Le parole della giornalista Concita De Gregorio, pubblicate sul quotidiano La Repubblica nell'articolo intitolato Il valore di un selfie hanno fatto il giro della rete scatenando una selva di (giuste) polemiche.
Il casus belli è stata la bravata di una comitiva di giovani turisti tedeschi a Villa Alceo, dimora storica di Viggiù. I ragazzi avrebbero realizzato un video in cui giocavano con la statua di una fontana ottocentesca, rimasta gravemente danneggiata. Fatto di per sé grave, che si aggiunge a un altro episodio recente. L'incisione dei nomi di altri giovani stranieri sulle pietre del Colosseo a Roma. Gesti da cui emergono inconsapevolezza, spregio del patrimonio pubblico e una sconfortante superficialità.
Poi... c'è il commento scritto dalla giornalista su Repubblica. Una sfuriata legittima, ma espressa in termini altrettanto costernanti. Non si tratta soltanto dell'uso di parole come “decerebrati” e il paragone dei protagonisti del gesto vandalico a persone con disturbi cognitivi. De Gregorio fa riferimento anche ai tempi delle cosiddette “classi differenziali”, orrenda istituzione scolastica risalente ai primi anni 70, affermando che sarebbero state il posto ideale per questi sciocchi influencer. Un posto in cui una maestra avrebbe detto loro «vieni, tesoro, sillabiamo insieme. Prima però pulisciti la bocca.»
La polemica riguarda l'atteggiamento abilista che pervade l'articolo, l'accostamento di un comportamento sciocco al quotidiano drammatico degli individui con deficit mentali, ma anche l'allusione a quella vecchia, fortunatamente superata, realtà scolastica in termini che suonano quasi nostalgici. Praticamente un recinto dove rinchiudere i cretini per trattarli con il paternalismo (e lo spregio) che gli sarebbe dovuto.
Concita De Gregorio ha provveduto a pubblicare delle scuse. Oddio, se vogliamo chiamarle così. Si premura, infatti, di lamentare subito il peso del “politicamente corretto” che appesta la sinistra italiana limitando anche la libertà di espressione di giornalisti come lei. Più che delle scuse, una conferma. Qualcosa che mi rammenta un episodio scolastico del quale fui testimone ai tempi del liceo quando, dopo una lite furiosa tra ragazzine, una delle due, costretta a scusarsi da un insegnante, si rivolse all'altra borbottando tra le lacrime: «Va bene, ti chiedo scusa. Ma confermo che sei una puttana!»
Peggio ancora. Mi ricorda proprio le classi differenziali. Perché io c'ero. Le ho viste, nella mia scuola elementare, e ne rammento il profondo orrore. All'epoca, tra gli operatori scolastici, erano chiamate “classi speciali”. La parola “speciale” diventava dunque un eufemismo dal significato terrificante. Un'etichetta che alludeva a una condizione triste, malata, diversa, e a uno spazio apposito in cui essere confinati con altri derelitti non conformi al consesso dei “normali”.
Le classi differenziali, ironia della
lingua, erano in realtà delle vere e proprie riserve in cui bambini
con problemi eterogenei erano stipati senza nessuna attenzione
specifica alle loro necessità peculiari. Luoghi in cui erano
ammassati senza criterio ragazzi down, bambini con disparate forme di
deficit psichico, ma anche altri con deformità fisiche, spastici,
gente con problemi motori e di fonazione, ma perfettamente sana dal
punto di vista mentale. Insomma, quelle classi, più che
“differenziali”, erano un indifferenziato recinto di soggetti
identificati come freaks, dove bambini sfortunati, spesso
provenienti da famiglie di estrazione proletaria, erano vigilati alla
maniera di animaletti da tenere al guinzaglio finché la campana non
annunciava la fine delle lezioni.
Le ho viste quelle classi,
quando avevo otto anni, e ne rammento il clima da piccolo lager con
la faccia da clown gioviale. Nei corridoi della scuola, visto che ero
schivo e silenzioso, venivo spesso scambiato per uno dei tanti
bambini “speciali” che eludevano la sorveglianza e vagavano per
l'istituto. Ricordo la sufficienza del personale scolastico, la pietà
mista a malcelata insofferenza.
E ricordo anche altro.
