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lunedì 2 maggio 2011

Kid Eternity di Grant Morrison


Quando c’è da addentrarsi nei meandri della mente, Grant Morrison è una garanzia. Non è un caso che le sue opere migliori siano proprio quelle di impostazione psicologica e surreale fin dal loro concepimento, mentre qualche volta questa sua tendenza al surrealismo è risultata una forzatura in opere di personaggi che avevano già conosciuto in precedenza, e mantenuto per molto tempo, un’impostazione più classica. Non è certo questo il caso di Kid Eternity, una graphic novel che riprende un personaggio Vertigo di cui da tempo si erano perse le tracce, inserendolo in un contesto decisamente fuori dagli schemi consueti del fumetto. Inoltre, la storia autoconclusiva è forse il tipo di prodotto con cui Morrison si trova più a suo agio, avendo un limite definito e una trama scritta da principio a fine in cui poter miscelare gli elementi narrativi che in quel momento gli preme trasmettere. Prova ne sia che, quando ha avuto per le mani serie di più ampio respiro, ha sempre costruito degli archi narrativi indipendenti e sganciati dal filone principale, incontrando da un lato il favore di quanti apprezzano le opere che mostrano una certa indipendenza e innovazione, ma dall’altro suscitando le ire di quanti non ammettevano che i loro eroi preferiti venissero estrapolati dal contesto in cui avevano vissuto per tanti anni di storie e catapultati in un mondo narrativo che non riconoscevano come confacente a quei personaggi. È proprio quello che è successo con gli X-Men, nel suo breve periodo di collaborazione con la Marvel, ma anche con Animal Man e la Doom Patrol, in casa DC. Kid Eternity si inserisce a pieno titolo nel numero delle graphic novel morrisoniane, per le sue caratteristiche sia narrative che grafiche. Non è un caso, infatti, che le sue opere migliori siano disegnate da autori che concepiscono il fumetto come un’opera d’arte vera e propria, al punto che ogni singola tavola, presa separatamente, non avrebbe nulla da invidiare alle opere pittoriche esposte nei più prestigiosi musei surrealisti. È stato così per Arkham Asylum, con i disegni di Dave McKean, e si ripete adesso con Kid Eternity, dove uno straordinario Duncan Fegredo ci regala, una dopo l’altra, tavole di una intensità tale da costringerci a riguardarle tutte dopo aver finito la prima lettura.


Jerry è un cabarettista che cerca di trovare la sua strada verso il successo, e per questo ha una certa familiarità con le idee di finzione e surrealtà. Ma la sua conoscenza della dimensione ultraterrena sta per diventare ben più approfondita di quanto lui stesso vorrebbe. Tutto accade una notte in cui viene coinvolto in uno strano incidente automobilistico e finisce in rianimazione in gravissime condizioni. In queste circostanze, la sua coscienza travalica il limite della realtà e finisce in una dimensione ultraterrena in cui incontra uno strano ragazzo, Kid, evanescente come un fantasma, che lo porta con sé dicendogli che ha una missione fondamentale da compiere per la salvezza dell’universo e che Jerry avrà un ruolo indispensabile in questo compito. Inizia così il viaggio dei due attraverso il mondo infernale, dove Kid è stato tenuto prigioniero per anni e dove, quando è scappato, ha dovuto abbandonare il suo maestro. In un complicatissimo intreccio di vite e situazioni, i due si confronteranno con una terribile minaccia per l’intera esistenza, quando ordine e caos si contenderanno le sorti del mondo, mondo in cui dovranno trovare posto due novelli Adamo ed Eva, investiti del compito di dare alla luce il bambino prescelto, da cui sorgerà una nuova stirpe.


Scritto e disegnato da due maestri del surreale, Kid Eternity dà una iniziale sensazione di straniamento, facendo perdere al lettore, insieme al personaggio, i punti di riferimento della realtà che lo circonda, preparandolo per gli eventi che seguiranno, in modo che non possa opporsi al dilagare di pensieri e concetti astratti che, pagina dopo pagina, si riverseranno nella sua mente, in un caleidoscopio di immagini e parole da cui difficilmente può riuscire a staccarsi prima che sia arrivata l’ultima pagina. E quando avremo finito, rimarrà un palcoscenico in penombra, vuoto, e l’eco di una domanda, che aleggia nell’aria: siamo stati all’inferno, o in paradiso?



