Gli aspetti più sorprendenti di "The Vast of Night" sono il coraggio con cui un budget praticamente inesistente è stato convertito in virtuosismo filmico (segno che a volte i limiti aguzzano la creatività), e l'audacia di affidare l'intero crescendo del racconto interamente alle voci dei protagonisti. Due personaggi centrali, pochissime location e persino lunghe conversazioni al telefono. Verrebbe da definire "The Vast of Night" un saggio sull'uso virtuoso del dialogo e dei tempi drammatici, più che un film fantastico sull'inizio di un'invasione aliena. Invasione di cui ci sarà mostrato solo la crescente inquietudine, poi frenesia e dunque paura dei personaggi. E nient'altro. Se non gli effetti della presenza extraterrestre sulla nostra realtà.
Ambientato strategicamente negli anni 50 (ma anche concettualmente, in un periodo storico fatto di tensioni internazionali e paranoia politica), il film di Patterson gioca con lo spettatore in modo scoperto, iniziando subito con una citazione esplicita dei serial televisivi d'altri tempi ("Ai confini della realtà", "Oltre i Limiti"). Sin dalla prima scena siamo invitati a entrare in un piccolo schermo in bianco e nero che presto si accenderà di colori, ma che conserverà il tono e le suggestioni di un prodotto d'altri tempi. Quando gli effetti speciali non consentivano particolari acrobazie visive e si era costretti a lavorare di allusioni, di atmosfera e di racconti paurosi. Dove erano le parole e le emozioni suggerite a dare i brividi.
"The Vast of Night" non manca neppure di interessanti invenzioni visive, come il ricorso al piano sequenza che in più occasioni attraversa in soggettiva la minuscola cittadina del New Mexico in cui la vicenda è ambientata, dandoci effettivamente consapevolezza di un centro urbano piccolissimo, abitato da poche centinaia di abitanti, divenuto a un tratto l'occhio di un ciclone destinato ad allargarsi. Due le principali location. Anzi tre, sebbene la prima venga presto accantonata. La palestra di una scuola in cui l'intera cittadina di Cayuga è riunita per assistere alla partita di pallacanestro, evento che lascia praticamente deserto il resto del borgo. La piccola radio in cui lavora come conduttore il giovane Everett, un'emittente che guarda caso si chiama WOTW (e non ditemi che non ci arrivate), e il centralino dove quella notte Fay sta lavorando da sola, e dove per prima sentirà un misterioso suono dalla provenienza indecifrabile...
In qualche modo, è bizzarro considerare come uno dei temi del film, ambientato negli anni 50, sia anche la rapida evoluzione delle tecnologie. Soprattutto quelle legate alla comunicazione e alla conservazione dei dati. La conversazione iniziale tra Everett e Fay, che commentano le notizie sui prossimi sviluppi nell'ambito dei trasporti e della telefonia, non è messo lì a caso, ma prelude proprio al progressivo salto nell'ignoto che aspetta i due protagonisti dietro l'angolo. Si faccia caso alla battuta incredula di Everett sulle future evoluzioni del mezzo telefonico, e potremmo avere un'altra chiave di lettura per l'intero film. Dalle loro parole apprendiamo che entrambi, in fondo, sono affascinati dal progresso, e ambiscono a crescere individualmente e professionalmente nell'ambito dei rispettivi campi, che riguardano sempre le comunicazioni. "The Vast of Night" è quindi un gioco di scatole cinesi in cui le voci e i mezzi di trasmissione sono i veri protagonisti. Radio, telefono, bobine, registratori. Quasi come se ci venisse suggerito che la vera conquista avverrà attraverso questi strumenti e il controllo dei principali canali di comunicazione, non grazie a raggi della morte o all'occupazione di città da parte di mostri verdi. La notte immensa, infinita, che ci circonda non è che l'incertezza per il nostro domani, e le nuove inattese minacce che potremmo trovarci ad affrontare. Siano essi extraterestri in agguato, risoluti a conquistarci, o un progresso tecnologico veloce e ambiguo. Talmente rapido e sorprendente da diventare alieno e incontrollabile a sua volta.
Insomma, "La vastità della notte" riesce a rendere tematica e fortemente allegorica la sua struttura basata sulla comunicazione verbale a causa di un budget ridottissimo. E acquista un'identità molto spiccata proprio grazie ai binari su cui deve adattarsi a correre, evitando di diventare un prodotto dozzinale che racconta una storia già narrata mille volte. Non dimentica, però, di essere comunque cinema. Usando la presenza in scena, a volte anche insistita e ossessiva, dei suoi interpreti. A volte seguiti di spalle, come se ci trovassimo lì, a tallonarli lungo un interminabile piano sequenza. In altri casi, chiamati a reggere lunghi primi piani, in cui le loro maschere rappresentano una componente visiva molto importante di quello che funzionerebbe benissimo anche solo come radiodramma. E non è un caso neppure che durante certe sequenze, lo schermo si oscuri del tutto, affidandosi alle sole parole.
Un film diverso, quindi. Strano e particolare. Sicuramente da vedere, da ascoltare, da apprezzare.
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