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lunedì 16 marzo 2020

Die Farbe (Il Colore)


"Die Farbe" (letteralmente "Il colore") è un film indipendente tedesco del 2010 ispirato a "Il colore venuto dallo spazio" di H. P. Lovecraft. A parte la variante geografica, che ambienta la vicenda nella campagna tedesca, e qualche libertà, il film diretto da Huan Vu è molto più fedele alla fonte letteraria di tanti altri adattamenti. Il racconto è articolato in tre atti che rimbalzano su altrettanti piani temporali. Subito prima il secondo conflitto mondiale. Subito dopo la fine della guerra, e quindi molti anni più tardi, dal punto di vista del figlio di un ex militare americano che di recente è tornato a visitare la Germania, dove aveva vissuto una strana esperienza, facendo perdere le sue tracce. La vera peculiarità del film è la scelta di lavorare in sottrazione. Nessun effetto speciale vero e proprio, nessuna mostruosità evidente e in piena luce, ma solo tanta suggestione. Né più né meno dell'irriferibile portato in scena dallo scrittore di Provvidence nei suoi racconti. Un altro aspetto importante di "Die Farbe" è quello di essere una pellicola in bianco e nero, dove l'unico colore è quello maligno venuto da un'altra dimensione. Qui ancora più alieno, in quanto unico colore presente nel film. Curiosamente, anche qui parliamo di una sfumatura di fucsia, come avrebbe scelto molto tempo dopo Richard Stanley per la sua recente versione. Peccato per l'uso di una CGI molto approssimativa in alcune scene di cui si sarebbe potuto fare a meno. Peccato per un uso forse non del tutto equilibrato del contrasto tra fotografia in bianco e nero e colore fuori contesto. Idea molto interessante, ma che forse poteva essere sfruttata meglio e in modo più ossessivo. "Die Farbe" è comunque un esperimento interessante. E se vi chiedete se è migliore del recente film di Richard Stanley... Non credo abbia senso paragonarli. Troppa distanza formale, intenzioni troppo diverse, con la sola base del racconto di Lovecraft che rende i due film lontani cugini. Ovviamente è inedito in Italia, e nel dvd mancano i sottotitoli nella nostra lingua. Questi sono comunque reperibili in rete, nei consueti modi esoterici.



mercoledì 11 marzo 2020

The Color Out of Space [di Richard Stanley]


