giovedì 23 novembre 2023

Capolinea Malaussène: fine del viaggio e grazie di tutto


Alla fine ce l'ha fatta, Daniel Pennac, a sfornare l'ultimo capitolo della quasi quarantennale saga della tribù dei Malaussène, iniziata nel lontano 1985 con Il paradiso degli orchi. Un'attesa lunghetta, e anche pericolosa per l'autore e i suoi lettori. 
Infatti, Il caso Malausséne – Mi hanno mentito, era uscito nel 2017 e si interrompeva con un irritante “Continua”, alla maniera delle più recenti saghe cinematografiche, spesso divise in più parti. Cinque anni di astinenza per leggere quello che si annunciava come il definitivo addio a un cast di personaggi diventato di romanzo in romanzo affollatissimo. Una trama labirintica, come sempre quando si parla dei Malausséne, a metà strada tra il noir e la commedia surreale, in cui una nuova generazione di protagonisti affiancava quelli storici dimostrandosi altrettanto imprevedibile. 


Il pericolo consisteva proprio nell'intima interconnessione tra i due romanzi spezzati da quel letale “À Suivre”, e nei cinque anni trascorsi tra un volume e l'altro. Orientarsi tra i mille accadimenti, decine di personaggi vecchi e nuovi, e non perdersi dopo l'intervallo non era facile. Lo stesso riassunto, all'inizio del nuovo libro, è più uno sberleffo al lettore che la sintesi degli eventi già narrati. Sintetico, ironico, inutile. Quasi un invito a tuffarsi in acqua per imparare a stare a galla da soli. E la paura di annegare c'era, e neppure poca. Eppure, l'ormai settantanovenne Pennac fa centro per l'ennesima volta. 

Capolinea Malaussène è un vero gioco di fuoco che fa di tutto per concludere col botto la mitologia dell'amatissima e disfunzionale famiglia di Belleville le cui avventure ci hanno tenuto compagnia per ben trentotto anni. Sarà veramente l'ultimo capitolo? Pennac aveva annunciato un primo addio ai suoi personaggi già una ventina d'anni fa, per poi proseguire a spizzico con nuove storie. Era evidente che congedarsi da Benjamin e gli altri non era facile per lui come per noi. Ma tutto ha una fine. O così pare. Certo, il buon Pennac non è più un ragazzino, ma chi può dire che cosa farà? Come scriveva lui stesso in Storia di un corpo, la vera età di una persona non si calcola in base alla sua data di nascita, ma in base ai passi che la separano dalla tomba. E questo rimane imponderabile. Soprattutto se parliamo di uno scrittore estroso e prolifico. 

In Capolinea Malaussène ritroviamo tutti gli ingredienti che ci hanno fatto amare il cocktail nero-rosa-piccante-dolceamaro-frizzante-torcibudella della saga. I complessi intrecci polizieschi. L'umorismo beffardo. Il tono da commedia improvvisamente interrotto da esplosioni di violenza che sconfinano nell'horror. E poi c'è quell'atmosfera da resa dei conti, da sfida all'O.K. Corral. La conversazione con un vecchio amico che mentre ci parla sta mettendo le sedie sul tavolo, chiudendo le finestre e preparando i catenacci. 


Capolinea Malaussène è un libro che lascia senza fiato tanto è affollato da personaggi, dettagli e citazioni. Un rondò che riprende tutti i temi trattati nei libri precedenti, riassume quella che è diventata una vera e propria “lore” (come dicono oggi quelli bravi) e la arricchisce con spunti inediti. Nuovi personaggi, nuove suggestioni... e uno spettacolare villain, malvagio e insidioso come mai ne abbiamo incontrati tra le pagine dello scrittore francese. Una vera festa d'addio dedicata al lettore e ai suoi eroi, dove pare di sfogliare un vecchio album di famiglia mentre si stanno vivendo nuove esperienze. E quel twist! Anzi due twist. Ma facciamo anche tre. Non ve li aspetterete proprio. I lettori di fumetto seriale americano, certe cose le chiamano “retrocontinuity”. Vale a dire la rivelazione di retroscena importanti taciuti durante la narrazione principale che a un tratto emergono per cambiare le carte in tavola. Beh, nel suo feuilleton contemporaneo, Daniel Pennac fa tesoro di questo espediente, e picchia duro, imbastendo una serie di colpi di scena che hanno l'effetto di una mascoliata finale prima del botto definitivo. 

