giovedì 9 giugno 2022

Ricominciamo?



E' un po' che non scrivevo su questo blog. Anzi, per dirla tutta, da qualche tempo lo avevo reso privato. Non saprei spiegare il perché? Forse a causa di una sovraesposizione ai social (mai salutare) che mi ha fatto dubitare della necessità di questo (ulteriore) strumento. Che cavolo, sono già sul grande tubo, su Faccialibro, Instagram e ho persino un Twitter che non si fila nessuno (anche perché oggettivamente poco interessante). La pandemia ci ha messo del suo. Tante iniziative si sono arenate. Inoltre scrivo meno. E anche questo è un male. 

C'è anche il fatto che, negli ultimi tempi, avevo riempito questo spazio con le mie riflessioni sul cinema. Cosa che già in tanti fanno molto, infinitamente meglio di me, per competenza, frequenza e argomenti. Insomma, mi sono sentito... di troppo. E questo mi ha portato a fermarmi.

Poi c'è stata la stesura del libro. La mia "Storia dei Cinecomics" era nata come conferenza a una fiera del fumetto cui ero stato invitato (una delle rare volte), e sull'onda dell'entusiasmo si era trasformata in video e quindi in una rubrica regolare. Il gradimento del tema (per quanto anche questo abusato) mi ha spinto a ricavarne un libro, che ora ha trovato un editore ed è attualmente in fase di revisione. Anche in questo caso parliamo di un tema inflazionato, ma spero di essere riuscito a farlo in modo personale, mischiando le carte, parlando di tanta storia del fumetto intrecciata con la cronaca dei suoi adattamenti cinematografici (e televisivi), divagando in argomenti esterni, e persino in ricordi personali. Ci provo, e che Crom me la mandi buona (se no, può sempre andare alla malora). 

Il concetto è il seguente. Sto sentendo il bisogno di riprendere la penna in mano e trovare un pretesto per scrivere. Non soltanto copioni per i video, ma qualcosa di diverso. Non so bene cosa. Un blog è un blog, cacchio. Non giriamoci ancora intorno. Scriverò quello che mi passa per la testa, magari continuando a sproloquiare di fumetti, di cinema e altre stronzatine. 

Un fottuto reboot? Non so, si vedrà.

Abbandonare questo spazio iniziava a sembrarmi un peccato. Il blog era nato, tanti anni fa, come supporto alla fumetteria. Scorrendo all'indietro, troviamo persino le segnalazioni delle uscite della settimana. Poi, scomparso il buon Salvatore e chiusa l'attività (sono passati quasi dieci anni, cazzo!), me ne sono andato per la tangente, approdando su Youtube e cercando di reinventare me stesso e le cose che mi avevano tenuto in piedi fino a quel momento.

Beh, sono ancora qui. Non so per quanto, ma ci sono. Non posso garantire continuità. Né sono sicuro che scrivere qui e non su una pagina social qualunque faccia una qualche differenza. Chissà, il blog mi dà una sensazione di maggiore intimità. Come se (e sottolineo se) essere letti in questo spazio presupponesse qualcosa di diverso dallo strillare in una piazza affollata dove tutti girano in mutande e canottiera. Che ne so, forse un granello di attenzione in più.

In ogni caso, sono qui per riprovarci. Nel frattempo, se siete nuovi in queste lande, c'è un cospicuo archivio di roba vecchia. Di nuovo disponibile dopo un periodo di oscuramento. Magari, spulciando, trovate qualcosa di vostro gusto. 

Alla prossima.

martedì 19 aprile 2022

Le Fate Ignoranti: la Serie


Vista la prima puntata de "Le Fate Ignoranti", espansione in forma seriale del film di Ferzan Özpetek del 2001, curata dallo stesso regista dell'originale e ora disponibile nella sua prima stagione come Star Original sulla piattaforma Disney +. A distanza di vent'anni, Özpetek rinarra la sua storia e il suo personale elogio della famiglia intesa come realtà allargata. Un episodio non basta per valutare la qualità dell'insieme, ma a lasciarmi perplesso è l'incipit. Se è evidente l'intenzione di arricchire il tutto con ulteriori sottotrame (del resto, in questo caso, stiamo parlando di una serie), a scricchiolare è la scelta delle premesse di questa nuova forma di narrazione.


