderebbero derivativo, e lo fa sia per forma che per intenti. Non scontati come potrebbe sembrare a una lettura superficiale. Cominciamo dicendo che "Midsommar" merita tutta la sua etichetta di horror. E questo a partire dalle primissime scene, quando la sostanza del racconto principale è ancora distante e il cuore della trama si deve ancora concretizzare. In questo, il film di Aster è nobilmente di "forma". In quanto non fa paura il cosa, ma decisamente il come. A partire dal suo prologo, che porta in scena un dramma familiare con una scansione talmente efficace da regalare i primi brividi. Il modo di narrare qualcosa che è sì prevedibile, ma che arriva allo spettatore in modo devastante per come è preparato e orchestrato. Tanto che pensavi di sapere tutto e di essere preparato, ma la tensione accumulata e la regia ti sconvolgono lo stesso. E questo non te lo potevi aspettare. Perché il racconto di Aster si basa sui sottotesti, non sulla semplice fabula. La componente più profonda di "Midsommar" sta tutta nella forte valenza allegorica del racconto e delle tappe che conducono lentamente a una meta inesorabile. Non bisogna attendersi sorprese, ma interrogarsi sul significato di quanto sta succedendo, come se stessimo analizzando uno strano, incantevole e nello stesso tempo disturbante sogno. Una parabola nerissima sui legami, sulla loro natura, sul nostro modo di gestirli, a volte di dipendere da questi. E sul concetto di sacrificio, volto ad affrancarci (forse) sia pure dolorosamente da qualcosa che ci sta lentamente uccidendo. La cosa più inquietante di "Midsommar" è che durante il racconto avremo paura, ma una volta arrivati, alla luce dei significati nascosti, forse dovremmo gioire. E' questo che sembra dirci Ari Aster, parlando di lutto, di ritualità, di scelte difficili, di morte e rinascita.

Il buono, il matto, il cattivo

"Il buono, il matto, il cattivo" è un film del 2008 diretto da Kim Ji-woon. Una geniale stramberia in cui il regista coreano prende liberamente spunto dal classico "Il buono, il brutto, il cattivo" di Sergio Leone per creare una propria epopea western orientale secondo la propria estetica. Non un remake, ma una riconoscibile e godibilissima variazione sul tema degli archetipi che il capolavoro di Leone ha lasciato nella memoria cinematografica. Un film, quello di Kim Ji-woon, imprevedibile, nonostante abbia scelto di seguire dei binari già percorsi. Incredibilmente divertente, estroso e ricco di invenzioni visive che ne fanno un gioiello da vedere assolutamente. Grazie a film come questo, possiamo riconoscere che il genere "western" si è svincolato dai suoi legami storici e geografici, e ormai da tempo fa genere a sé. Quindi, vedere questa caccia al tesoro in Manciuria, all'inizio del secolo scorso, tra picari fantasiosi, malvagi a metà strada tra la figura del ninja e una maschera della commedia dell'arte, e rocambolesche sfide (non solo con le pistole), è una festa a cui non si può mancare. Tra l'altro, per una volta, il film è stato anche distribuito in Italia. Se non l'avete già fatto, cercatelo, conoscetelo, divertitevi, amatelo.

sabato 9 novembre 2019

Two Sisters


Ho finalmente recuperato "Two sisters" (A tale of Two Sisters"), film coreano del 2003 diretto da Kim Ji-woon.
Mai ritardo fu più colpevole. Ci si sente sempre colpevoli davanti alla bellezza. Soprattutto quando ci si accorge di averla ignorata (non si sa bene perché). "Two Sisters" conferma a mio avviso che le migliori ghost story sono quelle allegoriche, in grado di dimostrare che i fantasmi (aimé) esistono. E non infestano case o oggetti. Ma le persone. Le menti, le anime. E nessun racconto di spavento è più efficace di quello che ti confonde, e alla fine ti lascia incerto tra l'orrore e le lacrime. Sì, perché il film di Kim Ji-woon, oltre a inquietare fa piangere. E ti impone di tenere il cervello sveglio, nonostante il ritmo elegantemente lento, ma tagliente come un bisturi. Un'ambientazione fotografata in modo superbo, attori pazzeschi e una colonna sonora che non si dimentica più. Che altro dire? No, meglio non dire altro. Se non lo si è visto, è meglio non sapere nulla. E dopo averlo visto, vederlo di nuovo. Peccato non averlo scoperto e apprezzato prima. Sì, mi sento un po' in colpa.

mercoledì 6 novembre 2019

The Hole in the ground


Che strana sensazione vedere "The Hole in the ground", film irlandese del 2019 diretto da Lee Cronin, credo al suo primo film, dopo avere visto "Us" di Jordan Peele. Il confronto, infatti, è quasi inevitabile, visto il tema centrale. Ma quello che salta agli occhi (e alla mente) è la grande differenza di approccio alla materia nel tradurre in chiave horror quello che è un racconto metaforico che parla di ricerca del proprio ruolo, di emancipazione, della scoperta di sé e della generale indifferenza, spesso complice di tutto ciò che frustra queste esigenze.