E' veramente la fine? Non vedremo più Benjamin, Julie, Jeremy, Thérèse, gli altri fratelli, sorelle, nipoti e i tanti amici che nel tempo hanno formato con loro la più allargata delle famiglie? Secondo le intenzioni di Pennac, sembrerebbe di no. Poi chi lo sa! Aver visto sin dagli anni 80 dei personaggi nascere, crescere, e oggi agire da adulti, è stato un po' come vivere un'esistenza parallela. Daniel Pennac si è meritato un posto importante nella corte dei romanzieri internazionali, e la tribù Malaussène è diventata un vero mito moderno. Giusto che avesse la sua conclusione. Epica, come meritava. 

Ma una lacrimuccia ci sta tutta.


lunedì 2 ottobre 2023

Dieci Anni, ma sempre presenti

 


Dieci anni senza Altroquando. Ma anche dieci anni di resistenza per continuare a esistere.


Tanto è trascorso dalla chiusura della prima fumetteria storica di Palermo e dalla scomparsa del suo fondatore, Salvatore Rizzuto Adelfio. Oggi, in occasione di questo decimo anniversario, è il momento di ricordare quell'esperienza culturale e la persona che l'ha resa possibile. Come allora, dall'apertura sul Cassaro di Palermo nel lontano 1991, si comincia dai fumetti, con una serie di eventi che esordiranno presso i locali di Comix Green, altra fumetteria storica della città, e proseguiranno in ordine sparso nei prossimi mesi. Il 12 ottobre alle 16:30 presso Comix Green in via Pignatelli Aragona 78, si aprirà la mostra intitolata “Memorie da un Altroquando”. Una vasta raccolta di omaggi grafici che Salvatore Rizzuto Adelfio, titolare di Altroquando, ha collezionato sin dai primi anni 90 fino alla sua scomparsa, avvenuta nel 2013. Opere nate spontaneamente dalla creatività dei giovani frequentatori della libreria, aspiranti fumettisti e illustratori, alcuni dei quali oggi hanno intrapreso una carriera da professionisti. Immagini promozionali, caricature del titolare, brevi storie a fumetti e altre esplosioni di libera creatività. Una collezione che narra una lunga stagione culturale e la sua naturale evoluzione a cavallo di due secoli. Il fermento di una Palermo in cui leggere e fare fumetto, ma anche inventarsi e mettersi in gioco, era una passione ancora nuova e piena di entusiasmo. Quella allestita presso Comix Green dall'attuale gruppo Altroquando, crew culturale che ha raccolto il testimone della precedente attività, sarà la prima di una serie di mostre che non vogliono essere solo un nostalgico sguardo al passato, ma si propongono come memoria storica a una città che, da Salvatore Rizzuto Adelfio e dalla sua libreria, ha ricevuto un'importante spinta creativa in grado di mettere insieme arte, divertimento e impegno sociale.

Ci sarà sempre un Altroquando, anche fuori dalle mura anguste di una bottega. Altroquando oggi è un tag culturale che si occupa di divulgare le tante declinazioni del narrare, partendo dai fumetti per parlare di vita, storia e società. E le radici sono sempre una parte importante nella storia di ognuno di noi.

Dopo l'inaugurazione, la mostra si potrà visitare durante gli orari lavorativi di Comix Green (10 -13; 16-19:30) fino a sabato 14 ottobre 2023.





mercoledì 6 settembre 2023


In memoria del regista Giuliano Montaldo, appena scomparso, oggi vi propongo uno dei suoi film meno ricordati, visibile gratuitamente su Rai Play.

Circuito Chiuso
, film surreale, inquietante, claustrofobico e oggi dimenticato dai più, merita di essere recuperato, superando i pregiudizi che si potrebbero nutrire per un prodotto italiano televisivo di fine anni '70. Nato per la TV, acclamato al Festival Internazionale del Cinema di Berlino nel 1978, il film di Montaldo fu a un passo dall'essere distribuito al cinema, ma per ragioni contrattuali rimase confinato allo spazio televisivo. Circuito Chiuso è una parabola surreale, quasi horror sul rapporto tra spettacolo e pubblico. In un piccolo cinema romano, durante la proiezione di un film western, uno spettatore è assassinato con un colpo di pistola. Il pubblico viene trattenuto dalla polizia e si cerca di riprodurre gli eventi della giornata in cerca del misterioso, assassino mentre tra i presenti le tensioni crescono e un sociologo che si trovava in sala azzarda una strana, inquietante teoria.

