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lunedì 17 settembre 2012

Kick-Ass 2


 

Non è trascorso molto tempo da quando Dave Lizeswski è sopravvisuto allo scontro con una delle più spietate famiglie criminali di New York. Kick-Ass è un nome ormai popolare in rete, quasi ai livelli di un vero supereroe, di quelli che esistono solo nei fumetti. Mindy Macready, smessi i panni della letale Hit-Girl, si divide tra la sua nuova vita di bambina normale, con la fragile madre, il suo pacato patrigno poliziotto e sessioni di allenamento con Dave, più che mai intenzionato a diventare il più figo dei vigilanti metropolitani. Ma non c'è più la sola sagoma di Kick-Ass a pattugliare le strade. Una nuova schiatta di variopinti eroi improvvisati è entrata in azione. Emuli esaltati e dal passato ambiguo, impegnati in ordinari soccorsi ai cittadini come in veri e propri blitz ai danni di piccoli delinquenti. Le forze dell'ordine, in principio, sembrano tollerare questa bizzarria. Ma la vendetta di Red Mist, giovane erede di Genovese, il gangster eliminato da Hit-Girl e Kick-Ass, si è fatta attendere anche troppo, e una legione di altrettanto sgargianti sicari è pronta a scatenare una vera guerra di bande...



Il primo Kick-Ass di Mark Millar e John Romita Jr. si distingueva per l'estro grottesco, l'ironia pungente che impregnava anche le scene più brutali in modo quasi tarantiniano, e il senso di straniamento suscitato dall'infrangersi fragoroso dei sogni da supereroe contro lo scoglio di una realtà troppo cruda e spietata. L'archetipo nerd messo a confronto con il reale scontro fisico, il sangue, la morte, cui facevano da cornice farneticazioni fumettistiche di un'ingenuità disarmante, funzionava alla grande. Si trattava di un gioco malizioso su una delle fantasie adolescenziali più diffuse e superficiali. Insomma, il primo Kick-Ass era una satira spigliata e riuscita del genere supereroistico senza sconto alcuno. Un buon successo editoriale successivamente edulcorato dall'industria hollywoodiana e livellato, sullo schermo, a un cinefumetto più tradizionale e sostanzialmente innocuo. A suo modo, Kick-Ass, con il suo brio al vetriolo, era riuscito a conquistare lo status di nuova icona a fumetti, allontanando finalmente il britannico Mark Millar dalle derive più commerciali dove cinismo e violenza avevano il medesimo valore enfatico delle bollicine della Coca-Cola. 


Questa attesa seconda stagione, purtroppo, non fa che confermare il principio secondo il quale un'opera riuscita farebbe meglio a restare intonsa, e si inchina (come prima, peggio di prima) a logiche di mercato che iniziano peraltro a risultare datate e stucchevoli. Se la prima serie, infatti, poteva contare su un buon ritmo, personaggi azzeccati e un riuscito crescendo narrativo, Kick-Ass 2 procede invece per accumulo, e soffre della sindrome da sequel che affligge la maggior parte dei blockbuster cinematografici di cui è prodotto un secondo capitolo. La ricetta consueta è un maggior numero di personaggi, più carne al fuoco, più mezzi, più azione (non importa se motivata o meno), e in questo caso più violenza, ma imboccando sentieri differenti dal primo episodio, metaforico e sardonico. Mark Millar ricade goffamente nel suo complesso da provocatore d'accatto. 


Ispirato sin dai suoi esordi dai rudi codici stilistici sdoganati dall'irlandese Garth Ennis (Preacher, The Boys), aggiungendo di suo l'abbattimento dei riferimenti etici ed estremizzando l'estetica della crudeltà, Millar aveva già da tempo superato in kitsch il suo maestro (il quale, parallelamente, per ovvi meccanismi di osmosi commerciale, ha preso di recente ad assomigliare sempre più al suo discepolo) e si era ritagliato un cosmo personale concretizzato nel marchio Millarworld. Le spacconate anticatartiche di Wanted, le profanazioni iconiche di Ultimates, hanno tenuto banco per lungo tempo. Ed è quel Mark Millar che vediamo tornare a fare capolino tra le tavole di Kick-Ass 2. Un seguito dove l'ironia è quasi del tutto scomparsa, lasciando il posto a uno stolido sberleffo da bulletto di quartiere. Dove la violenza (che pure, nel primo ciclo, non mancava) subisce qui un'ulteriore iniezione di testosterone e gratuita infrazione di tabù, non lesinando sull'infanticidio e lo stupro di massa. Il problema è che Kick-Ass, sin dal suo assunto di partenza, vorrebbe rifarsi (più o meno consapevolmente) alla teoria sociologica secondo la quale la fiction è sempre più influenzata dalla realtà e la realtà finisce per essere sempre più influenzata dalla fiction. Il gioco dovrebbe essere (così era, almeno, nel primo episodio) quello di far crollare il castello di carte, e sbugiardare ogni pretesa di epicità. Ma stavolta il meccanismo va in tilt, e a farne le spese sono logica e divertimento. Disturba un po' l'iniziale, esagerata assenza delle forze di polizia davanti al dilagante fenomeno dei vigilanti in maschera, cui subentra un massiccio intervento (e una goffa citazione) solo in funzione della trama lineare, lasciando il quadro generale confuso e appena abbozzato. Una lunga sequenza di personaggi che vorrebbero apparire tosti, ma che altro non sono che fotocopie sbiadite del ben più spiazzante Big Daddy. Inoltre, rispetto al primo, originale Kick-Ass le dinamiche sono cambiate, e – come avvenuto per ragioni di target nella pellicola tratta dal fumetto – Kick-Ass 2 deraglia sui binari della prevedibilità, dell'equazione caduta-rivincita, e di un più canonico meccanismo supereroistico (sia pure in salsa millariana) che di satirico e realmente spiazzante ormai conserva ben poco, compreso l'apertissimo finale.

