«Hanno ammazzato Santa Rosalia!
Santa Rosalia è viva!»
Altro che «Viva Palermo e...»
C'è l'imbarazzo della scelta. La frase
a effetto per aprire questo ennesimo commento alla vetrina inaugurata
ieri da Vincenzo Vizzari, mastro terracottaio della bottega
Cittacotte in via Vittorio Emanuele, come ogni anno alla
vigilia del Festino, potrebbe essere anche «Santa Rosalia è
morta! Viva Santa Rosalia!»
Eppure, citare la popolare canzone di
Francesco De Gregori (Pablo) ci sembra più pertinente. Dopo
tre anni di letture artistiche sempre più iconoclaste e dense di
significati metaforici, mastro Vizzari ha chiuso un cerchio. La sua
Santuzza era sempre stata un'icona da rivisitare, non per gratuita
irriverenza, ma per contrasto critico a un'iconografia solitamente
piatta, avvezza alla più stucchevole agiografia. Nell'ultimo
periodo, l'arte di Vincenzo Vizzari, o meglio il suo rapporto con la
figura della Santuzza, si è fatto sempre più problematico.
Sofferto, addirittura. E proprio per questo prodigo di bellezza e
spirito creativo. Non si può dimenticare, dagli anni trascorsi, la
vetrina intitolata La caduta degli dei, con Rosalia
agonizzante in un cassonetto, soffocata dai rifiuti, di qualche tempo
fa (uno dei picchi più alti della collezione di vetrine di
Cittacotte dedicate alla santa patrona di Palermo). Seguì la
versione chiamata Interiors, dove vedevamo una Rosalia
squarciata nel corpo e nella mente, simbolo ella stessa di una città
contradditoria e autolesionista. Poi venne Mission, la lettura
che trasfigurava Rosalia in una versione disperata del mito di Cola
Pesce, piccola titana chiamata a reggere come Atlante una Palermo
fatta di caos e dubbio progresso, da cui mille mani imploranti si
sporgevano in cerca di salvezza... e il grido muto sul volto della
Santuzza non lasciava dormire tranquilli.
Era quindi un appuntamento inevitabile.
Ispirandosi all'Isola dei Morti, dipinto del pittore
simbolista Arnold Bocklin, mastro Vizzari porta in scena una città
tetra, grigia, fuligginosa, dove i profili delle antiche architetture
arabe della Palermo storica sono controfigure inquietanti dei pini
che troneggiano nel quadro originale. Tutto è gotico in questo
Pietas, titolo di questa vetrina dell'estate 2015. Ma a
dispetto del titolo, con la versione della “Pietà”
classica non ha nulla a che vedere. Più che pietà dimostrata,
formula una richiesta di compassione... se non altro un moto di
commozione davanti all'irreparabile, e un attento esame di coscienza
alla ricerca delle proprie omissioni. Nessuno solleva pietosamente la
Santuzza, ormai defunta, marmorea e avvolta nel suo sudario (stavolta
non vediamo neppure il suo volto). Resta solo il suo corpo inerte,
bianco e giacente sulla lastra di porfido, santa patrona ormai caduta
sotto il peso del suo fallimento. Protettrice che niente ha potuto
contro le tenebre che hanno avvolto la sua città. Stavolta non
scorgiamo alcuna presenza umana. La città sulfurea sullo sfondo
sembra disabitata, neppure ci trovassimo di fronte a uno scenario
post apocalittico. Una visione pessimista che sembra annunciare che
Dio è morto, e anche noi faremmo meglio a non sentirci tanto bene.
Il fondale, anch'esso cupo ma illuminato da un plenilunio bluastro
contribuisce al quadro dark, ma con una strizzata d'occhio a una
percezione tutto sommato più autoironica del primo livello di
lettura dell'opera. Ricorda un fondale classico degli horror inglesi
della Hammer, quelli in cui eravamo abituati a vedere stagliarsi la
figura dell'attore Christopher Lee, da poco scomparso, nel ruolo
della sua vita, il vampiro più classico di tutti. Quindi Pietas
ci comunica la disfatta, la morte, anzi l'assassinio della santa
patrona della città... da parte della città stessa, divenuta a sua
volta una città fantasma, e insinua che tra quelle ombre, in mezzo a
quella fuliggine, si stiano annidando creature invisibili che poco
hanno a che fare con l'umanità che vorremmo conservare. E che ci
prenderanno, nel sonno, se non vigiliamo. Perché Santa Rosalia è
stata ormai colpita al cuore, e dobbiamo difenderci da soli.
Grottesco. Gotico. Metaforico come
sempre. Con una spruzzata di humor nerissimo a speziare un quadro
plastico che illustra una visione palermitana di certo non idilliaca,
ma che contribuisce a denunciare le contraddizioni, la retorica e
l'ormai frusta, insopportabile demagogia che ogni anno permea sempre
più la nostra partecipatissima festa patronale.
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