I miei due centesimi sulla questione
Piero Dorfles e i fumetti.
Solitamente, evito di entrare in polemiche del genere, spesso affidate a slogan da stadio che finiscono con il fare apparire sterili e stereotipate entrambe le sponde della discussione.
Preferirei andare al nocciolo del problema. O se vogliamo, indicare l'elefante nella stanza. La domanda cui Dorfles è stato chiamato a rispondere nella trasmissione “Le Parole” era non solo mal posta, ma inutilmente provocatoria. Una di quelle domande che, insomma, suggerisce già la risposta, e più che interrogare esprimono un'affermazione in cerca di conferme.
Che cosa significa: “Se ho letto tot fumetti... posso dire di aver letto tot libri?”
Sicuramente, Piero Dorfless (che non ho motivo di difendere) non ha avuto la prontezza di rispondere a tono. Possibilmente perché non preparato a muoversi sul campo minato su cui veniva invitato ad avventurarsi. Cosa che lo ha spinto a rispondere con la formula più ingenua (che l'interlocutore gli aveva già servito su un piatto d'argento). La sua risposta, però, più che sbagliata, risente dell'assurdità della domanda, e si presenta come il coronamento di un dialogo tra sordi. Un contesto, diciamocelo, tremendamente superficiale.
Nella conversazione
c'è un difetto di base. La parola “libro” è usata come un
termine generico e sacrale. “Libro” inteso come oggetto nobile.
Archetipo divinizzato di cultura, intelligenza, arte. Qualcosa di
“intoccabile”, “incriticabile” per fede.
Quante volte, noi che ci occupiamo di fumetti, ci siamo sbracciati per differenziare quello che è un linguaggio complesso e tuttora in fase di sviluppo? Un mare magno di prodotti dove possiamo trovare sia opere estremamente semplici e commerciali che esperimenti di livello altissimo, a volte anche di difficile catalogazione.
Beh, la verità è che non è troppo diverso se parliamo di “libri”, e li osserviamo al di là della parola sacra, assurta a dogma culturale, che spesso induce in errore e fa deragliare conversazioni come quella ascoltata nel salotto televisivo di Massimo Gramellini.
Immaginiamo se la domanda fosse stata
posta in un modo diverso. Per esempio, così: “Se leggo un paio di
romanzi della collana Harmony, la famosa trilogia con i colori nel
titolo dove la tipa s'innamora di un pazzoide che la riempie di
lividi, una manciata di romanzetti che fanno correre gli adolescenti
a tappezzare Roma di lucchetti, magari l'ultimo volume di memorie di
quella certa star della TV... posso dire di aver letto altrettanti
libri?”
Se il dialogo si svolgesse in termini adulti, la
risposta più onesta sarebbe comunque... sì. Perché il “libro”
è un oggetto che contiene parole, pensieri, storie, idee, che
possono appartenere a mondi molto diversi tra loro, e soprattutto
dimostrare qualità diverse. Possono nutrire, intossicare,
intrattenere, fare crescere, disturbare, aprire mondi, non lasciare
nulla, e avere la stessa funzione di una bibita gassata in una
giornata calda.
Esattamente come può capitare ai fumetti. Intendiamoci.
“Libro” come contenitore. Scrigno di gioielli dal valore inestimabile o scatola di scarpe, utili, ma destinate a consumarsi. Involto di carta per avvolgere il pesce da consumare entro poche ore... e altro ancora.
Sono libri. Libri buoni. Libri brutti. Libri utili. Libri inutili. Libri commerciali. Libri che accendono le anime. Arte e non arte, sebbene quest'ultima contrapposizione potrebbe aprire un'altra riflessione interminabile.
La stessa cosa la possiamo riscontrare nella musica, nelle arti figurative, nel cinema. Quel cinema che continua a chiamarsi cinema, anche quando è debole, moscio, o fatto solo di soldi e gente che sgambetta.
Film che possiamo criticare, magari dicendo che “non sono veri film”, come quando per insultare qualcuno e stigmatizzare una condotta riprovevole si dice che “non è un uomo”. Eppure, anche davanti al peggiore dei peccati, non potremmo negare che si tratta pur sempre di una creatura antropomorfa, ascrivibile al genere umano, che respira, mangia, beve e va di corpo. Se non altro, per linee generali. Parliamo sempre di codici, fatti per comunicare, che in quanto tali possono essere portatori di cose belle, bellissime, brutte, pessime, anonime, inutili.
Siamo anche abituati a dire che il fumetto è un linguaggio ancora relativamente giovane. Il cinema, ricordiamo, ha praticamente la stessa età del fumetto. La nona arte muoveva i primi passi in parallelo con la settima tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo. Quel che c'è di diverso, l'elemento discriminante, è che il cinema, anche nella sua versione più leggera, non è mai stato considerato un linguaggio indirizzato all'infanzia. Non ha mai avuto, insomma, quel marchio paternalistico di “roba per bambini” che ha accompagnato la nascita del fumetto e ancora oggi (nonostante le tante evoluzioni) pesa su questo linguaggio alimentando il pregiudizio dei più distratti.
Quel che voglio dire, è che nella domanda, e di conseguenza nella risposta di Piero Dorfles, vedo soltanto una grande superficialità. Un approccio al dialogo che prima ancora di parlare di fumetti si è dimostrato insulso parlando innanzitutto di libri.
La vera risposta, più sensata, avrebbe potuto essere: “Quali libri hai letto? Non è roba che va a peso.”
La stessa cosa vale per i nostri amati fumetti.
Quello che dobbiamo imparare a pretendere (penso), prima del rispetto dovuto agli argomenti cui teniamo, è un modo onesto di conversare, e il giusto peso dato alle parole. Non può esserci comunicazione, altrimenti.
In una trasmissione intitolata “Le Parole” questo andrebbe tenuto presente.
Non solo parlando di fumetti. Su tutto. Per onestà intellettuale.
Nessun commento:
Posta un commento