Tutto è fedele al prototipo cinematografico, ma a cambiare è il punto di vista dei personaggi. Per cominciare, avrei fatto volentieri a meno di un io narrante non necessario (che per di più ti anticipa snodi importanti della trama), e non posso fare a meno di pensare che sarebbe stato meglio collocare più avanti la descrizione dell'incontro tra Massimo e Michele, magari in opportuni flashback che seguissero una cronologia interpolata. La shockante scoperta di Antonia, che apprende della vita segreta del marito dopo la sua morte, e i singoli dettagli svelati poco per volta nel film del 2001, qui sono presentati allo spettatore immediatamente nella loro interezza. Pertanto, nelle puntate successive, seguiremo le rivelazioni di Antonia da spettatori avvertiti, cosa che impoverisce l'immedesimazione con la protagonista e il suo progressivo immergersi in una realtà per lei completamente nuova. Viene, insomma, meno il crescendo drammatico del racconto originale, in cui il punto di vista di Antonia e del pubblico era lo stesso. Uno sfrondamento di twist narrativi sacrificati alla rappresentazione di retroscena pensati per arricchire le caratterizzazioni, ma che posti all'inizio del racconto ne smorzano il crescendo.

La confezione generale sembra simpatica, e continuerò a guardarlo per vedere come evolve. Ma il nuovo incipit, a mio parere, è molto discutibile. E' un remake esteso, ok. Ma il sacrificio di determinati sviluppi per me è un errore. Come quando sentiamo dire che la trilogia prequel di Star Wars andrebbe vista per prima. Cosa sbagliatissima, in quanto ucciderebbe ogni colpo di scena di quella classica rendendola di fatto piatta (un Darth Vader di cui conosci già vita morte e miracoli, non ha lo stesso impatto).
Per il resto, sono possibilista, e darò una chance alle puntate successive.

mercoledì 2 marzo 2022

West Side Story: una sorpresa

 


Finalmente sono riuscito a vedere "West Side Story" di Steven Spielberg. Me l'ero perso al cinema per i soliti motivi (non posso andarci troppo spesso, e l'hanno tenuto pochissimo). Dopo averlo recuperato devo fare una riflessione che suona anche un po' come una confessione. Mi sono reso conto che ero discretamente prevenuto. Anche curioso, per carità. Spielberg che si misurava con un classico, musical storico di Leonard Bernstein e film mitico (premiato con un doppio oscar a film e regia) diretto da Robert Wise nel 1961.

Però c'era una recalcitranza di base, che magari non ammettevo con me stesso, e che oggi, dopo aver visto il film del 2021, mi interessa provare a spiegarmi.


Sì, perché "West Side Story" di Steven Spielberg, per come la vedo io, realizza un piccolo miracolo cinematografico, e riesce ad attualizzare quello che ritenevo impossibile traghettare nel nuovo secolo. Ho iniziato a vederlo, come dicevo, per curiosità, e con una certa prevenzione, ma sin dai primi minuti lo spettacolo mi ha completamente conquistato. I numeri musicali sono spettacolari, le canzoni di Bernstein sono quelle, ma rese al meglio, giacché calate in un contesto che funziona perfettamente. Insomma, l'effetto "puro omaggio" o "remake" non esiste. "West Side Story" del 2021 ha un'identità propria. Vive della regia, delle caratterizzazioni e delle coreografie (originali). In parole povere, è un gran bel film.
Perché allora il mio pregiudizio?
Devo ammettere che è stato spazzato via talmente in fretta che faccio fatica a ricordarlo. Io ho sempre avuto simpatia per il musical, pertanto non si trattava di questo. Forse una certa reverenza nel confronto del film di Wise del 61, e certe convinzioni che accompagnano la nostra percezione dei classici. Per capirci, poteva essere facile pensare che senza Natalie Wood non c'era storia, ma anche che la tragedia di "Romeo e Giulietta", più volte adattata in abiti moderni dopo i fasti musicali aveva ormai dato, e che non c'era nessuna necessità di rifare proprio "West Side Story".



