domenica 20 gennaio 2019

Suspiria di Luca Guadagnino (Spoiler)



"Suspiria” di Luca Guadagnino è un film discretamente discusso, ma che evidentemente ha suscitato la curiosità di pochi. Non si capirebbe, altrimenti, la pessima distribuzione nelle sale italiane e i risultati poco confortanti al botteghino. Ci sarebbe da dire “peccato”. E non perché siamo davanti a un film imprescindibile, ma perché l'esperimento si dimostra interessante e stimola una riflessione trasversale sul cinema e la narrazione in generale.
Per parlarne davvero sarà necessario qualche spoiler, e questo dovrebbe già segnalare quanto sia ampia la distanza tra il lavoro di Guadagnino e l'opera di Dario Argento cui si ispira. Ma per iniziare è opportuno spendere prima qualche parola sul concetto di remake, termine che nel corso dei decenni è andato cambiando significato, diventando sempre più vago e a volte ingannevole.

La pratica del remake è in realtà vecchia quanto il cinema stesso. Hollywood ha sfornato un'infinità di riletture in cui registi e star di grido gareggiavano con le precedenti versioni per carisma e allestimento. Per molto tempo, per remake si è intesa una nuova narrazione della medesima storia, magari aggiornata ai propri tempi, ma portando in scena gli stessi personaggi e seguendo dinamiche molto simili al prototipo. Nella maggioranza dei casi, rigirando anche le scene salienti del film precedente, solo fornendone una diversa interpretazione dal punto di vista tecnico e registico. Un differente approccio, insomma, a una narrazione in cui si rimaneva comunque discretamente fedeli al soggetto originale se non alla sceneggiatura. Nel tempo, la pratica del remake si è andata gradualmente allontanando da questa ricetta per esplorare altri stili di rinarrazione. In molti casi a rimanere riconoscibile è solo lo spunto, mentre i personaggi e la trama prendono strade indipendenti. Negli ultimi decenni, con qualche eccezione, abbiamo visto arrivare sullo schermo sempre meno esempi della prima tipologia di rifacimenti e prendere piede la pratica della più libera variazione sul tema.


Sarebbe questo il caso del “Suspiria” di Luca Guadagnino? Beh, sì e no.

Consideriamo, per cominciare, che rifare un film di Dario Argento è praticamente impossibile oltre che particolarmente inutile. E questo non per una presunta sacralità dell'opera originale, ma per la natura stessa del cinema argentiano. Un cinema dove nella maggior parte dei casi la sceneggiatura è esile ai limiti dell'inconsistenza, dove lo spettacolo mira a sorprendere con invenzioni visive che realizzano scenari da incubo suggestivi ma spesso privi di vera logica narrativa. La violenza coreografica e la sua estetica, al servizio di emozioni non razionali, non potrebbe essere rifilmata se non tentando (a che pro?) di intraprendere una sfida a colpi di virtuosismi per immagini che produrrebe inevitabilmente una copia sbiadita di qualcosa che è ormai storia.
Luca Guadagnino non fa questo. E se di remake si tratta, o di variazione sul tema, il suo esperimento cammina su strade ben diverse. E' stato detto, tra le tante cose, che l'uso del titolo del film di Argento sia arbitrario. Non sono proprio d'accordo. Le parentele esistono, per quanto labili, e non si possono negare. Esiste la scuola di danza, trasportata da Friburgo alla Berlino ancora divisa in due dal muro ancora in piedi negli anni 70. Esiste Susy (anche se nel film di Guadagnino si scrive Susie), la nuova studentessa americana giunta a scoprire i misteri dell'accademia. Esiste la congrega di streghe che ha nella scuola di danza il suo quartier generale. Esiste persino una studentessa che mentre Susie-Susy arriva, fugge dalla scuola per andare incontro a un destino funesto. Esiste una compagna di stanza che porterà avanti una propria indagine pagandone il prezzo...

E poco altro. Sì, ma direi che è sufficiente. Uno spunto e delle icone che bastano a fare del film di Guadagnino una personale fantasia che prende le mosse da un'opera precedente, ma per dire altro. O meglio, per portare a casa uno spettacolo cinematografico di tipo diverso.