[Articolo di Filippo Longo]

Questa recensione è stata pubblicata anche su Cose Preziose

martedì 15 febbraio 2011

Swamp Thing di Mark Millar


Alec Holland si risveglia in Perù dopo aver trascorso lunghi giorni in preda alla febbre. Un esperimento in cui ha utilizzato dei rari funghi allucinogeni lo ha sprofondato in un delirio comatoso e per qualche settimana Alec ha perso ogni contatto con la realtà. Ora sta bene, ma è turbato da un sogno particolarmente vivido. Ha sognato che un incidente di laboratorio lo aveva trasformato in una creatura vegetale conosciuta come Swamp Thing, un guardiano del mondo delle piante che ha vissuto meravigliose, terribili avventure. Il sogno adesso si è concluso e Alec sta per tornare alla sua vera vita, ai suoi studi e ai suoi amici. Ma una certa ragazza con i capelli candidi esiste davvero? E chi è lo spaventoso mostro della palude che in Louisiana sta facendo strage dei cajun in una crescente furia omicida?


Dopo la conclusione dello storico ciclo di Alan Moore, che aveva ridefinito la Cosa della Palude di Len Wein e Bernie Wrightson, gettando le basi per la nascita della divisione Vertigo presso la DC Comics, di Swamp Thing in Italia si erano perse le tracce. In America, la serie è in realtà andata avanti per anni con esiti altalenanti che hanno portato anche a una temporanea chiusura della testata. Ad Alan Moore era subentrato Rick Veitch (The One, Teknophage), degno successore del grande bardo, liquidato dalla DC in seguito alla presunta blasfemia di un episodio in cui compariva Gesù Cristo. Il timone della serie era quindi passato a Nancy A. Collins, scrittrice di romanzi horror che aveva scelto di riportare Swamp Thing alle sue originali radici di racconto gotico di stampo tradizionale. Saltando questo lungo ciclo di storie, la Planeta DeAgostini presenta oggi il primo volume di Swamp Thing di Mark Millar nella nuova collana La Biblioteca di Lucien. Sebbene la scelta editoriale sembri più quella di puntare sulla popolarità di Millar, autore qui alle primissime armi, piuttosto che riproporre nel nostro paese un personaggio dal grande potenziale, questo ritorno in fumetteria della Cosa della Palude non è privo di interesse. Mark Millar firma la prima parte del volume in collaborazione con il già famoso Grant Morrison (che nei credits di molti capitoli lo precede per diritto) e, una volta rimasto solo, riesce a portare avanti la serie senza sfigurare, regalando ai fans del mostro paludoso delle pagine discretamente suggestive.

Si tratta di un Mark Millar giovane, lontano un’eternità dallo stile provocatorio e kitsch che caratterizzerà in
 futuro titoli come Wanted e Kick-Ass. La traccia fornita da Grant Morrison nei capitoli iniziali è sviluppata in modo diligente e recupera strutture e atmosfere già presenti nell’opera di Alan Moore. Una suggestione che incontrerà più facilmente il favore dei lettori nostalgici, che ancora ricordano lo Swamp Thing del bardo di Northampton come una delle opere a fumetti più memorabili di sempre. E’ necessario mettere da parte confronti inopportuni e lasciarsi guidare da meccanismi narrativi collaudati e sempre affascinanti pur nella loro dichiarata natura di surrogato. Grant Morrison porta in scena uno psicodramma pirandelliano che scatta come una trappola catturando anche lo spettatore più distratto. Un espediente narrativo abbastanza efficace per farsi perdonare successive incongruenze e condurre per mano il lettore in un nuovo viaggio iniziatico accanto al Paludoso, tra storie di gente comune travolta dall’assurdo, devastanti lampi di orrore, ossessioni esistenziali e mistiche tenebrose. La vena allucinatoria di Morrison viene raccolta da Millar con discreta inventiva, e il volume si conclude con un ciclo surreale piuttosto intrigante per quanto imperfetto. Disegnato in larga parte da Philip Hester senza particolare inventiva, il volume offre anche i contributi di Chris Weston (Flinch) e Phil Jimenez (Crisi Infinita, Invisibles) in gustosi camei che conferiscono al tutto un sia pur contenuto valore aggiunto.