E in effetti... necessità non ce n'era. Non ce n'è. Ma considerato i risultati non ce n'è neppure bisogno.
La verità è che probabilmente ho sottovalutato la capacità di Spielberg di aggiornare il materiale, così come i personaggi e lo scenario. Chissà se per molti spettatori che hanno ignorato il film decretandone il flop in sala, il ragionamento sia stato simile. Neppure un vero ragionamento, in fondo. Solo una pulsione. E una frase. "West Side Story" è un bel musical, ma anche datato. Quindi, soprassediamo.
E invece no.
Probabilmente gli haters del politicamente corretto troveranno pane per i loro denti. Spielberg infonde molta modernità alla classica storia di matrice shakespereana, modificando qualche carattere, introducendo il tema della sessualità transgender, e suggerendo che nel rifiuto da parte delle nuove generazioni si annida solo ignoranza e paura di ciò che è nuovo (il fantasma attualissimo dell'immigrazione). Ma anche al di là di questi elementi, di per sé già interessanti, la confezione risplende ed è veramente magnifica.
"West Side Story" acquista una sua nuova valenza epica (non solo romantica) e ci propone un film drammatico e musicale che va oltre il genere. Si fa film d'autore, forse tra le cose migliori firmate dal regista americano negli ultimi anni, e smentisce con eleganza ogni pregiudizio. Il mio per primo.
Speriamo che la candidatura agli oscar permetta al film di riguadagnare qualche giorno di programmazione in sala, perché vederlo sul grande schermo sarebbe l'esperienza migliore.

domenica 20 febbraio 2022

The Amusement Park: il film perduto di George Romero


“The Amusement Park” è un film considerato a lungo perduto, diretto da George Romero nel 1975, tra “The Night of the Living Dead” e “Dawn of the Dead” del 1978. In mezzo, Romero aveva realizzato “Season of the Witch” e “The Crazies”, entrambi film che avevano avuto un incasso molto prossimo allo zero, lasciando il regista in condizioni economiche difficili.

Fu così che una società luterana lo contattò per commissionargli un mediometraggio, una sorta di lungo spot di quelli che oggi potremmo definire “pubblicità progresso” sulla condizione degli anziani, che potesse sensibilizzare il pubblico su un argomento tanto delicato e possibilmente incoraggiare i giovani a prestare volontariato presso adeguate strutture. Romero si rimboccò le maniche e girò “The Amusement Park”. Mezzi poverissimi, attori per lo più non professionisti, molti dei quali veri anziani presi da case di riposo, e tutto il suo ingegno cinematografico.

Pare che i committenti, dopo avere visionato il lavoro di Romero, abbiano deciso di abbandonare il progetto, giudicandolo troppo sconvolgente, e destinando – di fatto – il film al dimenticatoio. Nessuna distribuzione e totale silenzio per decenni, al punto che lo stesso Romero non ne parlava più. Solo nel 2017, una bobina di “The Amusement Park” fu rinvenuta in un vecchio deposito e restaurato. Introdotto nel 2021 nel catalogo di Shudder, piattaforma streaming americana gestita dal network AMC interamente dedicata al genere horror e in seguito importato anche da noi dalla Midnight Factory, incluso nella "Romero Film Collection" insieme ad altri tre titoli del regista.  