Ricordo Rodolfo (lo chiameremo così), bambino di scuola elementare, più grande di me di qualche anno, che frequentava la quinta mentre io ancora ero in terza. Rodolfo aveva evitato di finire rinchiuso nelle classi differenziali. Non saprei come. La logica di quella ignobile istituzione avrebbe dovuto collocare anche lui in quegli spazi, ma la misericordia del caso gli risparmiò questa pena accessoria. Sì, perché Rodolfo era affetto dalla sindrome di Tourette, un disturbo raro del sistema nervoso che rende la persona vittima di mille tic incontrollabili, movimenti inconsulti e strani, ti costringe a urlare senza filtri quello che ti passa per la testa e a ripetere (ecolalia) ad alta voce frasi e parole che ti è appena capitato di ascoltare.
Ovviamente, Rodolfo era tristemente noto a scuola. Se non altro, i suoi compagni di classe, che lo conoscevano meglio, lo trattavano in modo protettivo. Capitavano, però, certe circostanze. L'assenza di un insegnate malato, un vuoto che la scuola sotto organico non poteva sopperire impiegando un supplente. La prassi, allora, era quella di smistare gli alunni del maestro assente presso altre classi, anche di grado inferiore, in modo che trascorressero la giornata parcheggiati altrove.
Fu così che conobbi Rodolfo e la sua malattia, durante una di queste trasferte. Per via dell'assenza del loro maestro, questi ragazzi più grandi finirono a sedere nei nostri banchi. L'assenza del docente si protrasse per qualche giorno e avemmo così modo di conoscerci un po'. Le caratteristiche di Rodolfo suscitavano sconcerto, una punta di paura e tanta curiosità. Ai nostri occhi infantili il ragazzo sembrava posseduto da uno spirito maligno che si baloccava con il suo corpo come fosse una marionetta. Succedeva di sentirlo improvvisamente urlare versi incomprensibili o battere le mani e torcersi nel banco, fare eco alle parole del maestro nel bel mezzo della lezione. Rodolfo era un ragazzo intelligente, di sicuro più preparato di me. Ricordo che fu da lui che sentii per la prima volta l'espressione “radice quadrata”. Nella mia classe non le avremmo mai studiate e tuttora la matematica per me, presunto normodotato, ha parecchie zone d'ombra.
Non so cosa sia stato di Rodolfo, ma non fatico a credere che abbia portato avanti gli studi con profitto a dispetto del caos apparente suggerito dal suo disturbo. Il peggio era vederlo entrare nella nostra aula scortato dal bidello, rosso in viso, umiliato e quasi in lacrime, perché un insegnante non lo aveva voluto accogliere nella propria classe. Quel ragazzo problematico che sembrava indemoniato, urlava, si agitava e gli faceva il verso, non lo voleva proprio tra i piedi. Assolutamente no. Via, se ne vada al diavolo e lo subisca qualcun'altro! Il porco non aveva fatto nulla per nascondere la sua avversione, e le conseguenze emotive su Rodolfo erano state devastanti. Un gesto di un'insensibilità atroce, che in una scuola dovrebbe essere bandito, ma che all'epoca era la squallidissima norma.
Non andava molto meglio con il nostro maestro, quello che l'aveva accolto con apparente disponibilità. Vecchio stronzo ignorante, fascista e assenteista, che all'ennesimo grido irrefrenabile di Rodolfo commentò mestamente così, a voce alta, quasi fosse una nobile dichiarazione d'intenti:
«Dio oggi mi ha dato questa croce. Pazienza! L'altro maestro lo sopporta tutto l'anno. Io solo per un giorno. Che ci vogliamo fare? Ognuno ha la sua pena.»
Quell'uomo era una merda e un pessimo insegnante. Lo dico con il cuore in mano.
Ricordiamocelo ogni volta che siamo tentati di dire che stavamo meglio prima, quando potevamo fottercene della sensibilità altrui, dei diritti altrui, delle diversità e delle condizioni sociali che non ci riguardano direttamente. Quando potevamo sfogarci o addirittura divertirci senza doverci preoccupare di offendere nessuno e suscitare aspre critiche a causa di questo nuovo obbligo al rispetto, a detta di alcuni ipocrita e temporaneo... come una stupida moda.
Quest'inclusione, questa inutile attenzione al linguaggio, a parole che feriscono e a volte uccidono
anche.
Ricordiamocelo, per favore.
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