Sarah sta fuggendo da una vita presumibilmente fatta di violenze familiari, e le cicatrici sul suo corpo, e che traspaiono dalla sua anima sono gli unici indizi che avremo per definire un quadro che sarà affidato solo alla nostra fantasia. Con sé ha portato Chris, il figlioletto, con cui ha un rapporto molto forte, e progetta di ricostruire la propria vita da zero in una zona della campagna irlandese, lontana da tutto quello che l'ha ferita. Nel bosco vicino alla casa, però, esiste una misteriosa voragine nel terreno. Un abisso buio di cui, stranamente, nessuno parla, nero come un vuoto esistenziale. Una notte, Chris sembra uscire da solo di casa e avvicinarsi ai margini del buco nel terreno. Sarah lo ritrova immediatamente, illeso e tranquillo, ma c'è qualcosa che non va. Da quel momento guarderà il suo bambino con occhi diversi, pensando che in lui c'è qualcosa di tremendamente sbagliato...
"The Hole in the ground" non brillerà per originalità. Come dicevo in apertura, andare con la memoria a "Us" (ma ancora di più a "L'invasione degli Ultracorpi" di Don Siegel) è facilissimo. Com'è facile intuire la matrice folklorica del racconto, che si basa su una notissima leggenda irlandese nota in tutta Europa, cui persino Luigi Pirandello si è ispirato per uno dei suoi celeberrimi lavori teatrali. Il punto interessante, e la profonda differenza formale di "The Hole in the ground" rispetto a "Us" è l'assoluta avarizia del primo nel voler fornire spiegazioni delucidanti rispetto al secondo, forse fin troppo indulgente a motivare ogni dettaglio, finendo in parte col disinnescare l'atmosfera inquietante del film e la valenza ancestrale e terrifica del concetto di Doppelgänger. Nel film di Lee Cronin tutto è affidato alle immagini, splendidamente fotografate, e all'interpretazione di attori poco noti ma di straordinaria espressività (su tutti Seána Kerslak e il piccolo James Quinn Markey, capace di passare dall'essere il ritratto dell'innocenza a un'ambiguità da cardiopalma). Il tema centrale qui è l'emancipazione di una donna da una vita di abusi, il superamento dei traumi nonostante una società distratta, che tende a non accorgersi di nulla e a negare persino l'evidenza pur di accoccolarsi in un confortevole status quo. Ma anche l'affermazione di una famiglia monogenitoriale, incrollabile nonostante le apparenze grazie non solo a un forte rapporto affettivo, ma a soprattutto a un'irriducibile autodeterminazione. Il non detto fortifica il simbolismo e permette alla metafora sociale di emergere a tutto tondo. Cosa non scontata in un quotidiano omologante come il nostro, dove influenze costanti non ci rendono più più sicuri di conoscere davvero chi ci è vicino e di avere il controllo, se si è genitori, della maturazione dei propri figli. Un film da vedere, in definitiva. E da confrontare, per riflettere su forma e sostanza. In un mondo in cui tutto è riflesso di qualcos'altro, c'è bisogno di una visione... laterale.

lunedì 4 novembre 2019

I Trapped the Devil


" I Trapped the devil" è un film horror che più indipendente non si può, diretto nel 2019 dall'esordiente Josh Lobo.
Matt e Karen si recano in visita per le feste natalizie a casa di Steve, fratello di Matt, che ha vissuto una dramma personale del quale non sappiamo niente, e che da sempre - pare - ha dato segni di instabilità. La visita di cortesia si trasforma molto presto in un incubo, quando Steve afferma di essere riuscito a catturare il diavolo in persona, che adesso si trova rinchiuso nella sua cantina. Il delirio di un folle paranoico? O dietro quella porta sprangata con più lucchetti e bloccata da una croce di legno si nasconde davvero qualcosa di strano e terribile?
Il film è tutto qui. Liberamente ispirato a un episodio della serie classica di "Ai confini della realtà" ("Ululati nella notte"), il racconto si basa per gran parte del tempo sull'ambiguità della situazione e poggia tutto sulle spalle di tre (tre!) interpreti, coadiuvati solo da qualche comparsa. Un film breve e poverissimo, che deve molto all'interpretazione inquietante del televisivo Scott Poythress. Un horror di situazione lontano dall'essere perfetto, che dilata uno spunto difficile da far reggere nella canonica tempistica di un lungometraggio. Ma funzionante di sicuro in tutta la prima parte, quando il clima di paranoia è crescente, e tutto si affida al non visto e a alla voce implorante di qualcuno prigioniero dietro una porta che diventa la vera protagonista del racconto. Avvolta da una spettrale luce cremisi, e che in qualche momento sembra addirittura respirare.
Nel complesso, un piccolo esperimento gradevole, per chi ama il cinema indipendente fatto di suggestioni. Gli altri, forse è meglio che ne stiano alla larga.