 

Il tutto si riduce, pertanto, a un accumulo di caratterizzazioni stereotipate, sanguinosi eccidi, in attesa del ritorno in scena del vero deus ex machina. Quella bimba dall'aspetto innocente che combatte come un ninja provetto e urla più oscenità di un sergente dei marines. Il che ci fa pensare che di Kick-Ass, il primo, quello più riuscito, siano rimasti solo i personaggi cardine, ma ormai privi di vere storie da raccontare, ormai simili a relitti alla deriva. Aumentata la cupezza e il bisogno di sconvolgere, stavolta il black humor fa cilecca, e la bibita ha un gusto dozzinale nonostante... tutte quelle... tutte... quelle bollicine. Anche i disegni di John Romita Jr. sembrano a tratti tirati via, con mestiere ma senza la consueta ispirazione. Altro sintomo, forse, della necessità più che altro alimentare che dà vita a questo secondo ciclo di Kick-Ass
Il riscontro in fumetteria sembra premiare con gli acquisti quello che è a tutti gli effetti un sequel di un'opera di successo. Ma è lecito chiedersi quanto di Kick-Ass 2 resterà nell'immaginario collettivo una volta che il fumo (tanto) si sarà diradato e il sangue (a litri) asciugato. Un peccato, considerato tutto il divertimento che la prima, ispirata serie, con il suo linguaggio scanzonato e la capacità di picchiare duro senza prendersi troppo sul serio, era riuscita a regalare a un pubblico trasversale.




[Articolo di Filippo Messina]


martedì 15 febbraio 2011

Swamp Thing di Mark Millar


Alec Holland si risveglia in Perù dopo aver trascorso lunghi giorni in preda alla febbre. Un esperimento in cui ha utilizzato dei rari funghi allucinogeni lo ha sprofondato in un delirio comatoso e per qualche settimana Alec ha perso ogni contatto con la realtà. Ora sta bene, ma è turbato da un sogno particolarmente vivido. Ha sognato che un incidente di laboratorio lo aveva trasformato in una creatura vegetale conosciuta come Swamp Thing, un guardiano del mondo delle piante che ha vissuto meravigliose, terribili avventure. Il sogno adesso si è concluso e Alec sta per tornare alla sua vera vita, ai suoi studi e ai suoi amici. Ma una certa ragazza con i capelli candidi esiste davvero? E chi è lo spaventoso mostro della palude che in Louisiana sta facendo strage dei cajun in una crescente furia omicida?


Dopo la conclusione dello storico ciclo di Alan Moore, che aveva ridefinito la Cosa della Palude di Len Wein e Bernie Wrightson, gettando le basi per la nascita della divisione Vertigo presso la DC Comics, di Swamp Thing in Italia si erano perse le tracce. In America, la serie è in realtà andata avanti per anni con esiti altalenanti che hanno portato anche a una temporanea chiusura della testata. Ad Alan Moore era subentrato Rick Veitch (The One, Teknophage), degno successore del grande bardo, liquidato dalla DC in seguito alla presunta blasfemia di un episodio in cui compariva Gesù Cristo. Il timone della serie era quindi passato a Nancy A. Collins, scrittrice di romanzi horror che aveva scelto di riportare Swamp Thing alle sue originali radici di racconto gotico di stampo tradizionale. Saltando questo lungo ciclo di storie, la Planeta DeAgostini presenta oggi il primo volume di Swamp Thing di Mark Millar nella nuova collana La Biblioteca di Lucien. Sebbene la scelta editoriale sembri più quella di puntare sulla popolarità di Millar, autore qui alle primissime armi, piuttosto che riproporre nel nostro paese un personaggio dal grande potenziale, questo ritorno in fumetteria della Cosa della Palude non è privo di interesse. Mark Millar firma la prima parte del volume in collaborazione con il già famoso Grant Morrison (che nei credits di molti capitoli lo precede per diritto) e, una volta rimasto solo, riesce a portare avanti la serie senza sfigurare, regalando ai fans del mostro paludoso delle pagine discretamente suggestive.

Si tratta di un Mark Millar giovane, lontano un’eternità dallo stile provocatorio e kitsch che caratterizzerà in
 futuro titoli come Wanted e Kick-Ass. La traccia fornita da Grant Morrison nei capitoli iniziali è sviluppata in modo diligente e recupera strutture e atmosfere già presenti nell’opera di Alan Moore. Una suggestione che incontrerà più facilmente il favore dei lettori nostalgici, che ancora ricordano lo Swamp Thing del bardo di Northampton come una delle opere a fumetti più memorabili di sempre. E’ necessario mettere da parte confronti inopportuni e lasciarsi guidare da meccanismi narrativi collaudati e sempre affascinanti pur nella loro dichiarata natura di surrogato. Grant Morrison porta in scena uno psicodramma pirandelliano che scatta come una trappola catturando anche lo spettatore più distratto. Un espediente narrativo abbastanza efficace per farsi perdonare successive incongruenze e condurre per mano il lettore in un nuovo viaggio iniziatico accanto al Paludoso, tra storie di gente comune travolta dall’assurdo, devastanti lampi di orrore, ossessioni esistenziali e mistiche tenebrose. La vena allucinatoria di Morrison viene raccolta da Millar con discreta inventiva, e il volume si conclude con un ciclo surreale piuttosto intrigante per quanto imperfetto. Disegnato in larga parte da Philip Hester senza particolare inventiva, il volume offre anche i contributi di Chris Weston (Flinch) e Phil Jimenez (Crisi Infinita, Invisibles) in gustosi camei che conferiscono al tutto un sia pur contenuto valore aggiunto.

Una lettura piacevole, ma che lascia l’amaro in bocca a chi davvero ama la Cosa della Palude. Rammarico per una lunga sequenza di capitoli ignorata a beneficio di un discutibile espediente commerciale. Amarezza per il ciclo realizzato da Rick Veitch, immediato successore di Moore e autore di altissimo profilo, tuttora inedito in Italia. Forse senza speranza dopo l’apparizione in fumetteria di questo Mark Millar’s Swamp Thing, dove il nome dello sceneggiatore (in alcuni cataloghi strillato con tanto di sussiegoso genitivo sassone) relega in secondo piano protagonista e contenuti. Una pietanza, quella di Millar, non spregevole, ma che per essere apprezzata necessita della capacità di accontentarsi, tenendo presente che il piatto migliore, più appetibile e pregiato, chi sovrintende alla cucina, potrebbe non portarlo mai in tavola.


Questa recensione è stata pubblicata anche su Fumettidicarta.


[Articolo di Filippo Messina]


mercoledì 10 marzo 2010

100% Cult Comics - Kick-Ass


 «Non posso volare... Non posso vedere attraverso i muri... Ma posso spaccarti il culo!»

