mercoledì 6 novembre 2019

The Hole in the ground


Che strana sensazione vedere "The Hole in the ground", film irlandese del 2019 diretto da Lee Cronin, credo al suo primo film, dopo avere visto "Us" di Jordan Peele. Il confronto, infatti, è quasi inevitabile, visto il tema centrale. Ma quello che salta agli occhi (e alla mente) è la grande differenza di approccio alla materia nel tradurre in chiave horror quello che è un racconto metaforico che parla di ricerca del proprio ruolo, di emancipazione, della scoperta di sé e della generale indifferenza, spesso complice di tutto ciò che frustra queste esigenze.

Sarah sta fuggendo da una vita presumibilmente fatta di violenze familiari, e le cicatrici sul suo corpo, e che traspaiono dalla sua anima sono gli unici indizi che avremo per definire un quadro che sarà affidato solo alla nostra fantasia. Con sé ha portato Chris, il figlioletto, con cui ha un rapporto molto forte, e progetta di ricostruire la propria vita da zero in una zona della campagna irlandese, lontana da tutto quello che l'ha ferita. Nel bosco vicino alla casa, però, esiste una misteriosa voragine nel terreno. Un abisso buio di cui, stranamente, nessuno parla, nero come un vuoto esistenziale. Una notte, Chris sembra uscire da solo di casa e avvicinarsi ai margini del buco nel terreno. Sarah lo ritrova immediatamente, illeso e tranquillo, ma c'è qualcosa che non va. Da quel momento guarderà il suo bambino con occhi diversi, pensando che in lui c'è qualcosa di tremendamente sbagliato...
"The Hole in the ground" non brillerà per originalità. Come dicevo in apertura, andare con la memoria a "Us" (ma ancora di più a "L'invasione degli Ultracorpi" di Don Siegel) è facilissimo. Com'è facile intuire la matrice folklorica del racconto, che si basa su una notissima leggenda irlandese nota in tutta Europa, cui persino Luigi Pirandello si è ispirato per uno dei suoi celeberrimi lavori teatrali. Il punto interessante, e la profonda differenza formale di "The Hole in the ground" rispetto a "Us" è l'assoluta avarizia del primo nel voler fornire spiegazioni delucidanti rispetto al secondo, forse fin troppo indulgente a motivare ogni dettaglio, finendo in parte col disinnescare l'atmosfera inquietante del film e la valenza ancestrale e terrifica del concetto di Doppelgänger. Nel film di Lee Cronin tutto è affidato alle immagini, splendidamente fotografate, e all'interpretazione di attori poco noti ma di straordinaria espressività (su tutti Seána Kerslak e il piccolo James Quinn Markey, capace di passare dall'essere il ritratto dell'innocenza a un'ambiguità da cardiopalma). Il tema centrale qui è l'emancipazione di una donna da una vita di abusi, il superamento dei traumi nonostante una società distratta, che tende a non accorgersi di nulla e a negare persino l'evidenza pur di accoccolarsi in un confortevole status quo. Ma anche l'affermazione di una famiglia monogenitoriale, incrollabile nonostante le apparenze grazie non solo a un forte rapporto affettivo, ma a soprattutto a un'irriducibile autodeterminazione. Il non detto fortifica il simbolismo e permette alla metafora sociale di emergere a tutto tondo. Cosa non scontata in un quotidiano omologante come il nostro, dove influenze costanti non ci rendono più più sicuri di conoscere davvero chi ci è vicino e di avere il controllo, se si è genitori, della maturazione dei propri figli. Un film da vedere, in definitiva. E da confrontare, per riflettere su forma e sostanza. In un mondo in cui tutto è riflesso di qualcos'altro, c'è bisogno di una visione... laterale.

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