Oltre a rappresentare una prova affascinante dell'estro di un grande regista scomparso, “The Amusement Park” è un film invecchiato benissimo, che oggi – forse anche più di ieri - fa bella mostra di un linguaggio metaforico spietato riuscendo persino ad andare oltre i temi che gli erano stati commissionati. Dicevamo che il film, relativamente breve (un'ora scarsa), avrebbe dovuto essere un elaborato spot sociale. Beh, scordatevi quadretti tristi e smielati risolti da improvvisi slanci di solidarietà. “The Amusement Park” pur non essendo canonicamente un horror, è un vero pugno nello stomaco, e non è neppure del tutto incomprensibile perché la società che aveva richiesto a Romero di realizzarlo avesse fatto un inorridito salto indietro davanti all'incubo visto durante la proiezione di prova. Bisogna davvero avere uno stomaco di ferro e la sensibilità di un palo elettrico per restare indifferenti di fronte a “The Amusement Park”. Un lavoro svolto per ragioni alimentari, ma in cui l'estro di George Romero è tangibile, e in cui è possibile scoprire i semi di opere che arriveranno dopo.

Una larga parte del film è affidato alla mimica dell'attore Lincoln Maazel, il padre del direttore d'orchestra Lorin Maazel, diretto da Romero anche in “Martin” del 1977. Una struttura straniante che potrebbe far pensare a un episodio di “The Twilight Zone”. Non tanto per il prologo, qui affidato allo stesso attore protagonista che illustra i temi del film e i suoi presupposti sociali, quanto per la chiave narrativa scelta dal regista, che apre il racconto con una scena onirica e terribile che nel giro di pochi secondi afferra il cuore dello spettatore e lo rompe in quattro pezzi. Una stanza candida, un anziano vestito a sua volta di bianco siede ferito, pesto e ansimante. Un altro uomo anziano entra nella stanza aprendo una porta altrettanto bianca. Veste di bianco anche lui. Anzi, è evidentemente un doppio dell'uomo esausto e ferito che abbiamo visto prima, ma si presenta più energico e con un tono dell'umore decisamente alto.


«Ciao. Non vuoi uscire?»

«Non c'è niente fuori.»

«Lo scoprirò da solo se permetti.»

«Non ti piacerà.»

Questo inizio racchiude in sé tutto l'orrore che seguirà. Meno di sessanta minuti di un viaggio surreale e crudele. Un mondo visto come un luna park festoso e affollato, pieno di voglia di vivere e abbondanza, ma che si rivela un labirinto da incubo per un soggetto fragile, che nessuno rispetta, nessuno ascolta, nessuno guarda se non per nuocergli in qualche modo. Un crescendo di solitudine e malessere. Sequenze che riproducono le dinamiche del cinema muto nelle sue forme più inquietanti, e una chiusura dolorosissima, su un'immagine che lancia un grido silenzioso che suggerisce decadenza, ma soprattutto lo spreco di risorse preziose.

La forza terrificante di “The Amusement Park” è la capacità di dimostrare con poche scene espressive quanto possa essere vuota l'esistenza per un soggetto considerato dalla comunità “scaduto” o “difettoso”. Il mondo esterno, nella sua totalità, diventa una trappola in cui il più fragile è retrocesso all'ultimo posto nella catena alimentare di un sistema consumistico che si rivolge esclusivamente ai giovani, ai fisicamente forti, ai sicuri di sé, e agli abbienti. Non a caso, Lincoln Maazel, in qualità di narratore all'inizio del film, sottolinea che tutti diventeremo vecchi, ma che è anche la condizione sociale a pesare sulla bilancia del nostro futuro. La reputazione e la condizione economica possono rappresentare una rete di sicurezza. Ma se queste mancano, si precipita inesorabilmente all'inferno.