Dave Lizewski è un giovane nerd americano come tanti. Vive con il padre vedovo, frequenta la scuola, coltiva fantasie erotiche su insegnanti e compagne. Non è popolare tra i coetanei, e divora letteralmente quintali di fumetti. Gli stessi che chiunque può sfogliare nel mondo reale. Spider-Man e gli X-Men vivono nelle fantasie di Dave contaminando la sua psiche di adolescente come un insidioso virus. Per una volta, non ci saranno ragni radioattivi, né raggi cosmici, e neppure traumi infantili che spingono verso un destino epico. Ma Dave ormai ha deciso. Diventerà un supereroe.  Il primo eroe in tuta, carne e ossa. Dopo anni di letture a fumetti ne sa più di chiunque altro, e... cazzo se ci riuscirà!

Mark Millar non è un genio.
Un'affermazione che farà infuriare l'armata di imberbi bulli che lo ha venerato nell'ultimo decennio, suggendo avidamente la sua arte dai primi numeri di Ultimates, sulla miniserie Civil War e sul sopravvalutato Wanted. Altra bestemmia: Mark Millar non è neppure troppo versatile. Il suo linguaggio è diventato in fretta più che 
prevedibile, e le sue provocazioni sono state spesso d'accatto, senza peso reale, come un troll internautico volto a  far  leva su passioni forti, pensato giusto per provocare gli ingenui sul web. Quel che Millar ha saputo fare veramente bene, è stato trasformarsi nell'uomo di punta di un trend che ha rilanciato il fumetto supereroistico negli ultimi anni, introducendo – dopo il lungo capitolo del revisionismo –  l'età del cinismo, della vioenza e degli eroi corrotti. Dall'Authority ideato da Warren Ellis ai Vendicatori rivisitati di Ultimates, l'autore Millar si è identificato con il nuovo stile dei fumetti cui ha lavorato, cogliendo i frutti di una stagione commerciale fruttuosa e di un registro narrativo che ha bucato la pagina e germinato nell'immaginario dei lettori, prima di imboccare l'inevitabile strada della ripetitività.
Questo fino a Kick-Ass, quello che potremmo definire il fumetto di supereroi definitivo secondo la poetica crudele di Mark Millar. Ma anche un momento di crescita, in cui il sangue, il turpiloquio e la volgarità trovano finalmente una vera ragion d'essere, e sbocciano in un racconto paradossale, dinamico e divertente. Basta con supereroi d'annata da svecchiare facendo loro calare le brache. Basta con visioni criminali che più dei supereroi ricordano i deliri erotici del marchese De Sade. Mark Millar è infine diventato grande. Ha capito che i supereroi non esistono. Che non possono esistere, e che non esisterebbero neppure quelli toccati dal suo trucido restyling, nonostante il tempo speso a persuaderci di essere supereroi “realistici”. Con Kick-Ass si torna veramente con i piedi per terra, e gli eroi in tuta vengono ricollocati là dove si trovano più a loro agio: nei fumetti. In questa metropoli non si corre più veloce della luce, non si sfreccia nel cielo sfiorando i grattacieli, non si tessono ragnatele, e le pallottole, i pugni fanno male. Dannatamente male...


Se pure ha indossato i pantaloni lunghi, Mr. Millar pensa bene di lasciare la patta diligentemente sbottonata. Il suo target d'elezione non gli perdonerebbe un drastico cambiamento di registro. I dialoghi di Kick-Ass sono sicuramente tra i più sboccati degli ultimi anni, ma l'atmosfera pulp, ammiccante a un'estetica cinematografica vicina a quella di Quentin Tarantino, li rende funzionali al vero obiettivo di questo fumetto. Essere un gigantesco sberleffo ai supereroi, ma sopratutto alle fantasie infantili che tutti abbiamo vissuto. Lo stesso vale per la violenza, ultrasplatter e grottesca come non si vedeva da tempo. Il fantasma del Coyote della Warner
Bros, destinato a subire inenarrabili martiri, ma comunque pressoché indistruttibile, aleggia di tanto in tanto tra le pagine, ma la sua presenza è discreta. Una brezza leggera, soffiata sul viso del lettore come gli adagi terroristici che accompagnavano pellicole estreme negli anni settanta: “Se non volete svenire, continuate a ripetervi: è solo un film!”.
Il vero protagonista di Kick-Ass, dunque, non è Dave, e nemmeno il supereroe di cui vestirà i panni.  Protagonista del fumetto di Millar, per quanto trasfigurata, è la realtà urbana. Quella amara, quella ironica che ci fa scappare una risata anche quando avremmo voglia di piangere o urlare. Quella che ci bacchetta dolorosamente quando lasciamo che i sogni prendano troppo spazio nel nostro vivere quotidiano.
Un'altra eresia, stavolta di ispirazione letteraria. Che probabilmente non piacerà tanto agli ammiratori di Millar quanto ai suoi detrattori. Con  Dave Lizewski, Mr. Millar ha portato sulla carta la sua personale Madame Bovary. Mette in scena, cioè, un personaggio la cui vita non presenta alcuna ragione di entusiasmo. Una persona totalmente assorbita dalle proprie letture e dal desiderio di trasformarle in realtà, forzando gli eventi fino alla tragedia. Ma ci rammenta anche una celebre eroina del teatro di Henrik Ibsen, che non riuscendo a evadere da una vita anonima neppure mettendo in atto machiavelliche malvagità, si trova a dire sconsolata: «E' terribile! Volgarità e ridicolo infettano come una maledizione tutto ciò che tocco». 