"The Color Out of Space" rappresenta il ritorno di Richard Stanley alla regia di un lungometraggio dopo un periodo piuttosto lungo. Infatti, dopo le ottime prove di "Hardware" e "Dust Devil" (noto anche come "Demoniaca"), nella prima metà degli anni 90, il regista sudafricano aveva firmato soltanto corti, documentari e brevi episodi in film antologici. Nel 1996 avrebbe dovuto dirigere "L'isola perduta", ma la sua visione personale e l'ingombrante presenza della star Marlon Brando, causarono il suo allontanamento dal progetto che fu portato a termine da John Frankenheimer. Un peccato, considerato il valore dei suoi primi film. Opere di genere horror baciate da una sensibilità autoriale e una capacità evocativa visionaria, in cui scenografie, fotografia e colore danno vita a sogni lucidi inquietanti e di grande impatto sulla memoria. "The Color Out of Space", del 2019, è quindi un film di una certa importanza. Che somma il ritorno in scena di un regista che ha tanto da dire (e che lo dice in modo personalissimo) con un nuovo approccio alla narrativa di H. P. Lovecraft, ritenuto (e non a torto) uno degli scrittori horror meno filmabili per via della sua particolare poetica, fatta di orrori suggeriti e sempre collocati oltre l'immaginazione umana. "Il Colore venuto dallo Spazio" è peraltro uno dei racconti più noti e adattati di Lovecraft. La sua prima versione cinematografica risale al 1965 e al film "Die, Monster, Die!" di Daniel Haller, che in italiano diventa "La morte dall'occhio di cristallo" e vede come protagonista il mitico Boris Karloff. Da allora, la vicenda dell'entità extraterrestre che giunge in una zona boscosa della terra all'interno di un meteorite e che si manifesta come un colore inesistente nel nostro piano di realtà, dotato di una volontà maligna che ridefinisce il mondo intorno a sé secondo uno schema alieno e incomprensibile, mutando cose e corpi, è stata più volte ridotta per lo schermo. Raramente in modo efficace. E già, parliamo sempre del non adattabile Lovecraft. Diciamo anche che il titolo italiano del racconto forse non rende giustizia all'idea del suo autore. "The Color Out the Space" è un "colore fuori dello spazio" più che "venuto dallo spazio". Qualcosa di indefinibile e inqualificabile. Un elemento portatore di caos che azzera le norme e stravolge spazio e tempo, infettando ambiente, menti e corpi. Nel racconto il colore non appartiene a nessuna tavolozza, non è descrivibile nella sua alienità, e ovviamente questo non può essere reso al di fuori della rappresentazione letteraria. Richard Stanley, che aveva già dato prova di notevoli suggestioni oniriche con "Dust Devil" (di cui consiglio il recupero della versione Director's Cut con il titolo originale), sceglie per questa tinta aliena una sfumatura di fucsia iridescente (neanche a farlo apposta, un colore che io detesto). Caldo, ma nello stesso tempo morboso. E lo rende centrale e malevolo con la sua crescente onnipresenza a mano a mano che il film va avanti. Non c'è molto da raccontare, in quanto l'opera di Lovecraft, come abbiamo detto, è ampiamente nota e sfruttata. Quello da considerare, dunque, non è tanto il racconto e il suo progredire (che oggi chiunque può facilmente prevedere) quanto la personale visione scenica di Stanley, che la racconta con un ritmo dapprima rilassato e poi sempre più convulso, mentre le sue invenzioni cromatiche divampano e il body horror che si è già fatto interprete degli orrori lovecraftiani su schermo nelle opere di Stuart Gordon e Brian Yuzna si manifesta in tutto il suo disgustoso splendore. E poi... già! Poi c'è Nicolas Cage. In realtà non c'è solo lui. C'è Joely Richardson, protagonista di almeno due scene che mi hanno fatto saltare i nervi. E Madeleine Arthur, veramente brava e intensa. Ma ci si aspetta di sentir parlare di Cage. Nicolas Cage è praticamente diventato il caprio espiatorio di una quantità di film di genere. Per osmosi, sembra che il povero Nicolas sia ormai identificato con il marchio di infamia che definirà un film come pessimo. Quasi come se le sue scelte, la sua stessa presenza, abbiano la stessa caratteristica nefasta del "colore fuori dello spazio". Quella di guastare e trasformare tutto ciò che tocca in qualcosa di indescrivibile nel suo orrore. Beh, non è vero, dai. Nel film di Stanley, Cage è del tutto funzionale al racconto. Ci sarà, nell'ultima parte del film, un momento in cui lo vedremo andare fuori di testa (ma vorrei vedere chiunque in quella situazione) e fare le sue smorfie. Ma mi domando se il regista non lo ha scelto proprio per questo. Per rappresentare la progressiva marcescenza mentale e la trasformazione di un individuo posato e mite in qualcosa di grottesco e privo di senso. Come molti oggi vedono Nicola Cage, dopotutto. Insomma, "The Color Out of Space" è un felice ritorno per Richard Stanley. Potrà non colpire particolarmente, in quanto narra una storia già vista ormai mille volte (anche in numerose varianti del tema), ma dimostra che la poetica visiva del regista è ancora viva e vitale. E il suo progetto di realizzare una trilogia basata sull'immaginario di H.P. Lovecraft non può che ispirarmi un'interessata attesa.