Una lettura piacevole, ma che lascia l’amaro in bocca a chi davvero ama la Cosa della Palude. Rammarico per una lunga sequenza di capitoli ignorata a beneficio di un discutibile espediente commerciale. Amarezza per il ciclo realizzato da Rick Veitch, immediato successore di Moore e autore di altissimo profilo, tuttora inedito in Italia. Forse senza speranza dopo l’apparizione in fumetteria di questo Mark Millar’s Swamp Thing, dove il nome dello sceneggiatore (in alcuni cataloghi strillato con tanto di sussiegoso genitivo sassone) relega in secondo piano protagonista e contenuti. Una pietanza, quella di Millar, non spregevole, ma che per essere apprezzata necessita della capacità di accontentarsi, tenendo presente che il piatto migliore, più appetibile e pregiato, chi sovrintende alla cucina, potrebbe non portarlo mai in tavola.


Questa recensione è stata pubblicata anche su Fumettidicarta.


[Articolo di Filippo Messina]


giovedì 6 maggio 2010

Y, l'ultimo uomo

Bastano pochi istanti, e l'intera popolazione mondiale di genere maschile è sterminata. Ogni uomo, ogni animale, tutto ciò che reca in sé il cromosoma Y è estirpato dopo una rapidissima e sanguinosa agonia. L'epidemia, inesorabile e misteriosa come una piaga biblica, non ha precedenti né spiegazioni di sorta. Soltanto Yorick Brown, un giovane aspirante escapista, è sopravvisuto al genericidio insieme alla sua scimmia cappuccina, anch'essa un maschio. Le ragioni della loro immunità sono ignote, e dovranno intraprendere un lungo viaggio attraverso un pianeta profondamente cambiato prima di svelare l'allucinante arcano che si nasconde dietro l'apocalisse del genere maschile e la loro inspiegabile resistenza al terribile male. 

 

Torna in una nuova edizione in fascicoli brossurati e a prezzo contenuto la saga di Y, l'Ultimo Uomo. Un capolavoro a fumetti nato sotto l'etichetta Vertigo della DC Comics e già pubblicato in Italia dalla Magic Press in undici volumi, oggi per lo più introvabili. Un'occasione preziosa per chi ancora non ha letto uno dei fumetti d'avventura più originali e avvincenti degli ultimi anni. Uno spunto sconcertante che nelle mani di altri sarebbe potuto diventare il concept per una barzelletta a luci rosse. Y, l’ultimo uomo ci presenta, invece,  la rappresentazione epica di un mondo squarciato, costretto a ridefinirsi declinando al femminile ogni ruolo chiave. Dalla politica fino all’ultimo gradino della scala sociale, il sessismo è stato spazzato via per lasciare spazio a un inedito precario ordine, dove l'eterno femminino guarda in uno specchio deformante, scoprendovi spesso un riflesso mostruoso quanto il fantasma dell'ormai tramontato immaginario maschilista.