Una metafora sul cinema e lo show business in generale che, fruito acriticamente, ci uccide e si nutre di noi. Praticamente un antesignano di Nope di Jordan Peele, che attinge dichiaratamente anche a elementi della narrativa di Ray Bradbury.

Un film ingiustamente considerato minore nella carriera del grande regista scomparso. Una novella "creepy" che conserva ancora oggi tutta la sua potenza simbolica, grazie anche a un cast affiatato di attori tra cui spicca l'indimenticato Flavio Bucci.

venerdì 25 agosto 2023

In Memoriam


 

10 anni oggi dalla scomparsa di Salvatore Rizzuto Adelfio. Senza di lui, Altroquando a Palermo non sarebbe mai esistito. Senza di lui tutte le cose che ho fatto negli ultimi anni non le avrei nemmeno pensate. Senza di lui la nostra città sarebbe stata un luogo più vuoto e più triste. Più di un libraio. Più di un attivista. Più di un amico. Più di un compagno di vita.

Il ragno radioattivo che mi ha morso.

Il Maestro Splinter che mi ha addestrato.

L’Abin Sur che mi ha affidato il suo anello del potere.

Lo Xavier che mi ha insegnato che la diversità è un dono.

I miei occhi e il mio cuore.

Il mio altro quando.


Sempre presente. Mai dimenticato.

Ci sarà sempre un Altroquando.





mercoledì 9 agosto 2023

The Full Monty - La serie

 


Devo ammettere che ci credevo poco in questo The Full Monty – La serie, seguito realizzato per la visione domestica e disponibile sul catalogo Star di Disney Plus. Diciamolo. Il film cult del 1997 diretto da Peter Cattaneo non aveva realmente bisogno di un seguito. La storia dei sei disoccupati inglesi che per far fronte alla povertà si improvvisano spogliarellisti e “vanno fino in fondo” per offrire un valore aggiunto assente negli show professionali, si concludeva lì, nel momento in cui sul palcoscenico cadeva l'ultimo velo. Il teatro gremito, la folla divertita, il botteghino traboccante incassi che, almeno per un po', avrebbero permesso ai protagonisti di riprendere fiato.

Il senso di The Full Monty era questo. Non solo il resoconto di un'iniziativa grottesca ispirata dalla necessità economica, ma anche l'allegoria di un'umanità duttile, disposta a reinventarsi e a mettere in discussione se stessa al di là delle aspettative sociali. Sei uomini distanti dall'immaginario presentato dalle riviste patinate. Alcuni grassi, altri troppo magri, avanti negli anni, goffi o semplicemente negati per la danza. Il vero messaggio di The Full Monty erano la solidarietà tra poveri, la creatività e l'autoironia come strumento di sopravvivenza. Ricordo che alla sua uscita, la sinistra italiana non spese parole gentili per il film di Peter Cattaneo. Il segretario di Rifondazione Comunista Fausto Bertinotti lo bollò come farsa che metteva in burla i serissimi problemi dei lavoratori disoccupati, e sollecitò la sua base a preferirgli la visione di Brassed Off (Grazie, signora Thatcher) di Mark Herman, arrivato da noi quasi in contemporanea.


Lo spunto centrale dei due film era simile. L'ondata di licenziamenti in Inghilterra conseguente alla politica thatcheriana, lo spettro dell'indigenza per molte famiglie, la dignità negata e la crescente disperazione. In Grazie, signora Thatcher prevaleva senza troppi filtri l'elemento tragico. A nessuno dei membri dei minatori che suonavano nella banda locale saltava in mente di spogliarsi per far soldi. Qualcuno tentava pure di suicidarsi (succedeva anche in The Full Monty), e prevaleva una generale amarezza. Diciamo pure che il film di Mark Herman si presentava come un prodotto più “serio”, meno incline all'ironia, più cattivo nella sua opera di denuncia sociale.

Non che The Full Monty scherzasse su questo versante. Lo scenario di base non era mica da ridere. Niente lavoro, famiglie allo sbando, disoccupati in età che non trovano nuovi sbocchi... Persino l'organizzazione dello striptease maschile aveva qualcosa di disperato. Quello che forse sfuggiva al compagno Bertinotti era la rilevanza dell'umorismo britannico, spesso nerissimo, nell'affrontare i drammi quotidiani, e l'inno alla resistenza cantato dalle chiappe operaie al vento nel festoso finale.