giovedì 5 gennaio 2012

Lovecraft



Il nome dovrebbe essere già abbastanza evocativo, ma per quanti non lo sapessero, Howard Phillips Lovecraft è senza ombra di dubbio uno dei più grandi scrittori della letteratura horror – fantasy. Forse neanche il suo maestro, Edgar Allan Poe, è riuscito con la sua opera a creare un immaginario narrativo tanto variegato e coinvolgente. Il punto è che, in passato e anche oggi, sono sorti e sorgono non pochi dubbi sul fatto che il suo non fosse un semplice esercizio di fantasia. Sono innumerevoli gli autori che si sono ispirati alle sue storie, e si può dire che tutto il panorama fantascientifico e horror della letteratura contemporanea, con pochissime eccezioni, può considerarsi una propaggine di Lovecraft.
Non stupisce quindi che sia diventato lui stesso il protagonista di una storia, nella fattispecie di questa bella e particolare graphic novel ad opera di Hans Rodionoff ed Enrique Breccia. Il primo in realtà è autore di una sceneggiatura cinematografica, essendo questa la sua vera occupazione nella vita, e il suo testo è stato adattato per il fumetto da Keith Giffen, pilastro della DC Comics. Di Enrique Breccia non conoscevo nulla, se non il nome, ma ho piacevolmente scoperto il suo stile artistico molto particolare.




La storia è una vera e propria biografia di Lovecraft, dall’infanzia agli ultimi anni della sua vita, e bisogna dire che, sia nella storia che nella vita, il confine tra realtà e fantasia si assottiglia al punto che i due mondi finiscono per confondersi. Fin dalle prime pagine facciamo la conoscenza del piccolo Howard e dello strano mondo che lo circonda nel suo ambiente familiare. Una madre che lo veste e lo trucca come una bambina, un padre internato in manicomio, dove morirà dopo pochi anni, un nonno che gli fa trascorrere le serate raccontandogli storie terrificanti. Già questo basterebbe a turbare la psiche di un bambino che tutto può dirsi fuorché forte e sicuro di sé e del mondo. Ma a questo punto entra in scena l’elemento fantastico, rappresentato da un misterioso libro, il Necronomicon, appartenuto al padre e forse responsabile della sua follia. Il piccolo Howard non resiste alla tentazione di leggerlo, e da quel momento la realtà davanti ai suoi occhi si trasforma. Apparentemente senza alcuna ragione, il suo mondo comincia ad essere tormentato da spaventose creature che lo cercano spasmodicamente, portandolo molto vicino ad un baratro di follia. Howard è però una persona intelligente, e sfrutta queste sue visioni come protagonisti delle storie che scrive. In realtà, nel suo scrivere si limita a riportare fedelmente quello che vede in quelli che lui stesso definisce viaggi nel sonno. E in effetti le sue opere ricevono un discreto apprezzamento da parte del pubblico e dell’editoria. Poi, durante una delle sue visioni ad occhi aperti, conosce Sonia, di cui si innamora e con la quale comincia a concepire un progetto di vita che non
prevede quel mondo immaginario e terrificante che ha scandito fino ad allora la sua esistenza. Ma ben presto si renderà conto che non è così facile, che quelle che lui crede siano creature senza ragione hanno in realtà uno scopo ben preciso, legato al Necronomicon, il libro con cui tutto è cominciato e con cui tutto deve finire. Solo attraverso un ultimo viaggio in quel mondo fantastico, Howard e Sonia riusciranno finalmente a scongiurare il pericolo per la loro realtà e a ritornare al loro mondo. Anche se questo costringerà Lovecraft a continuare nella sua opera, che da adesso avrà un compito fondamentale: impedire che il varco si riapra e mantenere sigillata quella realtà.

Storia interessante su un uomo altrettanto interessante, uno scrittore la cui vita è stata certamente ai limiti della surrealtà tanto quanto le storie che ha scritto, al punto che sulla sua figura si sono fatte molte ipotesi, tra le quali quella che lui fosse veramente convinto dell’esistenza delle creature e dei luoghi di cui scriveva, e che quelli considerati viaggi con la fantasia fossero in realtà deliri di uno schizofrenico che ha perso il contatto con la realtà. Di sicuro c’è che la sua opera è stata fonte di ispirazione per moltissimi autori, non solo di romanzi horror e fantasy, ma anche di fumetti. Ad esempio, è interessante che il luogo popolato dalle sue creature si chiami Arkham, e che proprio in quella città vi sia un manicomio, corrispettivodi quello in cui venne internato e dove poi troverà la morte il padre. Il parallelismo con il famigerato Arkham asylum, il manicomio di Gotham city dove trovano spesso ospitalità i criminali con cui si scontra Batman, è fin troppo facile da fare.
Un commento particolare lo meritano i disegni, che definire così è riduttivo, di Enrique Breccia. Ogni tavola è un quadro ad acquerello, con la forza e l’intensità di certe sfumature che coinvolgono e rappresentano alla perfezione i deliri e le visioni del protagonista. Anche solo per questi, varrebbe la pena di leggere questa graphic novel.