Anche in questo sta l'attualità e l'universalità di “The Amusement Park”. Parla soprattutto di vecchiaia, d'accordo, qualcosa che prima o poi ci riguarderà inesorabilmente tutti. Ma la forza del suo simbolismo resiste al tempo valendo anche per quanti, per svariate ragioni, sociali, mediche, ambientali, non hanno mai potuto essere veramente giovani, e convivono da sempre con la consapevolezza di essere considerati roba di poco conto. Vulnerabili, alla mercé di una società senza scrupoli.

In un mondo dove frasi formula come “Ok, boomer” hanno un successo planetario, in cui alcuni social media sono considerati regno esclusivo dei più giovani, in cui influencer si ritirano dalle scene a trent'anni, al culmine come Greta Garbo, lanciando il messaggio che andare oltre è disdicevole se non ridicolo, dove le lotte per la parità dei diritti inciampano ottusamente contro l'ageismo (termine anglofono bruttissimo, ma non ne è ancora stato coniato un altro per indicare la discriminazione in base all'età), c'è ancora posto per un film come “The Amusement Park”. Un titolo che va affrontato con la consapevolezza che non sarà uno spettacolo divertente. In definitiva, ben più di un semplice spot di pubblicità progresso. Un segnale, una richiesta d'aiuto, da un passato che è non invecchia, giacché è sempre con noi, e l'estrema, riscoperta, prova di stile di un grande regista.





mercoledì 12 gennaio 2022

Di fumetti e di parole: la questione Piero Dorfles

 


I miei due centesimi sulla questione Piero Dorfles e i fumetti.

Solitamente, evito di entrare in polemiche del genere, spesso affidate a slogan da stadio che finiscono con il fare apparire sterili e stereotipate entrambe le sponde della discussione.

Preferirei andare al nocciolo del problema. O se vogliamo, indicare l'elefante nella stanza. La domanda cui Dorfles è stato chiamato a rispondere nella trasmissione “Le Parole” era non solo mal posta, ma inutilmente provocatoria. Una di quelle domande che, insomma, suggerisce già la risposta, e più che interrogare esprimono un'affermazione in cerca di conferme.


Che cosa significa: “Se ho letto tot fumetti... posso dire di aver letto tot libri?”

Sicuramente, Piero Dorfless (che non ho motivo di difendere) non ha avuto la prontezza di rispondere a tono. Possibilmente perché non preparato a muoversi sul campo minato su cui veniva invitato ad avventurarsi. Cosa che lo ha spinto a rispondere con la formula più ingenua (che l'interlocutore gli aveva già servito su un piatto d'argento). La sua risposta, però, più che sbagliata, risente dell'assurdità della domanda, e si presenta come il coronamento di un dialogo tra sordi. Un contesto, diciamocelo, tremendamente superficiale.


Nella conversazione c'è un difetto di base. La parola “libro” è usata come un termine generico e sacrale. “Libro” inteso come oggetto nobile. Archetipo divinizzato di cultura, intelligenza, arte. Qualcosa di “intoccabile”, “incriticabile” per fede.

Quante volte, noi che ci occupiamo di fumetti, ci siamo sbracciati per differenziare quello che è un linguaggio complesso e tuttora in fase di sviluppo? Un mare magno di prodotti dove possiamo trovare sia opere estremamente semplici e commerciali che esperimenti di livello altissimo, a volte anche di difficile catalogazione.

Beh, la verità è che non è troppo diverso se parliamo di “libri”, e li osserviamo al di là della parola sacra, assurta a dogma culturale, che spesso induce in errore e fa deragliare conversazioni come quella ascoltata nel salotto televisivo di Massimo Gramellini.


Immaginiamo se la domanda fosse stata posta in un modo diverso. Per esempio, così: “Se leggo un paio di romanzi della collana Harmony, la famosa trilogia con i colori nel titolo dove la tipa s'innamora di un pazzoide che la riempie di lividi, una manciata di romanzetti che fanno correre gli adolescenti a tappezzare Roma di lucchetti, magari l'ultimo volume di memorie di quella certa star della TV... posso dire di aver letto altrettanti libri?”