E così succede a Kick-Ass, improvvisato supereroe newyorkese, troppo cocciuto per arrendersi, troppo stupido per aprire veramente gli occhi. Ma il mondo reale non è meno malato di quello che tribola sulle tavole a fumetti. Forse lo è anche di più, e una generazione di supereroi fai da te inizia a seguire le orme del
misterioso vigilante in tuta verde. Più che seguirlo, gli sta proprio incollata alle chiappe, lasciando dietro di sé una lunga scia di sangue. L'inizio è magistrale. E per inizio, non ci riferiamo qui alle primissime vignette, pure importanti, ma alla prima apparizione dell'eroe protagonista, con un biglietto da visita che fa accapponare la pelle e accende di colpo le luci del teatro fatiscente in cui siamo incautamente entrati. La chiave dell'ironia, sebbene sudicia e cattiva, si addice all'estro di Mark Millar. Dopo supersoldati fanatici e mostri grigioverdi affamati di sesso, Kick-Ass sembra voler dare ragione tra le righe a quanti dicono che i fumetti di supereroi siano diseducativi. Stavolta mostrandone direttamente gli effetti dannosi per la mente (e i corpi) di chi li percepisce come oggetti di culto. Figure mascherate come Big Daddy, Hit-Girl e Red Mist, rendono New York un posto ancora più pazzo e pericoloso di quanto già non sia. E mentre la montagna di cadaveri diventa più alta, ci si aspetterebbe di vedere uscire dalla tomba Fredric Wertham, autore de La Seduzione degli Innocenti, per andare incontro a Mark Millar con le braccia spalancate. Se solo Kick-Ass non fosse pur sempre un fumetto che parla di eroi in costume, in grado di causare un cortocircuito mediatico dal gusto spiazzante. La provocazione di Mr. Millar stavolta è rivolta contro i suoi stessi lettori, contro chi pensa che combattere sia figo, e che il sangue sia un nettare di cui inebriarsi. A emergere, tra le pieghe della calzamaglia, stavolta ci sono stupidità, vuoto narcisismo, incompetenza, incoscienza. Questi eroi così poco super del mondo concreto sono molto simili ai giovani concorrenti dei moderni reality, e ne mimano le effimere, discutibili impennate di popolarità. Da un certo punto di vista, Kick-Ass potrrebbe essere letto come il fumetto più ambizioso di Mark Millar, e il suo piglio beffardo, in apparenza leggero, non dovrebbe trarre in inganno.
Il successo in patria di Kick-Ass ha subito ispirato un film di prossima distribuzione (pronto ancora prima che la miniserie originale completasse le uscite) diretto da quel Matthew Vaughn cui già dobbiamo la trasposizione su schermo dello Stardust di Neil Gaiman. Il volume edito da Panini, insolitamente smilzo, è il primo di una serie di due che sarebbe entrata comodamente in un unico libro. Le ragioni di questa scelta commerciale sono probabilmente da ricercare nella prossima
uscita del film omonimo, e ci interessano poco in questa sede. Due parole merita invece John Romita Jr., veramente grande e del tutto a suo agio in una storia che di supereroistico ha soltanto i costumi sgargianti. Affidata alle matite di un altro artista, la violenza splatterosa di Kick-Ass non avrebbe avuto forse quella patina da cartone animato che la rende risibile nonostante l'estrema durezza. Dal punto di vista grafico, Kick-Ass spacca davvero. E Hit-Girl, appena intravista in questo primo volume, promette una festa di morte che darebbe gli incubi persino a Stephen King. Senza bisogno di gridare al miracolo, e senza (super) eroi, Kick-Ass di Mark Millar è dunque un fumetto davvero divertente. Leggero, ma neppure troppo. E stavolta, tra una risata nervosa e uno sputo insanguinato, vale proprio la pena di fare la conoscenza di quello scoppiato di Dave Lizewski, e scoprire cosa può capitare a un pazzoide del tutto privo di buon senso quando indossa un costume e si avventura in un mondo altrettanto ottuso e brutale.

Questa recensione è stata pubblicata anche su Fantasymagazine.


[Articolo di Filippo Messina]


martedì 12 dicembre 2006

Wanted: Il carattere d'acciaio di Mark Millar

Odio Mark Millar.

Sì, lo so. Questo è lo stesso inizio usato da Fabio Licari per la sua prefazione a Wanted, pubblicato questa settimana nella collana Dark Side, edita dalla Gazzetta dello Sport. Lo aveva già usato in un precedente volume della collana firmato da Millar, quello dedicato a Vampirella. La mia, quindi, è una citazione, ma presenta una sostanziale differenza dal punto di vista di Fabio Licari.

Io lo odio davvero.

Sono consapevole che questa confessione mi renderà impopolare presso una larga fetta di lettori di fumetti, soprattutto i più giovani. Non posso farci nulla, la penso in questo modo, per cui – se le mie aspettative non saranno contraddette – non mi resterà che accettare il crucifige. Prima di ascoltare la condanna, però, vorrei dire la mia nero su bianco, e spiegare una volta per tutte le vere ragioni della mia antipatia nei confronti di questo autore che proprio con Wanted ha espresso al massimo la sua personalità. L’invettiva non sarà breve, e questo servirà di certo a scremare la potenziale schiera di interlocutori.

Una piccola digressione necessaria. Vorrei ricordare un noto spot pubblicitario che negli ultimi mesi ci ha invitato ad acquistare una possente automobile allo scopo di sviluppare un “carattere d’acciaio”. La trama dello spot presenta una situazione tipica. Il classico suicida indeciso, in piedi su un cornicione, scruta il vuoto che metterà fine alla sua esistenza. Una donna in carriera (il look e il piglio, almeno, ci suggeriscono che è così) nota il tapino dalla strada e si precipita nell'appartamento per fermarlo. Fatto rientrare il suicida, lo fa subito uscire dalla finestra che dà sull’altro lato del palazzo, su un cornicione altrettanto pernicioso. Quando la “signora” scende di nuovo in strada, sollevata e soddisfatta, comprendiamo le vere ragioni del suo gesto. L’uomo rischiava di sfracellarsi sulla magnifica auto della donna, parcheggiata proprio sotto il cornicione. La finestra cui lei lo ha condotto, invece, gli permetterà di completare il suo gesto disperato senza nuocerle minimamente. Il “carattere d’acciaio”, declamato dallo slogan come una qualità altamente apprezzabile, consisterebbe quindi nel saper difendere la propria proprietà privata senza lasciarsi turbare né tantomeno coinvolgere dalle tragedie altrui. Un spot altamente educativo che riassume il succo dell’attuale trend del fumetto supereroistico.
Trend, di cui Mark Millar è il principale alfiere.