Brian K. Vaughan (autore di Ex Machina e sceneggiatore di Lost) adotta per Y, l'ultimo uomo un approccio televisivo, in cui ogni capitolo svolge una funzione simile all'episodio di una serie articolata in stagioni. I misteri relativi all'epidemia, all'apparente immunità di Yorick e della sua incredibile scimmia (anch'essa caratterizzata come un personaggio straordinario), si sviluppano poco per volta, al ritmo di colpi di scena calibrati e costanti. Il protagonista, Yorick, trasformato improvvisamente in una sorta di moderno Graal che tutte cercano nella speranza di poter garantire ancora un futuro al genere umano, è un eroe atipico e dagli sviluppi imprevedibili. E’ curioso notare che il nome dell’unico sopravvissuto (datogli dal padre, appassionato delle opere di Shakespeare) non solo inizi per Y come il cromosoma fatale, ma appartenga in origine a un personaggio che compare nell’Amleto da defunto, sotto forma di un polveroso teschio. Né è casuale il nome dell’ambigua sorella del protagonista, Hero. Un nome che già di per sé annuncia conflitti non soltanto interiori. Le valenze allegoriche e satiriche dell’opera di Vaughan sono palesi. Procedendo come il Gulliver narrato da Jonathan Swift, viaggiamo con Yorick attraverso il pianeta delle donne e scopriamo poco per volta gli esiti immediati del grande cambiamento. Ogni meraviglia, ogni orrore.

Motore iniziale delle azioni di Yorick è la ricerca di Beth, l'affascinante fidanzata che durante il manifestarsi della piaga globale si trovava in Australia, lontanissima dal suo uomo. Ma ben presto, il filo rosso della storia d'amore si ingarbuglia, intrecciandosi con vicende ora tragiche ora inaspettatamente ironiche, sempre gestite con grande senso dell'avventura. I disegni di Pia Guerra sono talmente classici ed espressivi da rasentare la perfezione e si amalgamano con i dialoghi di Vaughan come se fossero opera di un unico artista.
Racconto di fantascienza, diario di un viaggio iniziatico, saga avventurosa e apologo satirico, Y, l'ultimo uomo è un fumetto che possiede molti livelli di lettura, ed è in grado di parlare a un uditorio variegato, regalando
divertimento, salti sulla sedia e persino commozione. Lo scenario post catastrofe che ricorda serial come I Sopravvissuti, riesce qui ad andare oltre l'intrattenimento e a scardinare i cliché cui i lettori più avvertiti si credono abituati. Per il lettore maschio può rappresentare l'inizio di un incubo che (lungi dal renderlo unico gallo in un pollaio) metterà la sua preziosa vita in pericolo, e lo spingerà a scoprire dentro di sé risorse che ignorava di possedere. Per le lettrici donne, può essere visto come l'ipotesi di un mondo improvvisamente sovvertito, dove il termine dell'antica guerra tra sessi non segna l'inizio di alcuna concordia, ma una nuova ondata di contraddizioni sociali e una lenta riscoperta di cosa significa davvero essere umani.
Y, l'ultimo uomo è un’opera ambiziosa che mantiene ogni sua promessa e regala una lettura piena di soddisfazioni. Una narrazione in apparenza tradizionale, il cui sapore ricorda  il tono di certi film fantastici degli anni cinquanta, ma con il brio e i dialoghi di una sensibilità scafata, e dei contenuti spesso sovversivi nella loro profondità sociologica.


Questa recensione è stata pubblicata anche su Fantasymagazine.


[Articolo di Filippo Messina]


lunedì 22 giugno 2009

The Exterminators volume 1: Vita da scarafaggi

Fa schifissimo.

Ma veramente.

Nello stesso tempo è uno dei fumetti più divertenti usciti in Italia negli ultimi anni. Un guizzo vitale che l'etichetta Vertigo (divisione per lettori maturi della Dc Comics) sembrava destinata a non avere più. Superati i fasti di Sandman e Preacher, e con Hellblazer da tempo arenato nei territori del già visto, l'ultimo prodotto di reale interesse sembrava destinato a restare Y, l'ultimo uomo, tra l’altro appena giunto alla sua conclusione. Il bel giocattolo, sorto dal lavoro di autori come Neil Gaiman, Alan Moore e Jamie Delano, negli anni aveva perso smalto. S'era inceppato in un loop commerciale ormai sempre uguale. Macchinose e sopravvalutate serie noir, ambientazioni fantasy parenti alla lontana delle saghe oniriche di Gaiman e poco altro. Sembrava che la Vertigo fosse decisamente vicina a portare in tavola la frutta.

