domenica 13 gennaio 2019

Big Bad Wolves



«Per fare paura a un maniaco... ci vuole un altro maniaco!»

Big Bad Wolves” è un thriller israeliano diretto da Aharon Keshales e Navot Papushado uscito nel 2013. Stesso anno di “Prisoners” di Denis Villeneuve, con il quale ha in comune uno spunto di base. I due film non potrebbero, però, essere più diversi per forma e sostanza, a dispetto degli elementi di contatto. Tel Aviv è insanguinata da un serial killer pedofilo che rapisce bambine, le sevizia e infine le fa ritrovare agli inquirenti i loro corpi privati della testa, che puntualmente non si trova. La polizia, per ragioni vaghe e superficiali, ritiene di avere identificato il mostro in un mite insegnante di religione, che subisce un pestaggio volto a estorcergli una confessione che non arriva. La violenza degli agenti è però scoperta e l'autorità è costretta a rilasciare il sospettato con tante scuse e a sospendere il poliziotto che ha guidato il commando ai suoi danni. Questi continuerà privatamente a perseguitare l'uomo che ritiene colpevole, ma la sua strada si incrocia con quella del padre dell'ultima vittima, deciso a farsi giustizia da solo. I due vogliono sostanzialmente la stessa cosa, ma hanno anche mentalità non proprio convergenti. E l'insegnante è veramente l'orco che cercano?

Probabilmente è grazie all'esuberanza di Quentin Tarantino, che lo ha definito “il miglior film dell'anno”, se “Big Bad Wolves” (Grossi lupi cattivi) è arrivato anche da noi. Non sarà probabilmente, secondo gli eccessi tarantiniani, il migliore film uscito nel 2013, ma è di sicuro un gran bel thriller, di difficile catalogazione e con una regia a quattro mani di grande impatto visivo. La sola sequenza d'apertura, muta, che riassume il nocciolo della vicenda da cui si svilupperà l'intero film è da antologia. Ma anche la conduzione generale del racconto non scherza. Qualcuno parla di battuta d'arresto nella parte intermedia del racconto, ma non è esatto. Si tratta piuttosto di una creatura che cambia pelle, che sfugge e che ipnotizza lo spettatore con cambi di registro decisamente inattesi. Una storia di vendetta cupissima e crudele, con pennellate di horror ascrivibile al genere abusato del torture porn, in grado di virare improvvisamente in situazioni e linguaggi grotteschi, quasi del tutto comici, in grado di suscitare anche una risata, senza però mai smorzare la tensione, ma al contrario amplificandola. Il senso generale di “Big Bad Wolves” è l'insensatezza della vendetta che lungi dal perseguire un'idea di giustizia finisce col favorire un rinnovato orrore. Ma sottintende anche un discorso satirico sulla società militarizzata israeliana, dove il clima di sospetto, di pregiudizio e di reazione violenta o quanto meno di paura tocca tutti indistintamente (la maggior parte della vicenda si svolge in un casale fuori mano dal costo bassissimo proprio perché vicino a un villaggio arabo).

E' facile scomodare Tarantino per il connubio violenza-umorismo, ma è possibile scoprire nell'opera di Keshales e Papushado anche echi del cinema spagnolo di Alex De la Iglesia e dello stesso Pedro Almodovar. Difficile definire il genere di appartenenza. Thriller, horror, commedia nera, grottesco, satirico. “Big Bad Wolves” non sarà un film perfetto. Ma è senz'altro un film da vedere, se non altro per la sua forma pressoché impeccabile. Non spettacolo per tutti, dal momento che nonostante la violenza sia contenuta e in larga parte fuori scena, questa è evocata con un uso della tensione molto forte. Un finale nerissimo, forse non del tutto imprevedibile, ma che si incastra molto bene con la logica suggerita dalla narrazione.
Homo homini lupus, come suggerisce il titolo. E questo aldilà della colpevolezza (vera o presunta) di qualcuno. Un film che paradossalmente diverte, a dispetto delle cupissime premesse, e lascia spiazzati, ma anche affascinati da una magnifica architettura cinematografica.

Da conoscere. Da scoprire.


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