Dopo i supereroi revisionisti, tutti discendenti del grande Watchmen di Alan Moore, è iniziata una nuova era per questo genere del fumetto popolare. Il tono cupo e realistico delle storie è andato privilegiando sempre più gli aspetti oscuri dei personaggi un tempo presentati come eroi secondo un’ottica manichea. O erano buoni (e quindi eroi) o erano malvagi (e quindi erano il nemico). Dopo Watchmen, Il ritorno del Cavaliere Oscuro e altre pietre miliari che hanno ridisegnato il modo di raccontare i personaggi in tuta, siamo stati velocemente traghettati sulla sponda opposta. Tutto era iniziato ponendo delle domande scomode, mostrando limiti e contraddizioni al fine di rendere verosimili quei personaggi ormai non più credibili. Già da qualche tempo, però, il confine è stato superato, e gli eroi (intesi qui nel senso di “protagonisti”) hanno finito con l’arenarsi in una caratterizzazione che è ancora più manichea e schematica del modello precedente. Se prima l’eroe era senza macchia, oggi è una carogna integrale. L’industria dell’immagine ha stabilito che viviamo nell’era del figo emergente a discapito dei poveri fessi idealisti. Il carattere d’acciaio ha perciò trionfato su quasi tutte le serie a fumetti più recenti. Addio, caro Uomo Ragno, tormentato paladino della giustizia. Hai fatto il tuo tempo, e alcuni giovanissimi più che “eroe”, oggi, ti chiamano “pipparolo” e “perdente”.

I tempi sono cambiati: il supereroe, per essere apprezzato dalle nuove generazioni, deve essere cinico, corrotto, magari anche ottuso. Deve possibilmente coltivare un gran bel vizio, essere spietato e incline al tradimento. E’ il nuovo che avanza, ma è anche un totale, noioso rovescio delle icone del secolo scorso. Se l’eroe puro oggi può sembrarci ipocrita, l’eroe corrotto è una macchietta. Se negli anni sessanta Stan Lee e soci avevano lanciato i “supereroi con superproblemi”, oggi spopolano quelli che potremmo definire i “supereroi con i supercontrocazzi”. Uniforme cucita su misura per gli adolescenti del nuovo millennio, destinati a crescere in una società dove gli unici ideali celebrati dai media sono il culto dell’immagine e il successo a tutti i costi.

Mark Millar ha conquistato la sua attuale popolarità scrivendo su numerose testate. Si è fatto un nome con Authority, serie sulla quale è subentrato a Warren Ellis, estremizzandone i temi anarchici e sociali. Peccato che molto presto si sia abbandonato anche alle smargiassate più gratuite, costruendo intorno ad Apollo e Midnighter (celebri per essere la prima coppia di supereroi gay del fumetto) una serie di gag di grana grossa, destinate al pubblico eterosessuale più tradizionalista. In Ultimates, riscrittura dei personaggi classici dei Vendicatori (grosso successo di pubblico negli ultimi anni), ha inacidito uno dopo l’altro le icone più nobili del pantheon supereroistico, seguendo un programma di incarognimento che, dopo il divertimento dei primissimi numeri, è diventato prevedibile quanto volgare. Ma Millar è veramente un genio. Anzi, è il Verbo dell’industria del fumetto popolare moderno che si è fatto uomo. Normale che non sbagli un colpo agli occhi dei suoi fans. Difficile resistere alle tentazioni del conformismo più cool. E difficile anche dimenticare le sue performance. Come la famosa splash page in cui Capitan America, in risposta all’alieno che gli intima di arrendersi, indica la “A” stampata sulla sua maschera gridando: «Credi che questa lettera significhi Francia?!!!»

A suo tempo, non sono stati pochi i lettori che hanno interpretato questa tavola come un’accusa di vigliaccheria a quella Francia che non aveva voluto prendere parte al conflitto in Iraq. Qualcuno ha voluto giustificare l’episodio con la caratterizzazione fanatica che Millar stava dando di Capitan America. Altri, in modo davvero infelice, hanno voluto rammentare a quanti s’erano detti turbati che “Millar è inglese, non americano”. Come se Tony Blair e George W. Bush non fossero entrati a braccetto in questa insensata avventura bellica. Si è parlato anche dell’orientamento politico di Millar, uomo di sinistra e quindi automaticamente innocente da qualsiasi intento filoamericano. Questo trascurando il principio sacrosanto per cui un autore andrebbe valutato esclusivamente per quello che scrive. Qualcuno obietta dicendo che quelle di Millar sono iperbole, volte a criticare il cinismo e la miseria di cui parla. Beh, può anche darsi. Ma se è così, diciamocelo, ragazzi: sta raccontando da anni la stessa storia. Dite di no? Insomma, Millar può contare su un’inesauribile riserva di difensori. Piace. Forse perché le sue trasgressioni sono il prodotto di una griglia editoriale sempre più omologata, e le opere migliori, nel sentire comune, sono quelle che ci raccontano quel che già stiamo pensando. Importa poco che la “corruzione degli eroi “ abbia già fatto la muffa. Sono in pochi a notare l’attuale rifrittura di espedienti e personaggi che non vedevamo su un fumetto di supereroi dalla fine della guerra fredda. Siamo stati portati culturalmente indietro di anni, e per farlo si ricorre a dei simboli molto elementari. Ma ancora è come se non ce ne accorgessimo, e percepiamo prodotti reazionari fino al buco del culo come una grande novità.

Ma veniamo a Wanted. La miniserie che lo staff responsabile di Dark Sid(come ci informa la prefazione di Fabio Licari) era incerta se pubblicare, in quanto “avrebbe potuto turbare i lettori più sensibili”. Personalmente, penso che “Wanted” sia veramente il capolavoro di Mark Millar. O almeno l’opera in cui più che in altre è riuscito a sintetizzare la tendenza (non solo fumettistica) di cui si è trovato a essere il portavoce.
Sono sempre stato contrario a ogni forma di censura, e di questo non mi pento. Wanted è un fumetto che si deve leggere. L’importante è che lo spirito del lettore resti critico e non si lasci ubriacare dagli elogi, francamente esagerati, che imbellettano questa nuova edizione. Non perché Wanted sia un fumetto poco curato o perché non possa comunque risultare divertente se letto con lo giusto stato d’animo. Ma perché è l’emblema di una deriva fumettistica che (con buona pace di Diabolik e dei suoi epigoni) non fa che sguazzare nel torbido di un’idea ormai stagnante da anni.
Con Wanted, l’orefice Millar sfoggia la sua gemma perfetta. Un mondo dove regna solo malvagità, egocentrismo e un’esaltazione che, più che liberatoria, fa pensare al delirio di un adolescente arrapato sotto cocaina. Sì, perché i presupposti psicologici di Wanted sono tagliati con l’accetta, e la stessa struttura del racconto presenta dei buchi notevoli.

