Il dottor Bruce Banner è tornato. Anzi, è risorto. E con lui
l'incredibile Hulk. Meglio. L'immortale Hulk. Protagonista di una
nuova serie che sta spopolando, donando al gigante verde di casa
Marvel una nuova primavera. Ma stavolta, accanto ai raggi gamma è di
casa l'orrore, e un'ulteriore lettura su bene e male che potrebbe
portare ovunque. Ripercorriamo i passi del mostro atomico e le sue
varie incarnazioni fino a questo suo ultimo (per ora) inquietante
ritorno.
venerdì 1 febbraio 2019
domenica 20 gennaio 2019
Suspiria di Luca Guadagnino (Spoiler)
"Suspiria” di Luca Guadagnino è un film discretamente discusso, ma che evidentemente ha suscitato la curiosità di pochi. Non si capirebbe, altrimenti, la pessima distribuzione nelle sale italiane e i risultati poco confortanti al botteghino. Ci sarebbe da dire “peccato”. E non perché siamo davanti a un film imprescindibile, ma perché l'esperimento si dimostra interessante e stimola una riflessione trasversale sul cinema e la narrazione in generale.
Per parlarne davvero sarà necessario qualche spoiler, e questo dovrebbe già segnalare quanto sia ampia la distanza tra il lavoro di Guadagnino e l'opera di Dario Argento cui si ispira. Ma per iniziare è opportuno spendere prima qualche parola sul concetto di remake, termine che nel corso dei decenni è andato cambiando significato, diventando sempre più vago e a volte ingannevole.
La
pratica del remake è in realtà vecchia quanto il cinema stesso.
Hollywood ha sfornato un'infinità di riletture in cui registi e star
di grido gareggiavano con le precedenti versioni per carisma e
allestimento. Per molto tempo, per remake si è intesa una nuova
narrazione della medesima storia, magari aggiornata ai propri tempi,
ma portando in scena gli stessi personaggi e seguendo dinamiche molto
simili al prototipo. Nella maggioranza dei casi, rigirando anche le
scene salienti del film precedente, solo fornendone una diversa
interpretazione dal punto di vista tecnico e registico. Un differente
approccio, insomma, a una narrazione in cui si rimaneva comunque
discretamente fedeli al soggetto originale se non alla sceneggiatura.
Nel tempo, la pratica del remake si è andata gradualmente
allontanando da questa ricetta per esplorare altri stili di
rinarrazione. In molti casi a rimanere riconoscibile è solo lo
spunto, mentre i personaggi e la trama prendono strade indipendenti.
Negli ultimi decenni, con qualche eccezione, abbiamo visto arrivare
sullo schermo sempre meno esempi della prima tipologia di rifacimenti
e prendere piede la pratica della più libera variazione sul tema.
Sarebbe
questo il caso del “Suspiria” di Luca Guadagnino? Beh, sì e no.
E
poco altro. Sì, ma direi che è sufficiente. Uno spunto e delle
icone che bastano a fare del film di Guadagnino una personale
fantasia che prende le mosse da un'opera precedente, ma per dire
altro. O meglio, per portare a casa uno spettacolo cinematografico di
tipo diverso.
Horror
sì? Horror no? Siamo sicuri che questa domanda oggi abbia ancora
senso? La maggior parte degli horror più riusciti, ultimamente, sono
quelli che riescono a travalicare il genere e a ibridarne più d'uno.
In “Suspiria” di Guadagnino abbiamo del sangue e alcuni lampi di
orrore, ma più concettuali che prettamente visivi come nel prototipo
di Dario Argento. Inoltre, qui la storia, per quanto criptica e piena
di sottintesi forse non del tutto centrati, c'è e si fa sentire.
Come si fanno sentire e hanno corpo e anima le streghe, che nel film
di Argento svolgevano solo un ruolo di McGuffin volto a portare in
scena i loro spettacolari delitti. Qui c'è la danza, molto più
presente e tematica che nel “Suspiria” del 77. Una danza che
diventa anche strumento di stregoneria, usata per dare la morte.