Horror sì? Horror no? Siamo sicuri che questa domanda oggi abbia ancora senso? La maggior parte degli horror più riusciti, ultimamente, sono quelli che riescono a travalicare il genere e a ibridarne più d'uno. In “Suspiria” di Guadagnino abbiamo del sangue e alcuni lampi di orrore, ma più concettuali che prettamente visivi come nel prototipo di Dario Argento. Inoltre, qui la storia, per quanto criptica e piena di sottintesi forse non del tutto centrati, c'è e si fa sentire. Come si fanno sentire e hanno corpo e anima le streghe, che nel film di Argento svolgevano solo un ruolo di McGuffin volto a portare in scena i loro spettacolari delitti. Qui c'è la danza, molto più presente e tematica che nel “Suspiria” del 77. Una danza che diventa anche strumento di stregoneria, usata per dare la morte.



In sostanza, potremmo dire che forse Guadagnino suggerisce questo. Ecco la trama che mi sarebbe piaciuto scoprire dentro l'ossatura del film di Argento. Film, ricordiamo, che per quanto cult, per quanto celebrato (successivamente, ai suoi esordi la critica lo distrusse), è un'opera che vive di puro virtuosismo formale, laddove il film di Guadagnino punta su simboli, recitazione, e trama. Una trama non nuovissima, per carità. Anzi, già vista e riconoscibile come palinsesto in mille altre occasioni. Le lotte intestine a una congrega di streghe che si contendono la leadership e l'identificazione di una prescelta è discretamente sfruttata. Al punto che qualche parentela potremmo individuarla anche nella terza stagione della serie TV “American Horror Story: Coven” o nel film “The Craft” (in italiano “Giovani streghe”). Anche lì (SPOILER) a emergere trionfante e a rivelare il crisma di strega suprema è il personaggio presentato inizialmente come il più innocente. Nel caso di “Suspiria” è Susie, che se nel film di Dario Argento è l'artefice della sconfitta della strega Markos, qui si dimostra essere la vera incarnazione dell'antica parca venuta a rivendicare il titolo che le spetta di diritto. Ma anche qui, come spesso succede con le storie, a contare non sono tanto i fatti quanto la forma che li esprime. E Guadagnino confeziona un film forse non perfetto, ma a suo modo riuscito, grazie anche alle ottime performance (su tutti una camaleontica Tilda Swinton impegnata in ben tre ruoli) e ai sottotesti (confusi ma intriganti) che echeggiano la stagione del terrorismo tedesco di estrema sinistra. Alle azioni della Rote Armee Fraktion, si contrappone infatti l'intellighenzia (altrettanto truce, ma più occulta e meditata) delle streghe, a loro modo portatrici di un pensiero anarchico, svincolato dai concetti di bene e di male come li conosciamo, e rivolti a una visione tutta femminile dell'esistenza. Più che perverse, le streghe di Guadagnino sono amorali, e sfidano il sistema (e il potere maschile) a modo loro, pur scadendo nell'eterna lotta per la supremazia, Eva contro Eva, vero punto debole della congrega che sarà (forse) risolto dalla rivelazione della vera prescelta. E' la rappresentazione di un potere antico che potrebbe fare tantissimo, ma che in mani umane cede inevitabilmente al peccato originale dell'individualismo. Una deriva che solo la natura stessa, unico vero potere incrollabile, potrà arrestare.


A questo punto, anche la domanda “remake o no?” perde importanza. Luca Gudagnino ha attinto alle suggestioni di un film che evidentemente lo ha colpito, ispirandogli la sua storia e la sua rappresentazione filmica del concetto di strega. Le storie e il modo di raccontarle, al cinema e in altri media, funzionano spesso come un virus. Si attaccano alla fantasia, e spesso mutano generando qualcosa di simile e nello stesso tempo peculiare. Non è male questo. Storie e immaginari si parlano, fanno l'amore e a volte generano pure dei figli. Anche dei nipoti se è per questo. E mi piace ricordare che Dakota Johnson, riscattata in questo film dal ruolo rivestito nella serie cinematografica di “50 sfumature”, è la figlia dell'attrice Melanie Griffith, e quindi la nipote di Tippy Hedren, indimenticabile protagonista de “Gli Uccelli” di Alfred Hitchcock.
 

Per concludere, fare paragoni tra i due film non sarebbe sano. Non parliamo solo di due diversi registi e di due pellicole dallo stesso titolo, ma con intenti diversi. Parliamo anche di tempi diversi. Di concezioni diverse non soltanto dell'horror, ma del cinema stesso. Ma di cinema si tratta. Sempre e comunque. E per una volta l'intento è una sperimentazione artistica, una personale rivisitazione di una suggestione storica, e non un progetto meramente commerciale.

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