Partiamo dal titolo Wanted, particolarmente fuorviante. La parola Wanted vorrebbe evocare l’idea dei fuorilegge, e suggerisce che una volta aperto il fumetto seguiremo le gesta dei criminali, osservando il mondo dei “super” dal loro – pressoché inedito – punto di vista. Ma è un inganno. Quelli di cui leggeremo la storia non possono nemmeno definirsi supercriminali. Non ci sono i presupposti drammatici. I Supercriminali sono tali in quanto si contrappongono ai Supereroi. E in un mondo dove gli eroi sono stati definitivamente cancellati dalla loro controparte malvagia, queste definizioni perdono di senso. Non c’è la caccia al fuorilegge, non c’è il confronto tra due mentalità divergenti, due stili di vita in contrasto. Tutte cose che il titolo Wanted annuncia in modo illusorio.

In realtà Wanted è un bizzarro cocktail tra 1984 di George Orwell e Le 120 giornate di Sodoma del Marchese De Sade. Giuro. Vi sembra incredibile? Vediamo un po’.

Wanted narra di un sistema autoritario (formato da caste di superesseri senza scrupoli) che si spartisce la torta su scala mondiale. Una dittatura occulta che manipola le percezioni e i ricordi della gente, modifica la storia e controlla ogni singolo meccanismo amministrativo. In primis, la giustizia. Il clima è quello del romanzo antiutopistico, dove i comuni cittadini sono solo bestiame senza speranza di riscatto. Tipico affresco apocalittico e deprimente nella sua gelida ineluttabilità.

Abbiamo poi dei personaggi dotati di superpoteri che si sono una buona volta liberati degli eroi. Il mondo intero, adesso, è il loro parco giochi. E perciò uccidono, violentano, torturano, distruggono, si ubriacano, scopano e fanno quel che cazzo gli pare alla faccia di qualunque morale. E naturalmente finiscono con l’annoiarsi. Né più né meno dei libertini (e dei lettori) di De Sade. Esemplare, in questo senso, il percorso di formazione seguito dal protagonista. Un programma scolastico degno della “Filosofia nel Boudoir”. Il futuro superfigo è preso a pugni finché non impara a reagire e viene fatto scopare fino allo sfinimento con una “bad girl” disegnata sulle fome della Catwoman di Halle Berry (quindi più una porca che una gatta). Ci si chiede se dovrà diventare un supercriminale o semplicemente un debosciato? Anche in questo segmento di storia si attinge abbondantemente a un repertorio di fantasie da adolescente frustrato. Siamo sempre sicuri che il povero Uomo Ragno sia quel pipparolo di cui parlavamo? A me non sembrava poi tanto male.

I supereroi, allora, non ci sono più. Ma i supercriminali che cavolo vogliono? Il mondo? No, ce l’hanno già. La ricchezza? Sono tutti ricchi sfondati. Infatti, neanche rubano più. Al massimo ammazzano qualcuno per il puro gusto di farlo impunemente. E poi, che se ne fanno del denaro in un mondo dove possono prendere tutto quello che vogliono? Ma se questi superstronzi sono l’unica forma di super rimasta al mondo, che cazzo gli facciamo fare? Beh, si ricorre all’espediente delle dimensioni alternative. In cerca di avventure, o di prestigio o altre ricchezze (non si capisce!), i nostri antieroi si concedono delle escursioni in dimensioni parallele dove i vigilanti mascherati esistono ancora. Non che quest’aspetto del racconto sia approfondito più di tanto. E infatti ci chiediamo a che diavolo serve.

Dunque, siccome stiamo parlando pur sempre di superesseri, ed è d’obbligo lo scontro, non resta che un’unica, trita soluzione. I cattivi si contendono il controllo della piazza e iniziano a farsi fuori a vicenda. Ma che originalità, signor Millar. No, pardon. Dimenticavo, lei innova tutto quello che fa. E del resto c’è un esercito di imberbi bulli pronti a portarla in trionfo pur di dimostrare di avere anche loro un “carattere d’acciaio”.

Lo stesso Millar annaspa quando mostra la crisi del protagonista. Davanti all’ennesima abbuffata di violenza gratuita (perpetrata con l’unico scopo di appagare una pulsione sadica), l’antieroe entra brevemente in crisi. Tanto potere, tanta lussuria e assoluta mancanza di confronto svuotarebbero l’esistenza di chiunque. E allora subentrano la depressione e il bisogno di qualcosa di più. Peccato che proprio quel contenuto che avrebbe potuto rendere Wanted realmente interessante sia stato soltanto sfiorato da Millar. In verità, avrebbe dovuto essere l’argomento principale: che cazzo faccio in un mondo in cui non ci sono più veri obbiettivi?

Qualcosa di simile Millar la presenta nel finale, quando il protagonista afferma (fingendo) di voler rinunciare al suo manto di supervitaiolo senza scopo. Ma la crisi si rivela solo uno sberleffo, una secchiata d’acqua su un corpo tormentato con l’elettricità giusto per fargli patire di più lo shock. E tutto si dimostra speculare con la scena che apre il fumetto, quando un personaggio, mentre si prepara a far sesso con due giovanotti, dice: «Io non sono gay. Ma faccio il gay un anno sì e uno no per fami venire più voglia di donna».

Millar finge dunque di donare barlumi di umanità al suo protagonista affinché risulti ancora più disturbante la sua non-caratterizzazione di manichino supercattivo in un mondo senza scopo.

Se Garth Ennis ha esaurito la sua forza provocatrice perdendosi in una deriva di vomito, sangue e luridumi a discapito di un racconto equilibrato, Mark Millar ha raffinato progressivamente il suo manifesto del Maschio Moderno (è la nuova definizione del supereroe?) amorale e fascinosamente egoista. Per questo Wanted è un prodotto particolarmente omologato e commerciale. La sua trasgressione è liofilizzata, al servizio di logiche industriali che oggi vendono fumetti alla maniera di un capo d’abbigliamento sexy con la promessa che ti renderà irresistibile. O come un’automobile di lusso, che meriterai solo se diventerai spietato. Una volta capito il meccanismo non rimane nulla. Tranne una sensazione di inaridimento, i cui sintomi principali sono l’annichilimento dei valori e la celebrazione del cinismo. Millar stesso svela il trucco nella pagina finale del suo racconto, ricordando ai lettori che nel mondo di Wanted i super ti inducono a credere che esistono solo nei fumetti. Invece esistono davvero. Controllano la tua realtà, ti dicono a che cosa credere e te lo mettono nel culo.