In
sostanza, potremmo dire che forse Guadagnino suggerisce questo. Ecco
la trama che mi sarebbe piaciuto scoprire dentro l'ossatura del film
di Argento. Film, ricordiamo, che per quanto cult, per quanto
celebrato (successivamente, ai suoi esordi la critica lo distrusse),
è un'opera che vive di puro virtuosismo formale, laddove il film di
Guadagnino punta su simboli, recitazione, e trama. Una trama non
nuovissima, per carità. Anzi, già vista e riconoscibile come
palinsesto in mille altre occasioni. Le lotte intestine a una
congrega di streghe che si contendono la leadership e
l'identificazione di una prescelta è discretamente sfruttata. Al
punto che qualche parentela potremmo individuarla anche nella terza
stagione della serie TV “American Horror Story: Coven” o nel film
“The Craft” (in italiano “Giovani streghe”). Anche lì
(SPOILER) a emergere trionfante e a rivelare il crisma di strega
suprema è il personaggio presentato inizialmente come il più
innocente. Nel caso di “Suspiria” è Susie, che se nel film di
Dario Argento è l'artefice della sconfitta della strega Markos, qui
si dimostra essere la vera incarnazione dell'antica parca venuta a
rivendicare il titolo che le spetta di diritto. Ma anche qui, come
spesso succede con le storie, a contare non sono tanto i fatti quanto
la forma che li esprime. E Guadagnino confeziona un film forse non
perfetto, ma a suo modo riuscito, grazie anche alle ottime
performance (su tutti una camaleontica Tilda Swinton impegnata in ben
tre ruoli) e ai sottotesti (confusi ma intriganti) che echeggiano la
stagione del terrorismo tedesco di estrema sinistra. Alle azioni
della Rote Armee Fraktion, si contrappone infatti l'intellighenzia
(altrettanto truce, ma più occulta e meditata) delle streghe, a loro
modo portatrici di un pensiero anarchico, svincolato dai concetti di
bene e di male come li conosciamo, e rivolti a una visione tutta
femminile dell'esistenza. Più che perverse, le streghe di Guadagnino
sono amorali, e sfidano il sistema (e il potere maschile) a modo
loro, pur scadendo nell'eterna lotta per la supremazia, Eva contro
Eva, vero punto debole della congrega che sarà (forse) risolto dalla
rivelazione della vera prescelta. E' la rappresentazione di un potere
antico che potrebbe fare tantissimo, ma che in mani umane cede
inevitabilmente al peccato originale dell'individualismo. Una deriva
che solo la natura stessa, unico vero potere incrollabile, potrà
arrestare.
A
questo punto, anche la domanda “remake o no?” perde importanza.
Luca Gudagnino ha attinto alle suggestioni di un film che
evidentemente lo ha colpito, ispirandogli la sua storia e la sua
rappresentazione filmica del concetto di strega. Le storie e il modo
di raccontarle, al cinema e in altri media, funzionano spesso come un
virus. Si attaccano alla fantasia, e spesso mutano generando qualcosa
di simile e nello stesso tempo peculiare. Non è male questo. Storie
e immaginari si parlano, fanno l'amore e a volte generano pure dei
figli. Anche dei nipoti se è per questo. E mi piace ricordare che
Dakota Johnson, riscattata in questo film dal ruolo rivestito nella
serie cinematografica di “50 sfumature”, è la figlia
dell'attrice Melanie Griffith, e quindi la nipote di Tippy Hedren,
indimenticabile protagonista de “Gli Uccelli” di Alfred
Hitchcock.