Se il dialogo si svolgesse in termini adulti, la risposta più onesta sarebbe comunque... sì. Perché il “libro” è un oggetto che contiene parole, pensieri, storie, idee, che possono appartenere a mondi molto diversi tra loro, e soprattutto dimostrare qualità diverse. Possono nutrire, intossicare, intrattenere, fare crescere, disturbare, aprire mondi, non lasciare nulla, e avere la stessa funzione di una bibita gassata in una giornata calda.


Esattamente come può capitare ai fumetti. Intendiamoci.


“Libro” come contenitore. Scrigno di gioielli dal valore inestimabile o scatola di scarpe, utili, ma destinate a consumarsi. Involto di carta per avvolgere il pesce da consumare entro poche ore... e altro ancora.


Sono libri. Libri buoni. Libri brutti. Libri utili. Libri inutili. Libri commerciali. Libri che accendono le anime. Arte e non arte, sebbene quest'ultima contrapposizione potrebbe aprire un'altra riflessione interminabile.

La stessa cosa la possiamo riscontrare nella musica, nelle arti figurative, nel cinema. Quel cinema che continua a chiamarsi cinema, anche quando è debole, moscio, o fatto solo di soldi e gente che sgambetta.

Film che possiamo criticare, magari dicendo che “non sono veri film”, come quando per insultare qualcuno e stigmatizzare una condotta riprovevole si dice che “non è un uomo”. Eppure, anche davanti al peggiore dei peccati, non potremmo negare che si tratta pur sempre di una creatura antropomorfa, ascrivibile al genere umano, che respira, mangia, beve e va di corpo. Se non altro, per linee generali. Parliamo sempre di codici, fatti per comunicare, che in quanto tali possono essere portatori di cose belle, bellissime, brutte, pessime, anonime, inutili.


Siamo anche abituati a dire che il fumetto è un linguaggio ancora relativamente giovane. Il cinema, ricordiamo, ha praticamente la stessa età del fumetto. La nona arte muoveva i primi passi in parallelo con la settima tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo. Quel che c'è di diverso, l'elemento discriminante, è che il cinema, anche nella sua versione più leggera, non è mai stato considerato un linguaggio indirizzato all'infanzia. Non ha mai avuto, insomma, quel marchio paternalistico di “roba per bambini” che ha accompagnato la nascita del fumetto e ancora oggi (nonostante le tante evoluzioni) pesa su questo linguaggio alimentando il pregiudizio dei più distratti.


Quel che voglio dire, è che nella domanda, e di conseguenza nella risposta di Piero Dorfles, vedo soltanto una grande superficialità. Un approccio al dialogo che prima ancora di parlare di fumetti si è dimostrato insulso parlando innanzitutto di libri.

La vera risposta, più sensata, avrebbe potuto essere: “Quali libri hai letto? Non è roba che va a peso.”


La stessa cosa vale per i nostri amati fumetti.


Quello che dobbiamo imparare a pretendere (penso), prima del rispetto dovuto agli argomenti cui teniamo, è un modo onesto di conversare, e il giusto peso dato alle parole. Non può esserci comunicazione, altrimenti.

In una trasmissione intitolata “Le Parole” questo andrebbe tenuto presente.

Non solo parlando di fumetti. Su tutto. Per onestà intellettuale.





giovedì 28 ottobre 2021

DDL ZAN: Basta parlare di morte...

 Ora anche basta.