Il punto è che Mark Millar riesce a far gridare «Che bello!» anche al più omofobo.

Succede anche troppo spesso di sentire censori improvvisati tuonare contro opere underground colpevoli di mescolare il sesso a violenze che non hanno niente da invidiare a quelle di tante altre pubblicazioni blasonate. Per questo non invito a disertare Wanted. No, tutto il contrario. Wanted è importante in quanto prodotto definitivo di una tendenza fumettistica (e non solo) che conduce a un totale appiattimento delle idee, del concetto di umanità. E’ l’esempio ben realizzato di quanto il conformismo possa mascherarsi da trasgressione.

Ed è per questo che andrebbe letto. Va conosciuto. Meditato. Se ci riuscite, criticato.


[Articolo di Filippo Messina]






mercoledì 15 febbraio 2006

L'importanza di essere... Nerd!

Lo scrittore francese Louis Ferdinand Céline, autore di “Viaggio al termine della notte”, affermava nei suoi libri carichi di nichilismo che “la gioventù è STRONZA ASSOLUTA”.
Quello che voleva dire è che, a fianco della trasversale stronzaggine propria dell’intero genere umano, ne esiste una fisiologica di una determinata età, legata all’adolescenza e alla prima giovinezza. Una forma di stronzaggine coerente e sociologicamente inevitabile, che è attraversata più o meno da tutti prima di entrare nella corruzione più complessa e contraddittoria dell’età adulta.

Céline nutriva una profonda disistima per il genere umano. Medico e grande scrittore, genio letterario non esente da zone d’ombra (come la discussa componente antisemita) e cantore del disfacimento di un’umanità materialista, si riferiva al suo prossimo con l’appellativo di “tubi digerenti”. Modello finito e perfetto di quell’essere umano mediocre che lui già scorgeva in germe negli atteggiamenti della gioventù del suo tempo.

E’ con orrore che oggi mi ritrovo al traguardo dei quarant’anni e mi riscopro a pensare ai paradossi del vecchio Louis Ferdinand con grande solidarietà. Francamente speravo di dover attendere qualche anno in più per sentirmi tanto alieno da chi, in questo nuovo secolo, ha un’età compresa tra i diciotto e i venticinque.

Sarò sincero, una certa insofferenza nei confronti dei pischelli l’ho sempre covata. Ma sì, anche quando condividevo la loro età anagrafica. Mi sono anche sorpreso a meditare su un prodotto mediocre e commerciale come la serie cinematografica Venerdì 13 per ricavarne una chiave di lettura sociopatologica della gioventù e del mio controverso rapporto con essa. In occasione di una rassegna televisiva, mi sono sciroppato tutte le pellicole della serie horror degli anni ottanta nonostante l’evidente, insulsa ripetitività. Perché? Perché vedere massacrare adolescenti mi dava una piccola scossa consolatoria. Diciamolo: Jason Voorhees è un giustiziere.

I primi film di questa serie horror sono stati bollati come moralisti e sessuofobici. In effetti, non mi sento di dissentire troppo da questa interpretazione. Il plot è sempre uguale. Un campeggio (quello di Cristal Lake) viene occupato da un gruppo di adolescenti. Vogliono divertirsi, sono in vacanza. Quindi pensano solo a ridere, fare l’amore, tuffarsi nel lago, farsi scherzi stupidi. In realtà, niente di così colpevole. Dopotutto sono in vacanza, avrebbero ogni diritto di godersi il week end. Ma ecco che il mostro inarrestabile e con la maschera da hockey li fa a pezzettini uno alla volta. E per ciascuno sperimenta una diversa morte, spettacolare e sanguinolenta. I ragazzi dovrebbero essere dunque delle vittime innocenti per cui provare compassione. Ma non è così che appaiono agli occhi dello spettatore. Pardon! Agli occhi di QUESTO spettatore. Ma la sceneggiatura ci mette del suo. Tutti loro ci vengono mostrati come personaggi dal carattere bidimensionale. Fatui, antipatici, superficiali. Tanto, troppo simili agli adolescenti schiamazzanti e maleducati che incontriamo sull’autobus, per strada, nei luoghi pubblici. Jason risulta quindi come un diverso, un emarginato che si vendica eliminando schiamazzo e mediocrità dalla bellezza di una natura incontaminata. Non a caso, il personaggio che alla fine di ogni film gli resiste, è sempre l’unico ad aver mostrato un pizzico di umanità in più.
Ricordo particolarmente bene una sequenza in cui un odioso ragazzotto girava ossessivamente intorno a una casupola a cavallo del suo motorazzo, rombando e strillando senza sosta. La scena va avanti per parecchi minuti in modo esasperante, prima che un machete provvidenziale faccia saltare di netto la testa del motociclista restituendo la colonna sonora a un silenzio benedetto.

Non posso farci niente. Da allora, ogni volta che m’imbatto in comitive di ragazzi bercianti e sogghignanti, nella mia mente li catalogo al volo come “elementi da Venerdì 13”.

Veniamo ora all’attuale evoluzione di questi “elementi”. E osserviamola attraverso la lente della cultura fumettistica, campo nel quale sono immerso per ragioni di lavoro fino ai capelli.

Ho già parlato della linea Ultimate lanciata negli ultimi anni dalla Marvel, del suo successo commerciale e del (a mio parere) decadimento contenutistico che a questa si accompagna.
C’è un altro fenomeno, però, che non ho potuto fare a meno di notare. Un fenomeno che nell’ambito della storia del fumetto (e dei suoi fruitori) potremmo definire come una piccola svolta epocale, in quanto ha cambiato per sempre il volto di una categoria di lettori.

