domenica 10 dicembre 2006

OMO - ETERO , YIN – YANG

 
Tra i cliché che riguardano il mondo omosessuale tutti hanno ben presente la figura della “checca”. Questo termine (e i suoi corrispettivi in altre lingue, come “queer”, “faggot”, “maricones”) indica non tanto un personaggio quanto un atteggiamento che gli individui di una determinata categoria possono assumere. E’ un’espressione negativa anche all’interno del mondo gay. Un termine che fa pensare a un uomo che col suo gestire disegna una caricatura esasperata di atteggiamenti femminili e che esterna le proprie attitudini sessuali in maniera teatrale e ossessiva.

Lo scrittore Gore Vidal nel suo (straordinario) romanzo-scandalo In diretta dal Golgota, dà una definizione della “checca” alquanto concisa e spietata. Vidal scrive: «Checca è un omosessuale che si comporta come se fosse un buco che desidera soltanto essere tappato».

Una definizione che non necessita di ulteriori approfondimenti.

Solo che allo Yin corrisponde lo Yang. Al buio la luce, al freddo il caldo. Ogni estremo ha un suo opposto, che si manifesta in una macchietta altrettanto svenevole e ridicola. Come definire, allora, chi esibisce atteggiamenti machisti ossessivi e sente il bisogno di evidenziare costantemente le proprie attitudini eterosessuali così come un pavone esibisce la coda a ruota?

Le giornate di noi tutti sono piene di conoscenti maschi che vedendo passare la strafiga di turno ci sussurranno: «Quel culo mi ha appena parlato». O che davanti a un cartone animato di Stripperella, vedendo la protagonista con le sembianze di Pamela Anderson fare il bagno in un’enorme coppa di champagne, non possono fare a meno di dirci: «E la chiami spogliarellista? Quella è una benefattrice!»

Ed è solo il minimo dell’alluvione di battute, allusioni, ammiccamenti, barzellette e volgarità assortite cui siamo stati condizionati a non fare più troppo caso.

Ma è pur vero che se esistono le checche, a far loro da contraltare troviamo quello che potremmo chiamare... testoscazzanti. Vitaliano Brancati li aveva chiamati "Galli", e "Gallismo" era il nome dato al loro bel gestire. I decenni, e le convenzioni annacquate della lingua italiana, hanno però appannato la valenza negativa di quei termini, e l'idea di galletto, nella testa di molti maschi è quasi una medaglia al valore. Niente equivoci, ragazzi. Sia chiaro che non fate una bella figura. Siete l'opposto esatto delle checche. Oggi più che galli sembrate dei cazzoni che sudano testosterone. E di testoscazzoni ne incontriamo a ogni piè sospinto, sul lavoro, in ascensore, al cinema, al supermercato. Osservandoli non ci vuole molto a concludere che se la checca è il personaggio descritto in modo tagliente da Gore Vidal, il testoscazzante è: “un eterosessuale che passa la vita a dimostrare di essere MASCHIO, rinunciando a essere UOMO”. E se le checche scheccheggiano, così i testoscazzanti d’assalto... testoscazzano. Alle volte deliziandoci con perle di saggezza del tipo: «In tempo di carestia, ogni buchetto è galleria».

L’essere umano inventa ogni giorno nuovi modi per scocciare il proprio prossimo, e lo fa in maniera trasversale, senza restrizioni di categoria o di orientamento. L’uomo è un animale politico, ma anche profondamente esibizionista. Può essere facile, quindi, sentirsi stuccare da certe esuberanze delle manifestazioni gay (in quanto tali, messe in risalto dai media e dall'occhio della persona comune). Ma basterebbe osservare dall’interno un qualunque corteo di scioperanti per scoprire un milione di altre diverse immaturità (come slogan sciocchi, insensati atti di distruzione, strepito fine a se stesso), senza nulla togliere, con questo, alle ragioni profonde che possono mobilitare gli individui.

Il Pride, dunque, perderà senso solo quando cadrà nel dimenticatoio lo “Straight Pride”, ovvero l’orgoglio eterosessuale. Che potrà non essere celebrato in massa in una precisa data dell’anno (del resto, non mi risulta che gli eterosessuali si siano mai ribellati storicamente a qualche reiterata persecuzione come, invece, è accaduto ai gay dello Stonewall nel 1969, evento ricordato proprio dal Pride), ma che è rappresentata quotidianamente, senza attirare alcuna vera critica sociale. Sul lavoro, per strada, al cinema, in auto, ovunque, si celebra “l’orgoglio dell’essere etero”, esprimendo una frenesia costante di mostrarsi “Maschi”. Spesso sguazzando in una volgarità da caserma e in un livello culturale da scuola media.

Ridicolo, svenevole, con i neuroni in apnea, il testoscazzante di turno non si rende minimamente conto di portare alta la bandiera della mediocrità. Immagine speculare della checca, forse checca a sua volta, in quanto intellettualmente passivo e sottoposto all'omologazione più becera che lo spinge ad apparire figo, spavaldo, sciupafemmine. E’ con orrore, che quest’ultima qualifica, oggi, appare anche nelle note biografiche di giovani autori emergenti che delineano così il proprio profilo pubblico. Senza critica, senza misura. Lo ricordino gli illustri giornalisti (anche di sinistra) che nel corso degli anni dalle pagine di blasonati quotidiani hanno espresso il loro scetticismo nei confronti del Pride.

Quanti si chiedono (anche tra gli omosessuali) “che cosa c’è da essere orgogliosi nell’essere gay”, farebbero meglio a ricordare uomini come Martin Luther King, come Malcom X e tutti quelli che nel corso della storia hanno dato la vita perché la gente di colore potesse avere le medesime opportunità dei bianchi. Farebbero meglio a ricordare il poeta Senghor (un tempo presidente del Senegal) e la sua invenzione del concetto di “Negritudine”. Perché valorizzare la propria identità, individuare dei simboli e costruire un senso di solidiarietà tra la propria gente? Perché manifestare il proprio modo di essere? Non siamo forse tutti uguali? Non siamo una grande famiglia felice?

Beh, forse non del tutto. E il primo eterosessuale che allegramente assegnerà un voto al sedere femminile che sta attraversando la strada suscitando soltanto sorrisi complici, ce lo dimostrerà una volta di più.


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