Parole come "Morte". "Addio". " "Requiescant". Non sono di nessun aiuto. Capisco il momento di sconforto. Il disgusto e la depressione. Ma parole come queste sottintendono una resa. No. Non mi sta bene. L'incazzatura ci sta tutta, ma è il momento di rimboccarsi le maniche e ricominciare. Da tre o da zero non importa. Neppure attendere i sei mesi formali previsti dal parlamento. Quello che alcuni non hanno compreso, è che ieri al Senato non si è votato per approvare la legge, ma per il suo rinvio. Cosa sicuramente grave, ma che non rappresenta un finale definitivo. Un finale che non può, non deve esserci, finché esistono in Italia persone che vogliono fortemente una legge contro l'omotransfobia, il sessismo e l'abilismo (quale il ddl Zan sarebbe stata a dispetto del pensiero dei dinosauri). Ieri, in Senato, la destra italiana ha soltanto dimostrato la sua vera natura, e il suo irrinunciabile dna fascista, oltre a un totale scollamento dalla realtà del paese. E' brutto. E' triste. Ma per favore, basta con i simboli da funerale.
E' il momento di riunirsi. Di manifestare. Di fare rumore e progettare nuove strategie politiche. A Palermo, il Pride (slittato per le restrizioni) avrà luogo tra un paio di giorni. Dovrebbe essere solo la prima delle occasioni affinché quella che spesso è vissuta come una festa, diventi un momento di lotta e di pertinace protesta. Parlo anche a chi ci rappresenta in parlamento. Non voglio pianti e vesti lacerate. Voglio programmi. Voglio che non sia data tregua a questo sistema ormai fradicio, che la società e le nuove generazioni stanno lasciando indietro. Voglio che non sia una fine. Voglio che sia un nuovo inizio.
Voglio che quelle risa e quegli applausi siano ricacciati in gola a chi li ha prodotti. Con i voti. Con i comportamenti. Con le legittime richieste. Con un'azione politica mirata. Basta parlare di morte, per favore. Voglio che assieme a Papillon, sulla sua zattera, noi tutti e tutte si possa gridare: «Sono ancora vivo, maledetti bastardi! Sono ancora vivo!» #ddlZan

giovedì 16 settembre 2021

DUNE di Denis Villeneuve: impressioni a caldo



 Dune. Detto così com'è scritto D-U-N-E.

Allora, per cominciare, la domanda di rito. E cioè: ti è piaciuto?
In verità sì.
Magari non mi ha entusiasmato particolarmente (ma io sono un pezzo di ghiaccio, quindi questo non conta), con qualche piccola riserva. Nel complesso, però, l'ho apprezzato. E devo anche dire che ero discretamente prevenuto.
Prevenuto per via della monumentalità del testo che prova a trasporre (e che amo). Prevenuto perché la lettura di alcune recensioni di chi l'aveva visto in anteprima avevano iniziato a confermare i miei timori. Cioè di trovarmi davanti a un prodotto ben confezionato, ma pretenzioso e sterile.
Dopo averlo visto non penso sia così. "Dune" di Denis Villeneuve è sicuramente un film ambizioso. Così come è anche un film imperfetto, che punta in alto e non centra tutti i bersagli che si propone. E' un film d'autore, e preso nel modo giusto anche un bel film d'avventura. Inoltre, sono sicuro che sarà un film che dividerà il pubblico.
Non ho riscontrato le lentezze estreme e opprimenti rilevati da altri. Ho seguito il film in modo abbastanza agevole. Forse perché mi annoiano altre cose. Magari prodotti che pretendono di essere fin troppo leggeri e spumeggianti, e mi soffocano proprio per questo.
C'è da dire, comunque, che parlo da fan. Appassionato della saga letteraria, che conosce i personaggi, gli snodi della trama ed è pronto a colmare i buchi e i dettagli appena accennati. Non saprei dire come sarà accolto il film da chi dell'opera di Frank Herbert non sa nulla. Sarà interessante scoprirlo.
Per concludere, dopo essere uscito dalla sala, l'idea di spezzare i primo romanzo (il migliore della saga, anche perché fruibile a se stante) in più capitoli non mi sembra più una cosa tanto barbara. In fondo è stato fatto più volte con altre opere. Quello che conta è la resa. Quindi perché non Dune?
A questo punto, spero solo che Villeneuve abbia la possibilità di completare l'arazzo narrativo. L'ipotesi contraria sarebbe un vero peccato.