Un termine inglese che negli ultimi decenni ha fatto il giro del mondo è “Nerd”.
Alla lettera, in inglese “nerd” significherebbe “scemo” o in slang “impopolare”. Ma dalle nostre parti andrebbe bene anche “secchione”. Il nerd (quello della prima ora) sarebbe in sostanza un ragazzo con una buona propensione allo studio, che magari eccelle in qualche disciplina, ma che ha grossi problemi a relazionarsi. Anzi, la sua grande passione per una materia è anche la sua croce, giacché gli fa da coperta e da tomba, escludendo ogni vero contatto umano. Da qui, la sua impopolarità tra i compagni di scuola che, nonostante i suoi buoni voti potranno definirlo un babbeo e quindi sfuggirlo per non essere appestati dalla sua natura perdente.

Secondo questo semplice riassunto, in una scuola tipo avremmo da una parte il “nerd”, cioè un povero nevrotico, e dall’altra i “normali”, cioè il fusto o la bellona, popolari sulla pista da ballo e ottima materia prima per i ghiochini del mitico Jason.

Ma questa figura sociale (il Nerd) risulta oggi quasi romantica se consideriamo le mutazioni da questa subite nel tempo sotto l’influsso del consumismo e di Internet.

Sì, Internet. Perché la rete ha permesso ai nerds di tutto il mondo di tenersi in contatto, formare comunità, uscire una volta e per tutte dall’isolamento. E trasformarsi, così, in qualcosa di molto diverso e per alcuni versi temibile.

Se la figura classica del nerd è quella del topo di biblioteca, studente modello e frana con i coetanei, oggi l’infame etichetta è applicata a chi è abitualmente un gran consumatore di letture a fumetti, conosce a menadito vita, morte e miracoli degli eroi e ne parla come se citasse il Vangelo.

Prima importante differenza: allo studio, alla passione scientifica, si è sostituito nell’accezione comune l’interesse morboso per il media fumetto a discapito della vita sociale.

Ma la cosa è ulteriormente mutata. Oggi i nerds non sono più semplici nerds. Sono COOL! Anzi, COOLNERDS! Sono (e si sentono) nerd e fighi. Sono giovani e spavaldi avventurieri del nuovo millennio, disincantati e (a loro dire) geniali. Sono i nuovi esteti della fiction e del comicdom, sono arrabbiati, sono forti, sono tanti… sono…

…insopportabili!

Aiuto, Jason!

“Nerd” era un termine negativo. Indicava la sofferenza di si barricava in un mondo fittizio (poco importa se riguardava l’ingegneria elettronica o il fumetto) per non affrontare una realtà fatta di relazioni delicate. Ma come ho accennato, è avvenuta una mutazione sociologica. La società dei consumi ha compiuto un osceno miracolo. “Nerd” non è più una parola dispregiativa, ma può essere usato per indicare una sorta di sapiente o di “arbitro delle eleganze”. I mille forum e realtà internautiche assortite hanno cementato la nascita di quello che potremmo chiamare il “Nerd Pride”, e l’avvento di nuove direzioni narrative nell’ambito del fumetto più popolare hanno aggiunto il sale alla frittata.

Prendiamo la linea Ultimate, per esempio, e il lavoro del celebrato autore inglese Mark Millar. Vediamo rinarrare dall’inizio le avventure di personaggi classici, come i Fantastici Quattro e gli X-Men. Sembra quasi un remake, una rilettura in chiave più matura delle vecchie storie. Ma a una lettura più attenta ci accorgiamo che non è affatto così. Non c’è niente di adulto nel mondo “Ultimizzato” dei supereroi. Quello che balza agli occhi, soprattutto nella serie Ultimates è che gli “eroi” si sono completamente sbarazzati del concetto di purezza. Sono vanitosi, perversi, cinici, a volte addirittura bastardi, e si muovono in un universo dove conta la sopravvivenza più che la classica lotta tra bene e male. La crisi dei valori, insomma, è diventata un modello estetico in cui riconoscersi ed esaltarsi.
Ed è triste constatare che questa sia la nuova bibbia di tanti giovani lettori.
L’apoteosi del nuovo fumetto supereroistico l’abbiamo avuta con Wanted, opera definitiva di Mark Millar, già autore di Ultimates. Millar ci racconta di un mondo dove i supercriminali hanno distrutto definitivamente gli eroi. Il male controlla il mondo e tutto ciò che conta è la mera capacità di sopraffare. In una terra imbelle, questi nuovi eroi senza principi morali, uccidono, stuprano, rubano e torturano per puro divertimento. E per la noia di un lettore ormai troppo vecchio per farsi affascinare da una trasgressione così spicciola e inconcludente. Troppo sensibile ai grandi problemi del pianeta per non rimpiangere i dubbi amletici e le umane contraddizioni del buon vecchio Uomo Ragno, ogni considerato dai Coolnerds più arrabbiati “un pipparolo senza palle” (giuro che non me lo invento).
Wanted non è neppure un fumetto sui supercriminali. E’ una versione con superpoteri de Le 120 giornate di Sodoma del marchese De Sade. Una galleria di prevaricazioni presentate come trofei del proprio essere cazzuti. E’ fuorviante anche il titolo: Wanted. Non ci sono criminali che scappano, ma che governano il mondo indisturbati. Non sono illustrate le loro ragioni, i loro punti di vista, ma solo le loro nefandezze, tutto con uno stile estremamente patinato.

L’attuale trend dei giovani lettori di fumetti si riassume con la ricetta: gioventù, spavalderia e trasgressione d’accatto. Un format in pochi anni già logoro, ma – aimé – ancora lontano dall’estinguersi . Mark Millar (apprezzabile su Authority) si è trasformato nella caricatura di se stesso come già era successo a scrittori più illustri, come Frank Miller e Garth Ennis.
Ma la trasformazione più preoccupante è quella dei nerds. Un tempo schegge impazzite, disadattati ma anche anticonformisti. Oggi consumatori omologati, sedotti dal trend, sicuri di sé e della loro estetica. Davvero un bel miglioramento.

Il buon vecchio Jason e il suo machete, oggi avrebbero a che fare con una chimera sociologica. Un ibrido inquietante tra gli svenevoli manichini affamati di sesso e divertimento degli anni ottanta e gli acritici divoratori di nuvole parlanti e pantaloni griffati. Non più assi della matematica o della lingua scritta, ma esperti adoratori della mitologia di Matrix, e della profondità estetica dei suoi due, inutili seguiti.

Benvenuti sul pianeta Terra, coolnerds. Al mondo c’è posto per tutti. Ma in un angolo del mio cuoricino, mi tengo stretto Jason Voorhees.


[Articolo di Filippo Messina]