[Articolo di Filippo Longo]

Questa recensione è stata pubblicata anche su Cose Preziose



mercoledì 7 dicembre 2011

Neonomicon



H.P. Lovecraft, un genio visionario per qualcuno. Un mediocre scribacchino per altri. In ogni caso una autore di grande rilievo, cui va riconosciuto il merito di aver plasmato un immaginario fantastico e orrorifico che ha germinato profondamente nella cultura popolare, tanto da produrre una schiera di imitatori e prosecutori, consegnando alla storia del perturbante un'etichetta mutuata dal nome stesso dell'artista: lovecraftiano.

Alan Moore, celebrato scrittore britannico, noto per aver firmato pietre miliari del fumetto sdoganandolo come espressione artistica matura (Watchmen, V for Vendetta, From Hell), affronta il cosmo di Lovecraft a modo suo, con rispetto filologico e quella punta di immancabile originalità che ha sempre fatto di Moore un vero alchimista dell'arte sequenziale. La personale rilettura dell'opera di H.P. Lovecraft, Moore l'aveva iniziata con la pubblicazione di un racconto in prosa, Il Cortile (edito in Italia da Einaudi-Stile Libero nel 1997), in seguito adattato a fumetti dallo sceneggiatore Anthony Johnston e il disegnatore Jacen Burrows per la Avatar Press. Il racconto è il monologo interiore di un agente federale impegnato nell’inchiesta su una serie di omicidi rituali apparentemente scollegati tra loro, ma accomunati da inquietanti elementi che sembrano seguire uno schema. L'indagine porterà il detective a indagare su una misteriosa droga chiamata Aklo, qualcosa capace di risvegliare nelle menti umane un'antica consapevolezza, e mostrare l'universo in una prospettiva inimmaginabile per i non iniziati. Senza le parole, senza il linguaggio, ricorda Alan Moore, certe cose non possono neppure essere pensate. La lingua è magia, fa esistere le cose e dona loro concretezza. Il linguaggio, dunque, è la più potente e sovversiva delle droghe. Una chiave in grado di aprire porte che non potranno più essere richiuse.


Nel 2011, Moore porta a termine il capitolo conclusivo della miniserie Neonomicon, il cui titolo è una dichiarata allusione al Necronomicon, il maledetto libro fittizio più volte citato da Lovecrat in molte delle sue opere. Incursione, pare definitiva, del bardo di Northampton, come è chiamato dai fans, nell'oscuro universo del sognatore di Providence: Lovecraft. La Bao Publishing propone l'intero ciclo, sceneggiato da Moore e sempre disegnato da Burrows, facendolo precedere dalla versione a fumetti de Il Cortile. Racconto che può a buon diritto considerarsi l’antefatto della raccapricciante vicenda raccontata in Neonomicon.

Il punto nevralgico dell'opera lovecraftiana di Alan Moore è proprio questo. Il Cortile è un prologo di Neonomicon o è piuttosto il secondo a essere un seguito del primo? Può sembrare una domanda pedante e inutile, ma è piuttosto un quesito sincero, che sorge una volta portata a termine la lettura del volume. Infatti, una risposta o l'altra potrebbe segnalare quanto questa recente fatica del bardo possa essere definita riuscita, o se preferiamo compiuta.

E' necessario ricordare che Alan Moore è sempre stato un autore di grande duttilità, tutt'altro che schizzinoso nei confronti di esercizi commerciali (vedi le incursioni sulla serie dedicata a Spawn) e capace di variare registro artistico e profondità concettuale con la grazia naturale di un camaleonte. Il mero intrattenimento non è qualcosa di blasfemo per il bardo, da sempre capace di offrire fumetti di qualità pur con una leggerezza che li rende molto distanti da opere corpose come From Hell. E' un po' la sensazione che si riceve da Neonomicon, come se la fine del racconto (comunque scioccante) sopravvenisse in modo un po' troppo rapido, limitandosi a scalfire la superficie di qualcosa che avrebbe potuto essere memorabile, ma che forse non era mai stato nelle reali intenzioni dell'autore.