Per
concludere, fare paragoni tra i due film non sarebbe sano. Non
parliamo solo di due diversi registi e di due pellicole dallo stesso
titolo, ma con intenti diversi. Parliamo anche di tempi diversi. Di
concezioni diverse non soltanto dell'horror, ma del cinema stesso. Ma
di cinema si tratta. Sempre e comunque. E per una volta l'intento è
una sperimentazione artistica, una personale rivisitazione di una
suggestione storica, e non un progetto meramente commerciale.
domenica 13 gennaio 2019
Big Bad Wolves
«Per fare paura a un maniaco... ci
vuole un altro maniaco!»
“Big Bad Wolves” è un
thriller israeliano diretto da Aharon Keshales e Navot Papushado
uscito nel 2013. Stesso anno di “Prisoners” di Denis
Villeneuve, con il quale ha in comune uno spunto di base. I due film
non potrebbero, però, essere più diversi per forma e sostanza, a
dispetto degli elementi di contatto. Tel Aviv è insanguinata da un
serial killer pedofilo che rapisce bambine, le sevizia e infine le fa
ritrovare agli inquirenti i loro corpi privati della testa, che puntualmente non
si trova. La polizia, per ragioni vaghe e superficiali, ritiene di
avere identificato il mostro in un mite insegnante di religione, che
subisce un pestaggio volto a estorcergli una confessione che non
arriva. La violenza degli agenti è però scoperta e l'autorità è costretta a rilasciare il sospettato con tante scuse e a sospendere il poliziotto
che ha guidato il commando ai suoi danni. Questi continuerà
privatamente a perseguitare l'uomo che ritiene colpevole, ma la sua
strada si incrocia con quella del padre dell'ultima vittima, deciso a
farsi giustizia da solo. I due vogliono sostanzialmente la stessa
cosa, ma hanno anche mentalità non proprio convergenti. E
l'insegnante è veramente l'orco che cercano?
Probabilmente è grazie all'esuberanza
di Quentin Tarantino, che lo ha definito “il miglior film
dell'anno”, se “Big Bad Wolves” (Grossi lupi cattivi)
è arrivato anche da noi. Non sarà probabilmente, secondo gli
eccessi tarantiniani, il migliore film uscito nel 2013, ma è di
sicuro un gran bel thriller, di difficile catalogazione e con una
regia a quattro mani di grande impatto visivo. La sola sequenza
d'apertura, muta, che riassume il nocciolo della vicenda da cui si
svilupperà l'intero film è da antologia. Ma anche la conduzione
generale del racconto non scherza. Qualcuno parla di battuta
d'arresto nella parte intermedia del racconto, ma non è esatto. Si
tratta piuttosto di una creatura che cambia pelle, che sfugge e che
ipnotizza lo spettatore con cambi di registro decisamente inattesi.
Una storia di vendetta cupissima e crudele, con pennellate di horror
ascrivibile al genere abusato del torture porn, in grado di virare
improvvisamente in situazioni e linguaggi grotteschi, quasi del tutto
comici, in grado di suscitare anche una risata, senza però mai
smorzare la tensione, ma al contrario amplificandola. Il senso
generale di “Big Bad Wolves” è
l'insensatezza della vendetta che lungi dal perseguire un'idea di
giustizia finisce col favorire un rinnovato orrore. Ma sottintende
anche un discorso satirico sulla società militarizzata israeliana,
dove il clima di sospetto, di pregiudizio e di reazione violenta o
quanto meno di paura tocca tutti indistintamente (la maggior parte
della vicenda si svolge in un casale fuori mano dal costo bassissimo
proprio perché vicino a un villaggio arabo).
E'
facile scomodare Tarantino per il connubio violenza-umorismo, ma è
possibile scoprire nell'opera di Keshales
e Papushado anche echi del
cinema spagnolo di Alex De la
Iglesia e dello stesso Pedro Almodovar. Difficile definire il genere
di appartenenza. Thriller, horror, commedia nera, grottesco,
satirico.
“Big Bad Wolves” non
sarà un film perfetto. Ma è senz'altro un film da vedere, se non
altro per la sua forma pressoché impeccabile. Non spettacolo per
tutti, dal momento che nonostante la violenza sia contenuta e in
larga parte fuori scena, questa è evocata con un uso della tensione
molto forte. Un finale
nerissimo,
forse non del tutto imprevedibile, ma che si incastra molto bene con
la logica suggerita dalla narrazione.