Il film del 1997 rappresentava dunque una parabola conclusa in sé, per la quale nessun sequel sembrava avere ragione di esistere. La recente ondata di revival cinematografici e televisivi, con la sua mediocrità commerciale, non faceva sperare in niente di diverso. Davanti all'annunciato sequel di The Full Monty era stato facile pensare: Beh, sappiamo cosa vedremo. Ritroveremo i sei amici invecchiati, ancora una volta in una situazione di necessità. E per far fronte ai problemi dovranno replicare la loro esibizione di ventisei anni prima. E' un copione telefonatissimo.

Invece non è così.


Capiamoci. The Full Monty – La serie rimane un seguito non necessario. Quasi la totalità dei sequel prodotti non lo sono. Come rimane un'operazione di revival prescindibile. Ma la confezione è talmente accattivante e la sensazione di ritrovarsi con dei vecchi amici talmente simpatica, che la visione vale comunque il tempo speso. Se qualcuno si aspetta una replica, sia pure aggiornata, della trama del primo film, rimarrà deluso. No, stavolta non si organizza nessuno spogliarello. Nessuno va “fino in fondo” e neppure pensa di farlo. L'epica sequenza del film originale è celebrata da una divertentissima scena fan service, motivata da un contesto coerente ma del tutto imprevedibile.

Quello che rimane fedele allo spirito del primo The Full Monty è la denuncia di uno stato sociale carente, le cui storture sono sofferte dai più fragili, per i quali arginare le regole diventa l'unica opzione possibile. Un dramedy, come si chiamano oggi, in virtuoso equilibrio tra denuncia, dramma e humor nero, sullo sfondo di un momento di gloria passato in cui si è mostrato il culo nudo alla povertà, ridendole in faccia e facendola arretrare di qualche passo se non proprio sconfiggendola.


I sei protagonisti tornano tutti a calcare la scena con il supporto di qualche new entry ben caratterizzata. Robert Carlyle è sempre Gaz, e per il suo personaggio, folle e incontrollabile come allora, sembra quasi che il tempo non sia trascorso. Mark Addy, il corpulento Dave, ha una vita regolare come bidello in una scuola in cui sua moglie Jean, laureatasi nel frattempo, è diventata dirigente scolastico. Come allora rappresenta il cuore del gruppo, il suo aspetto più umano e insospettabilmente eroico. Gerald è in pensione e passa le sue giornate seduto al bistrò che Lomper gestisce con il marito mentre Guy, la sua fiamma di un tempo, si arrangia come può con una discutibile agenzia assicurativa. Il vecchio Barrington detto Cavallo, infine, ha ottenuto un sussidio di invalidità che fatalmente sta per scadere...

Il seguito di The Full Monty è simile a una rimpatriata dolceamara tra vecchi compagni di scuola in cui ci si conta le rughe e si confrontano i rispettivi traguardi e fallimenti. Non so se a Fausto Bertinotti piacerebbe più del prototipo. Sebbene nessuno si cali i pantaloni, l'ironia tutta british rimane lo scudo più forte con cui parare gli attacchi della sorte avversa. Eppure il senso di ingiustizia sociale è palpabile, crudo, e non si può non provare affetto per questi guerrieri del quotidiano affidati alle performance di attori e attrici da urlo.


Era necessario? Probabilmente no. E' piacevole? Assolutamente sì. Il messaggio è sempre lo stesso. Contro uno stato assente, spesso vessatorio, l'unico modo per difendersi è restare uniti. Resistere e tentare, forse solo per fallire. Ma come diceva Samuel Beckett, per avere la possibilità di andare avanti e fallire ancora. Fallire meglio. E restare umani.




martedì 8 agosto 2023

Quelle classi così speciali... anzi, differenziali...

 


Le parole della giornalista Concita De Gregorio, pubblicate sul quotidiano La Repubblica nell'articolo intitolato Il valore di un selfie hanno fatto il giro della rete scatenando una selva di (giuste) polemiche.

Il casus belli è stata la bravata di una comitiva di giovani turisti tedeschi a Villa Alceo, dimora storica di Viggiù. I ragazzi avrebbero realizzato un video in cui giocavano con la statua di una fontana ottocentesca, rimasta gravemente danneggiata. Fatto di per sé grave, che si aggiunge a un altro episodio recente. L'incisione dei nomi di altri giovani stranieri sulle pietre del Colosseo a Roma. Gesti da cui emergono inconsapevolezza, spregio del patrimonio pubblico e una sconfortante superficialità.