Moore stesso, in una recente intervista ha definito Neonomicon una sorta di sequel a fumetti de Il Cortile, un personale gioco tra narrativa e arte sequenziale, in cui l'obbiettivo dell'autore era portare una ventata di modernità nelle atmosfere malsane e pessimiste della mitologia lovecraftiana. Una storia cupa, disseminata di nomi e parole che rimandano a cose e personaggi che ogni appassionato di Lovecraft può riconoscere, ma trapiantati in una realtà metropolitana, dove Lovecraft stesso, sia pure assente, diventa personaggio. Il testimone, forse non del tutto consapevole, di una realtà strisciante, probabilmente non compresa a fondo neppure da alcuni dei suoi principali accoliti. Un incubo in cui l'orrore cosmico suggerito dallo scrittore di Providence emerge pian piano, attraverso citazioni calibrate, per poi mutare e trasformarsi in qualcosa d'altro. Per trasformarsi in Alan Moore, e come un esercizio di variazione strumentale su una partitura classica, diventare opera a sé stante, aperta all'interpretazione del lettore moderno.

Il punto è che Il Cortile, nella sua essenzialità di racconto breve, sfoggia una compiutezza orrorifica e strutturale che a Neonomicon in parte manca. Il legame di continuità con la vicenda del detective protagonista del prologo è dei più classici, ma il ritmo dell'esecuzione cambia in modo drastico, e la narrazione si fa più sporca, più fisica, ma anche più enigmatica nella sua concreta rappresentazione di un orrore fatto di carne, sangue e sesso. La miniserie in quattro parti che segue Il Cortile, dà quindi la sensazione di un intrigante postilla, che non manca di momenti emozionanti, ma che non graffia l'inconscio con la stessa forza del racconto breve che la precede. Alan Moore non risparmia colpi bassi, spesso riservando al lettore proprio il genere di raccapriccio che si attenderebbe, ma cui non vorrebbe assistere. Né rinnega del tutto l'ellissi tipica della scrittura di Lovecraft, avvezzo a suggerire più che a mostrare, attraverso un espediente di soggettiva cinematografica che riesce veramente a torcere le budella del lettore e a regalargli più di un brivido, prima di mutare ancora e lasciarlo del tutto spiazzato.


Rimane, però, un vago senso di incompiutezza, e di ambiguità concettuale che non si sa bene come interpretare. La personale lettura che Moore propone della mitologia lovecraftiana, i colpi di scena psichedelici e le dinamiche oscure degli avvenimenti, potrebbero indurre a vedere Neonomicon, nel suo complesso, come una personale riflessione sulla mistica e le religioni in generale, rese spesso violente e orripilanti dall'ignoranza degli umani che le applicano e non oscene di per sé. L'ambiguità finale, le domande senza risposta, sembrano alludere a qualcosa di addirittura rivoluzionario,  un'apocalisse che azzeri un mondo di bugie e depravazioni per ricondurre il cosmo a una primordialità tutto sommato più innocente e auspicabile. Sembra che per Moore il culto di Cthulhu possa avere persino qualcosa di seducente se sfrondato dalle nefandezze che l'uomo, nella sua congenita bestialità, le ha sovrapposto più per divertimento personale che per reale devozione.


Una sensazione disturbante, proprio perché indefinita. Incastrata tra le potenzialità di un autore dirompente e versatile e la fretta di quella che rimane un'opera minore, suggestiva ma che non si eleva al di sopra del mero esercizio di stile. Nonostante questo, Neonomicon è un titolo che non manca di interesse, suggestione e persino di uno strisciante, insolito orrore. Un Alan Moore che, dopo Promethea, torna a  parlare di magia, di sortilegio della parola e di possibili apocalissi. Forse di palingenesi, nascondendo un sospetto barlume di ottimismo tra i miti orridi e solitamente senza speranza del tetro H.P. Lovecraft.

 
[Articolo di Filippo Messina]


Questa recensione è stata pubblicata anche su FantasyMagazine.