Homo
homini lupus, come suggerisce il titolo. E questo aldilà della
colpevolezza (vera o presunta) di qualcuno. Un film che
paradossalmente diverte, a dispetto delle cupissime premesse, e
lascia spiazzati, ma anche affascinati da una magnifica architettura
cinematografica.
Da
conoscere. Da scoprire.
mercoledì 2 gennaio 2019
Aquaman (ma non è proprio acqua...)
Aquaman, di James Wan. 2018.
Forse la DC/Warner ha capito che doveva
cambiare strada. Probabilmente ha pure scelto la direzione giusta.
Dico “probabilmente”, nel senso che la direzione intrapresa non
coincide necessariamente con una qualità elevata dei film, ma
possibilmente con un prodotto vincente al botteghino e soprattutto
nell'ambito del merchandising. I bambini entrati in sala con in mano
i giocattoli raffiguranti i personaggi del film qualcosa devono
significare. E del resto l'Aquaman di James Wan, inutile nascondersi
dietro un dito, parla soprattutto se non esclusivamente a loro. Oltre
ad avere la valenza di un lungo, interminabile spot pubblicitario.
Ma è davvero così brutto?
Mettiamola così. Il film dovrebbe
parlare di mare, di oceano, di acqua, insomma. L'elemento acquoso è
parte costituente della materia dell'avventura e del nome dell'eroe
protagonista. Ma la sensazione che ho avuto per tutta la sua
(tediosa) durata di circa due ore e mezza, è stata quella di nuotare
faticosamente in un minestrone dove a ogni bracciata emergeva un
ortaggio diverso. Stantio, per giunta, e trafugato da zuppe già
cotte in passato. A volte anche molti anni fa, e recuperato per
l'occasione. Un minestrone che cerca di fondere avanzi di film per
ragazzi di più generazioni, forse nel disperato tentativo di
azzeccare almeno un sapore che sia apprezzabile. E – orrore – i
risultati al botteghino e il plauso degli sbarbati sembra premiare
questo sforzo di riciclaggio.
Qualcosa non va. Qualcosa non va
affatto, se un film di quasi 70 anni fa come il “20.000 leghe sotto
i mari” di Richard Fleischer, con i suoi trucchi rudimentali,
conserva più poesia e forza ipnotica di questa baracconata che
definire kitsch è un complimento. James Wan, dopo essersi fatto un
nome nell'ambito dell'horror, si era prestato a prove alimentari
nell'action, e qui fallisce alla grande su tutta la linea. Va da sé
che la componenete visiva del mondo sottomarino avrebbe dovuto farla
da padrone, ma se questo luna park volgarissimo e carnevalesco piace
al vasto pubblico, a questo punto mi chiedo che cosa ne avrebbe
tirato fuori qualcuno come Baz Luhrman. Il barocco di Atlantide
ferisce gli occhi e ricorda (in una versione povera, pessima e
svilente) i giochi di estetica pop di Pierre et Gilles, al servizio
di un'espressione artistica ben più nobile. Là era la cultura LGBT
ammantata di preziosismi grafici. Qui abbiamo solo Jason Momoa che a
ogni sequenza sembra stare pubblicizzando uno shampoo o un
deordorante per maschi alfa. Questo quando non elargisce battute
salaci che sembrano uscite da un film anni 70 di Terence Hill e Bud
Spencer, che quello è il livello e molto probabilmente il redivivo
target.