Poi... c'è il commento scritto dalla giornalista su Repubblica. Una sfuriata legittima, ma espressa in termini altrettanto costernanti. Non si tratta soltanto dell'uso di parole come “decerebrati” e il paragone dei protagonisti del gesto vandalico a persone con disturbi cognitivi. De Gregorio fa riferimento anche ai tempi delle cosiddette “classi differenziali”, orrenda istituzione scolastica risalente ai primi anni 70, affermando che sarebbero state il posto ideale per questi sciocchi influencer. Un posto in cui una maestra avrebbe detto loro «vieni, tesoro, sillabiamo insieme. Prima però pulisciti la bocca.»

La polemica riguarda l'atteggiamento abilista che pervade l'articolo, l'accostamento di un comportamento sciocco al quotidiano drammatico degli individui con deficit mentali, ma anche l'allusione a quella vecchia, fortunatamente superata, realtà scolastica in termini che suonano quasi nostalgici. Praticamente un recinto dove rinchiudere i cretini per trattarli con il paternalismo (e lo spregio) che gli sarebbe dovuto.

Concita De Gregorio ha provveduto a pubblicare delle scuse. Oddio, se vogliamo chiamarle così. Si premura, infatti, di lamentare subito il peso del “politicamente corretto” che appesta la sinistra italiana limitando anche la libertà di espressione di giornalisti come lei. Più che delle scuse, una conferma. Qualcosa che mi rammenta un episodio scolastico del quale fui testimone ai tempi del liceo quando, dopo una lite furiosa tra ragazzine, una delle due, costretta a scusarsi da un insegnante, si rivolse all'altra borbottando tra le lacrime: «Va bene, ti chiedo scusa. Ma confermo che sei una puttana!»

Peggio ancora. Mi ricorda proprio le classi differenziali. Perché io c'ero. Le ho viste, nella mia scuola elementare, e ne rammento il profondo orrore. All'epoca, tra gli operatori scolastici, erano chiamate “classi speciali”. La parola “speciale” diventava dunque un eufemismo dal significato terrificante. Un'etichetta che alludeva a una condizione triste, malata, diversa, e a uno spazio apposito in cui essere confinati con altri derelitti non conformi al consesso dei “normali”.

Le classi differenziali, ironia della lingua, erano in realtà delle vere e proprie riserve in cui bambini con problemi eterogenei erano stipati senza nessuna attenzione specifica alle loro necessità peculiari. Luoghi in cui erano ammassati senza criterio ragazzi down, bambini con disparate forme di deficit psichico, ma anche altri con deformità fisiche, spastici, gente con problemi motori e di fonazione, ma perfettamente sana dal punto di vista mentale. Insomma, quelle classi, più che “differenziali”, erano un indifferenziato recinto di soggetti identificati come freaks, dove bambini sfortunati, spesso provenienti da famiglie di estrazione proletaria, erano vigilati alla maniera di animaletti da tenere al guinzaglio finché la campana non annunciava la fine delle lezioni.

Le ho viste quelle classi, quando avevo otto anni, e ne rammento il clima da piccolo lager con la faccia da clown gioviale. Nei corridoi della scuola, visto che ero schivo e silenzioso, venivo spesso scambiato per uno dei tanti bambini “speciali” che eludevano la sorveglianza e vagavano per l'istituto. Ricordo la sufficienza del personale scolastico, la pietà mista a malcelata insofferenza.

E ricordo anche altro.

Ricordo Rodolfo (lo chiameremo così), bambino di scuola elementare, più grande di me di qualche anno, che frequentava la quinta mentre io ancora ero in terza. Rodolfo aveva evitato di finire rinchiuso nelle classi differenziali. Non saprei come. La logica di quella ignobile istituzione avrebbe dovuto collocare anche lui in quegli spazi, ma la misericordia del caso gli risparmiò questa pena accessoria. Sì, perché Rodolfo era affetto dalla sindrome di Tourette, un disturbo raro del sistema nervoso che rende la persona vittima di mille tic incontrollabili, movimenti inconsulti e strani, ti costringe a urlare senza filtri quello che ti passa per la testa e a ripetere (ecolalia) ad alta voce frasi e parole che ti è appena capitato di ascoltare.

