Devo ammettere che ci credevo poco in questo The Full Monty – La serie, seguito realizzato per la visione domestica e disponibile sul catalogo Star di Disney Plus. Diciamolo. Il film cult del 1997 diretto da Peter Cattaneo non aveva realmente bisogno di un seguito. La storia dei sei disoccupati inglesi che per far fronte alla povertà si improvvisano spogliarellisti e “vanno fino in fondo” per offrire un valore aggiunto assente negli show professionali, si concludeva lì, nel momento in cui sul palcoscenico cadeva l'ultimo velo. Il teatro gremito, la folla divertita, il botteghino traboccante incassi che, almeno per un po', avrebbero permesso ai protagonisti di riprendere fiato.
Il senso di The Full Monty era questo. Non solo il resoconto di un'iniziativa grottesca ispirata dalla necessità economica, ma anche l'allegoria di un'umanità duttile, disposta a reinventarsi e a mettere in discussione se stessa al di là delle aspettative sociali. Sei uomini distanti dall'immaginario presentato dalle riviste patinate. Alcuni grassi, altri troppo magri, avanti negli anni, goffi o semplicemente negati per la danza. Il vero messaggio di The Full Monty erano la solidarietà tra poveri, la creatività e l'autoironia come strumento di sopravvivenza. Ricordo che alla sua uscita, la sinistra italiana non spese parole gentili per il film di Peter Cattaneo. Il segretario di Rifondazione Comunista Fausto Bertinotti lo bollò come farsa che metteva in burla i serissimi problemi dei lavoratori disoccupati, e sollecitò la sua base a preferirgli la visione di Brassed Off (Grazie, signora Thatcher) di Mark Herman, arrivato da noi quasi in contemporanea.
Non che The Full Monty scherzasse su questo versante. Lo scenario di base non era mica da ridere. Niente lavoro, famiglie allo sbando, disoccupati in età che non trovano nuovi sbocchi... Persino l'organizzazione dello striptease maschile aveva qualcosa di disperato. Quello che forse sfuggiva al compagno Bertinotti era la rilevanza dell'umorismo britannico, spesso nerissimo, nell'affrontare i drammi quotidiani, e l'inno alla resistenza cantato dalle chiappe operaie al vento nel festoso finale.
Il film del 1997 rappresentava dunque una parabola conclusa in sé, per la quale nessun sequel sembrava avere ragione di esistere. La recente ondata di revival cinematografici e televisivi, con la sua mediocrità commerciale, non faceva sperare in niente di diverso. Davanti all'annunciato sequel di The Full Monty era stato facile pensare: Beh, sappiamo cosa vedremo. Ritroveremo i sei amici invecchiati, ancora una volta in una situazione di necessità. E per far fronte ai problemi dovranno replicare la loro esibizione di ventisei anni prima. E' un copione telefonatissimo.
Invece non è così.
Quello che rimane fedele allo spirito del primo The Full Monty è la denuncia di uno stato sociale carente, le cui storture sono sofferte dai più fragili, per i quali arginare le regole diventa l'unica opzione possibile. Un dramedy, come si chiamano oggi, in virtuoso equilibrio tra denuncia, dramma e humor nero, sullo sfondo di un momento di gloria passato in cui si è mostrato il culo nudo alla povertà, ridendole in faccia e facendola arretrare di qualche passo se non proprio sconfiggendola.
Il seguito di The Full Monty è simile a una rimpatriata dolceamara tra vecchi compagni di scuola in cui ci si conta le rughe e si confrontano i rispettivi traguardi e fallimenti. Non so se a Fausto Bertinotti piacerebbe più del prototipo. Sebbene nessuno si cali i pantaloni, l'ironia tutta british rimane lo scudo più forte con cui parare gli attacchi della sorte avversa. Eppure il senso di ingiustizia sociale è palpabile, crudo, e non si può non provare affetto per questi guerrieri del quotidiano affidati alle performance di attori e attrici da urlo.
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