La pretesa da film epico naufraga sin dai primi minuti. Con l'ammorbante prologo servito con immancabile io narrante a corredo. Una storia di origini accennata, schematica, frettolosa, noiosa. I tempi e il modo di fare spettacolo cambiano, ok. Ma si auspica che si evolvano. Un tempo esisteva una cosa chiamata atmosfera e un'altra chiamata crescendo per costruire l'epicità. Semplicemente non puoi... NON PUOI in un film che dura DUE ORE E MEZZA, servirmi un prologo striminziti ed esangue con tanto di spiegone delegato alla voce fuori campo. Non puoi, CAZZO. E' semplicemente un insulto. All'estetica del cinema, alla narrazione, al fumetto, al pubblico...
Ah, sì. I giocattoli non si vendono da
soli.
Sorvolando sul villain Black Manta,
infilato nel film a forza senza ausilio di lubrificante alcuno.
Personaggio cui è attribuita l'origine e le motivazioni più
insensate che cinecomics abbia partorito, senza spoilerare, e
consacrandole con una battuta del protagonista sotto finale che ti va
venire voglia di prenderlo a sganassoni esattamente quanto e più
della sua nemesi. Sì, a quel punto anch'io diventerei volentieri
Black Manta e cercherei Aquaman per farne neonata fritta (che per di
più neanche mi piace mangiare).
Il film distribuisce le sue carte in
modo lento e soporifero saltando da un modello a un altro. In parte
mi è sembrato di ritrovarmi a guardare gli orrendi Batman di Joel
Scumacher, ma se non fosse abbastanza, andando avanti il film rivela
parentele anche con il Flash Gordon di Mike Hodges del 1980. In molti
punti arraffa pure da “Il viaggio fantastico di Sinbad”, bel film
per ragazzi del 1973 con i trucchi di Ray Harryhausen (altro esempio
di cinema “vecchio” da riscoprire a dispetto di questi strillanti
neonati blockbusters). Attraversa tutto il franchising di Indiana
Jones scomodando pure “La spada nella roccia”. E per
concludere... Jason Momoa si dimentica di stare recitando Aquaman e
si trasforma in Sandokan.
E qui ricordo la frase celebre di un
mio amico negli anni 70, riferito ai propri figli davanti allo
sceneggiato di Sergio Sollima: «Hai visto Sandokan? E' meraviglioso!
Fa impazzire i bambini!»
Esatto. La frase più importante è
proprio questa. Questo è il senso del minestrone. Questo è il senso
del film. Questa è la virata, possibilmente vincente sul piano
commerciale, della DC/Warner. I bambini gradiscono. I bambini
applaudono. I bambini comprano i giocattoli.
E alla fine che cosa vuoi dirgli?
Protestare perché il film ti annoia e ti fa sanguinare gli occhi?
Non è destinato a te, fattene una
ragione. Noi lettori di fumetti dobbiamo rassegnarci. Questi prodotti
non parlano con noi. Conclusa la fase pseudoadulta (in realtà solo
depressa) dettata da una cattiva interpretazione della lettura
nolaniana di Batman, la DC/Warner vince al botteghino scegliendo di
parlare a una platea infantile. I nerd (e gli appassionati di comics)
saranno anche stati sdoganati. La loro visione, un tempo di nicchia,
è diventata cultura di massa. E così facendo è diventata oggetto
di un mercato fuori controllo, inutile aspettarsi qualcosa di
diverso. Giusto? Sbagliato? Come che sia è un dato di fatto. Inutile
anche rammaricarsi. E' più triste intravedere la bellezza sfiorita
di Nicole Kidman nascosta a stento da una chirurgia plastica che
anziché aiutarla a restare giovane fa sembrare che nasconda le sue
rughe sotto una plasticosa maschera trasparente. Vedere tanto
dispendio di stars, di talento, di mezzi. E uscire dal cinema
pensando che i problemi veri sono altri. E che questo film non è
riuscito a farteli dimenticare neppure per dieci minuti.
Per quanto mi riguarda, questo è il
vero fallimento.
E a fronte di questo, vedere padri di famiglia (non ragazzini, ma genitori ultratrentenni) che senza conoscerti trovano il tempo di venire a insultarti sul tuo profilo social, a dirti che non capisci un cazzo e sei ridicolo, perché hai osato criticare un film che loro hanno apprezzato, neppure gli avessi insultato la madre, è un fenomeno fottutamente inquietante.