Ovviamente, Rodolfo era tristemente noto a scuola. Se non altro, i suoi compagni di classe, che lo conoscevano meglio, lo trattavano in modo protettivo. Capitavano, però, certe circostanze. L'assenza di un insegnate malato, un vuoto che la scuola sotto organico non poteva sopperire impiegando un supplente. La prassi, allora, era quella di smistare gli alunni del maestro assente presso altre classi, anche di grado inferiore, in modo che trascorressero la giornata parcheggiati altrove.

Fu così che conobbi Rodolfo e la sua malattia, durante una di queste trasferte. Per via dell'assenza del loro maestro, questi ragazzi più grandi finirono a sedere nei nostri banchi. L'assenza del docente si protrasse per qualche giorno e avemmo così modo di conoscerci un po'. Le caratteristiche di Rodolfo suscitavano sconcerto, una punta di paura e tanta curiosità. Ai nostri occhi infantili il ragazzo sembrava posseduto da uno spirito maligno che si baloccava con il suo corpo come fosse una marionetta. Succedeva di sentirlo improvvisamente urlare versi incomprensibili o battere le mani e torcersi nel banco, fare eco alle parole del maestro nel bel mezzo della lezione. Rodolfo era un ragazzo intelligente, di sicuro più preparato di me. Ricordo che fu da lui che sentii per la prima volta l'espressione “radice quadrata”. Nella mia classe non le avremmo mai studiate e tuttora la matematica per me, presunto normodotato, ha parecchie zone d'ombra.

Non so cosa sia stato di Rodolfo, ma non fatico a credere che abbia portato avanti gli studi con profitto a dispetto del caos apparente suggerito dal suo disturbo. Il peggio era vederlo entrare nella nostra aula scortato dal bidello, rosso in viso, umiliato e quasi in lacrime, perché un insegnante non lo aveva voluto accogliere nella propria classe. Quel ragazzo problematico che sembrava indemoniato, urlava, si agitava e gli faceva il verso, non lo voleva proprio tra i piedi. Assolutamente no. Via, se ne vada al diavolo e lo subisca qualcun'altro! Il porco non aveva fatto nulla per nascondere la sua avversione, e le conseguenze emotive su Rodolfo erano state devastanti. Un gesto di un'insensibilità atroce, che in una scuola dovrebbe essere bandito, ma che all'epoca era la squallidissima norma.

Non andava molto meglio con il nostro maestro, quello che l'aveva accolto con apparente disponibilità. Vecchio stronzo ignorante, fascista e assenteista, che all'ennesimo grido irrefrenabile di Rodolfo commentò mestamente così, a voce alta, quasi fosse una nobile dichiarazione d'intenti:

«Dio oggi mi ha dato questa croce. Pazienza! L'altro maestro lo sopporta tutto l'anno. Io solo per un giorno. Che ci vogliamo fare? Ognuno ha la sua pena.»

Quell'uomo era una merda e un pessimo insegnante. Lo dico con il cuore in mano.

Ricordiamocelo ogni volta che siamo tentati di dire che stavamo meglio prima, quando potevamo fottercene della sensibilità altrui, dei diritti altrui, delle diversità e delle condizioni sociali che non ci riguardano direttamente. Quando potevamo sfogarci o addirittura divertirci senza doverci preoccupare di offendere nessuno e suscitare aspre critiche a causa di questo nuovo obbligo al rispetto, a detta di alcuni ipocrita e temporaneo... come una stupida moda.

Quest'inclusione, questa inutile attenzione al linguaggio, a parole che feriscono e a volte uccidono anche.

Ricordiamocelo, per favore.

sabato 5 agosto 2023

Addio a Giuseppe Montanari


Ci ha lasciati Giuseppe Montanari, disegnatore che in coppia con il collega Ernesto Grassani, ha firmato un gran numero di episodi di Dylan Dog tra la serie regolare e vari speciali.
Il suo era un tratto classico ma estremamente riconoscibile che insieme a tanti altri elementi ha contribuito a plasmare il mito dell'indagatore dell'incubo come oggi lo conosciamo.
Tra le storie più celebri ricordiamo Le notti della luna piena, Killer, La zona del crepuscolo, Ossessione, Scritto con il sangue, I segreti di Ramblyn.
Un pezzo di storia del fumetto che conserveremo gelosamente nella nostra memoria.

Grazie di tutto.