martedì 5 gennaio 2016

Al telefono, al telefono...


Che dall'avvento del telefono cellulare tutti lo usino ovunque, spesso ad altissima voce, è un dato di fatto della nostra contemporaneità. Esistono, però episodi che mi fanno riflettere più di altri. Stamattina, sul bus, una signora quarantenne con auricolare, parla al telefono con voce stentorea:
«Farò così: mettero la foto del loro capodanno. Abbracciati, ridenti, ubriachi e felici. E sotto ci scriverò: "Questo era il loro dolore mentre il padre era ricoverato in ospedale a capodanno"!»
Dopo qualche minuto (che la conversazione è lunga) lo ripete altre due volte.
Poche parole, se vogliamo, ma che raccontano una storia articolata. Una famiglia in crisi. Una persona malata. Dei figli indifferenti e una madre (o altro parente) indignata e frustrata. Forse anche stanca perché lasciata sola a gestire un'emergenza.
La collera, il dolore, la frustrazione, fa fare scenate e cose sciocche. Quindi non formulo nessun giudizio sull'individuo. E' chiaro comunque che si riferisse a Facebook, e alle sue dinamiche più estreme. Facebook come strumento di ritorsione. Il concetto di privacy ormai è etereo e sfuggente. Il social è come una piazza dove qualcuno, accecato dalla rabbia, può fare una scenata. Ok. Ma mi accorgo che non abbiamo più freni anche fuori dai social. Basta un telefono e la folla di passeggeri sull'autobus scompare in una nuvola vaga. Parlo di una rinuncia alla privacy ancora più estesa di quella messa in atto dai social network. La spontanea chiusura nell'illusione di trovarsi in un proprio microcosmo, dove esisti solo tu e il tuo interlocutore dall'altro capo dell'apparecchio. E lì è la tua viva voce, la tua presenza, non quello che hai scritto, filtrato dai meccanismi della lavagna virtuale. Sei tu in mezzo alla gente. Questa non è una critica. E' un'osservazione preoccupata. Perché mi guardo intorno e mi sento sempre più in un episodio di "Black Mirror".

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