Meditiamo.
E a fronte di questo, vedere padri di famiglia (non ragazzini, ma genitori ultratrentenni) che senza conoscerti trovano il tempo di venire a insultarti sul tuo profilo social, a dirti che non capisci un cazzo e sei ridicolo, perché hai osato criticare un film che loro hanno apprezzato, neppure gli avessi insultato la madre, è un fenomeno fottutamente inquietante.
Meditiamo.
lunedì 31 dicembre 2018
mercoledì 26 dicembre 2018
"Christmas Evil" - You Better Watch Out (1980)
“Christmas Evil” (noto anche
con il precedente, più evocativo titolo di “You Better
Watch Out”), è un piccolo film del 1980, inedito e ignorato
dalle nostre parti, ma divenuto nel tempo oggetto di culto,
guadagnandosi il plauso di personaggi abituati a sguazzare nel weird
come il regista John Waters. Diretto da Lewis Jackson e interpretato
dall'eterno caratterista Brandon Maggart (qui alla sua unica prova da
attore protagonista, credo), “Christmas Evil” è la prima
pellicola a inaugurare il filone dei Santa Claus assassini, cui
sarebbe seguito il più celebre (e trascurabile) “Silent Night,
Deadly Night” (slasher che avrebbe dato inizio a una vera e
propria serie) e un nugulo di babbi rossovestiti impegnati a fare
mattanza in quel della vigilia. Solo che “Christmas Evil”
(“You Better Watch Out”) non è soltanto il capostipite.
E' diverso. E' qualcosa di particolare. E merita una riflessione in
più.
Il film prende spunto (così come
quelli successivi) dai fumetti dei mitici “Racconti delle
Cripta”, in cui la figura di Santa Claus fu più volte
dissacrata da celebri storie horror. Non un adattamento, ma solo uno
spunto, e per di più labile. Sì, perché sarebbe improprio definire
“Christmas Evil” un film horror, per quanto i momenti
disturbanti nella pellicola non manchino. Ci troviamo, in realtà,
davanti a un film drammatico, introspettivo, con escursioni
nell'orrore e nello splatter. Ma soprattutto davanti a una parabola
oscura che fa della pellicola diretta da Lewis Jackson qualcosa di
ambiguo e affascinante. Forse il film antinatalizio per antonomasia,
o forse la più crudele difesa dello spirito delle feste che sia mai
stata narrata.
Da bambino, Harry ha subito un trauma
durante le feste di Natale. Niente di così terribile, in realtà.
Dopo aver spiato l'arrivo in casa di Babbo Natale, impersonato dal
padre in uno spettacolo a beneficio dei due figlioletti, lo sorprende
a fare sesso con la madre con ancora addosso il costume rosso e
bianco rimanendone profondamente turbato. Certo, il suo trauma oggi
risulta eccessivo, ma il film per procedere non ha bisogno di questo.
All'evoluzione di Harry non serve un (unico?) trauma scatenante per
seguire il suo cammino di perdizione. Concluso il prologo, lo
ritroviamo dopo molti anni, adulto e palesemente disturbato. Ci viene
lasciata sottintendere una vita di solitudine e frustrazione,
all'ombra di un fratello maggiore che non gli ha mai mostrato
solidarietà e che lo percepisce solo con fastidio. Harry lavora in
una fabbrica di giocattoli ed è ossessionato dal Natale, ma
soprattutto dalla figura di Santa Claus, con la quale ha sviluppato
una forma di identificazione. Infatti trascorre il tempo spiando un
gruppo di bambini (in modo totalmente casto), annotando in due libri
i loro desideri, le loro attitudini e comportamenti. Le due liste dei
bambini buoni e cattivi del mito diventano reali nella pratica
annuale di Harry, che progetta di trasformarsi una volta per tutte in
Babbo Natale. In fabbrica il rapporto con gli altri operai è al
limite del bullismo. Harry non tollera che la festa più importante
dell'anno sia oltraggiata, e la produzione di giocattoli destinati ai
bambini per lui è sacra. La vigilia di Natale, Harry vestirà il
costume rosso e bianco dei suoi sogni per distribuire doni ai bambini
che ritiene meritevoli. Farà anche visita a un ospedale pediatrico
portando gioia e ricevendo simpatie. Ma il mondo adulto, che guarda
al Natale in modo prosaico e cinico, come sempre guasterà tutto.