Bene. Fingiamo per un momento che sia andata proprio così. Pensate a un bel vassoio pieno di mele, agrumi, uva e frutti esotici profumati. C'è di che avvicinarsi con l'acquolina in bocca. Poi immaginate che da quel ben di Dio fuoriesca d'un tratto un esercito di blatte grasse e in assetto da guerra. Questo è uno degli shock che potrebbero attendervi leggendo il primo volume di The Exterminators, scritto da Simon Oliver e illustrato da Tony Moore, noto — quest'ultimo — sopratutto per la serie zombesca Walking Dead. Insieme con gli orribili scarafaggi, incontrerete ratti imbizzarriti, situazioni di degrado e lordura insostenibile, individui ripugnanti, e... sì, anche qualche litro di sangue.

Nonostante il disturbo che alcune tematiche e determinate immagini possono recare, The Exterminators (pubblicato in Italia dalla Planeta DeAgostini) è davvero interessante. Una serie che mixa in modo ingegnoso il grottesco con il mistery, il racconto di suspance, l’esoterismo e la commedia.

Henry è in libertà vigilata, e il suo passato è avvolto nella nebbia. L'attuale compagno della madre gli trova un impiego come disinfestatore presso l'agenzia di cui è titolare. Il lavoro è duro, tra blatte e sorci, e i colleghi con cui Henry si trova a svolgere il suo addestramento sembrano avere tutti delle turbe psichiche. Tutti sembrano nascondere un segreto. La mente pensante della squadra, il cambogiano Saloth, effettuando degli esperimenti personali scopre che gli scarafaggi di Los Angeles hanno preso a evolversi in qualcosa di diverso. Di più intelligente. Più resistente. E bellicoso. Inoltre, l'insetticida sperimentale, fornito all'agenzia da una misteriosa ditta, sembra non aver più effetto sulle blatte, ma al contrario le rinforza accelerando l'imprevedibile mutazione. Come se non bastasse, alcuni dipendenti del servizio di disinfestazione hanno scoperto che lo strano prodotto ha un'effetto stupefacente, e ne fanno regolare uso, iniettandoselo in vena con conseguenze devastanti. E quando qualcuno di defunto torna addirittura in vita... Beh! Le ragioni per preoccuparsi superano decisamente il livello di guardia.

E' solo il punto di partenza per un racconto che alterna ironia a snodi narrativi avventurosi e squisitamente horror. Sottotrame intriganti e lenti indizi su ciò che dovrà avvenire.

Simon Oliver è l'ennesimo autore nato nel Regno Unito che ci dimostra il talento vispo degli autori europei reclutati dall'industria statunitense. Il suo curriculum è ancora breve, ma proprio il successo di The Exterminators sta regalando una vigorosa accelerata alla sua carriera di sceneggiatore. A una lettura superficiale, la sua prosa potrebbe ricordarci Garth Ennis, ma senza gli eccessi ormai stucchevoli che negli ultimi anni sono diventati lo standard dello scrittore irlandese. Oliver ci parla di putridumi, di degrado disperato e di creature infestanti dalle quali non vorremmo mai essere sfiorati. Ma riesce a farlo con un tono ironico ed entusiasmante nello stesso tempo. L'emozione e l'attesa per quanto dovrà ancora succedere cresce pagina dopo pagina, suscitando l’impazienza di leggere il volume successivo.




E' anche riconoscibile il registro televisivo del racconto (ormai lo troviamo in molte nuove serie). La narrazione per segmenti che introduce un personaggio dopo l'altro, descrivendolo in base a tasselli che si andranno serrando di capitolo in capitolo. Sembra che all'inizio Oliver avesse ideato The Exterminators proprio come spunto per una serie televisiva. Progetto che non vide la luce probabilmente per ragioni di budget. Dopo il successo in patria della serie a fumetti, la Showtime, casa di produzione nota per il telefilm Dexter, ha messo in cantiere la versione televisiva delle avventure di Henry e colleghi.

Non ci resta che preparare gli antiemetici e continuare a seguire le avventure a fumetti di questi folli disinfestatori, pronti a invadere i nostri incubi al pari di sorci e scarafaggi.



Questa recensione è stata pubblicata anche su Fantasymagazine.

[Articolo di Filippo Messina]