L'incanto di un Babbo Natale altrimenti gentile e dolce si incrinerà.
E sarà un massacro.
“Christmas Evil” è
paragonato da qualcuno a “Taxy Driver” di Scorsese, e il
personaggio di Harry a una sorta di Travis Bickle natalizio. Paragone
forzato, in quanto sì, ci troviamo davanti a una discesa nella
follia dettata da un delirio moralista, ma le somiglianze si
esauriscono qui. “Christmas Evil” è un film che
possiamo definire antinatalizio in quanto porta in scena il lato più
materialista del Natale (la speculazione, il consumismo)
contrapponendolo al bisogno di magia di un'anima che tutto sommato è
rimasta candida. Anche quando sconfina nell'omicidio, utilizzando
giocattoli come armi letali, Harry dimostra una furia infantile, da
bambino deluso che non vuole disturbato il suo rituale festivo. E le
sue vittime, sono tutte pericolosamente antipatiche e irritanti. Il
mondo adulto, irrimediabilmente corrotto, percepisce il suo costume
da Babbo Natale come un giullare da schernire, laddove i bambini
conservano l'approccio tenero e incantato al personaggio che Harry
interpreta. Un mondo innocente al di là di ogni evidenza,
rappresentato nella scena (la più inquietante del film) in cui un
gruppo di bambini protegge il Babbo Natale assassino cui la città
sta ormai dando la caccia, facendogli scudo con i loro piccoli corpi
e persino disarmando gli adulti e consegnandogli le armi che questi
volevano usare contro di lui.
Il raccapriccio suscitato da “Christmas
Evil” va oltre il canonico splatter da film horror. E'
psicologico e insinuante. Gli atti criminali compiuti da Harry sono
realizzati con malinconia, in modo quasi candido. Intensa e
tristissima la sequenza in cui Harry tenta di entrare in una casa in
cui tutti dormono passando dal camino come farebbe Babbo Natale, ma
rimane incastrato nella canna fumaria e si tira fuori con molta
fatica, dolorante e sporco. L'archetipo del mostro di Frankenstein
(con allusioni al classico di James Whale) braccato dai villici
imbestialiti rivive in questa pellicola, dove il mostro (reietto,
incompreso e bisognoso di aiuto) veste i panni di Babbo Natale. In un
balletto etico in cui lo spettatore non è sicuro da che parte stare.
Il finale del film di Jackson ha fatto
discutere, spiazzando il pubblico per la sua natura surreale e
allegorica. Potremmo dire che è la chiusa perfetta alle buone
intenzioni (e ai crimini) di Harry. Harry forse è davvero
l'incarnazione di Babbo Natale. Non quello voluto dalla tradizione e
dai meccanismi commerciali, ma dall'immaginario infantile, dolce con
i buoni, severo con i cattivi, e comunque magico. Potremmo intendere
“Christmas Evil” come una
lettura metaforica e visionaria del monito evangelico: gli innocenti
non vanno scandalizzati, o guai a voi. E concludere che il Natale è
un sogno che appartiene all'infanzia, a dispetto della crudezza del
mondo reale, e che le illusioni (i sogni) di innocenti piccoli e
grandi andrebbero comunque rispettate, nella peggiore delle ipotesi
come un atto di pietà, volto a concedere una tregua incantata dalla
crudeltà della vita quotidiana.
martedì 25 dicembre 2018
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