"Una definitiva provvisorietà". Con queste parole, concise e amare, Giuseppe Bellafiore commenta, nella sua storica guida alla città di Palermo, la miserevole edilizia che da decenni occupa in parte gli squarci aperti dalle bombe nell'ultimo conflitto mondiale. Il visitatore che giunge via mare potrebbe in effetti credere che in questo prezioso angolo d'Europa la guerra non sia mai terminata. Ne è rappresentativo il quartiere Kalsa che (da sempre specchio della miseria delle classi più umili, nonché della scomparsa dell'aristocrazia cittadina, con i suoi palazzi patrizi fatiscenti), a mezzo secolo dallo scempio bellico non ha ancora visto l'intervento del piccone demolitore e tanto meno l'auspicato risanamento. Lo spettacolo non è molto diverso se si visita l’Albergheria, dove le ferite inferte dalle bombe e dall'incuria hanno continuato a provocare la morte dei suoi abitanti fino ai nostri giorni. Così è per lo storico mercato della Vucciria, oggi agonizzante, anzi: già trucidato da una catena di scelte commerciali sbagliate e dal galoppare inarrestabile del degrado. Quella del centro storico di Palermo, è una storia infinita, ricca di rimandi come di macerie, e che sembra tuttora distante da una vera risoluzione.
Di
risanare il centro storico si parla ormai da più di trent'anni. Da
quando nel novembre del 1959, l’allora sindaco di Palermo Salvo Lima con
l’appoggio dell’assessore ai lavori pubblici Vito Ciancimino, ottenne
l’approvazione da parte del consiglio comunale, del piano regolatore
generale. Da allora violazioni al piano, saccheggi, ricatti edilizi e
distruzioni d’ogni genere continuarono per anni, sotto gli occhi
complici dell’amministrazione e fra l’indignazione della stampa e della
società civile. Dai travagli degli anni Sessanta, il centro storico di
Palermo avrà forse voltato pagina, ma la fine della sua estenuante
odissea deve ancora essere scritta. Nel frattempo, sorgono nuovi miti
urbani. E tra sogni di riscatto, esperimenti artistici e sconcertanti
invenzioni spettacolari, il centro storico continua a giacere nella sua
triste condizione di morte vivente.
Esisteva una volta, la Vucciria. Un mercato noto per il chiasso, la folla, l’abbondanza e il colore. Renato Guttuso ne cantò la musica e gli odori in un celebre quadro. Oggi, di quel leggendario mercato non restano che edifici squarciati, indifferenza, rovine e spazzatura.
In questo teatro diroccato, qualche anno fa, ha fatto la sua apparizione l’artista austriaco Uwe Jantsch, che con le sue installazioni provocatorie ha presto conquistato la ribalta cittadina, diventando uno dei personaggi più celebrati e fotografati dal turismo. Creativo a 360 gradi, pittore, scultore, ideatore di performance surreali e architetto di installazioni artistiche tra le più sconcertanti, Uwe ha preso possesso del fatiscente quartiere Vucciria come un Tarzan nella giungla. Dalla pittura dei ruderi è passato presto alla manipolazione dell’immondizia e del ciarpame rinvenuto in strada creando un Everest di spazzatura. Incredibile monumento alla decadenza, sul quale, nel corso del suo lavoro, si arrampica (spesso rischiando anche la vita) con l’agio di un ragno nella tela. Le crazioni di Uwe sono spesso occasione di affollatissime feste in piazza (l’ultima in ordine di tempo: due serate in piazza Garraffello svoltesi il 6 e il 7 Ottobre 2006). Una via di mezzo tra la l’inaugurazione ufficiale dell’opera, l’happening teatrale e una pubblica dimostrazione dell’artista, accompagnata da musica, cibo, vino, e cascate di colore sui ruderi illuminati della Vucciria. Le fatiche di Uwe, potremmo dire, ricevono un discreto consenso. La gente accorre, una buona parte di critica plaude. Le riflessioni sui perché posti all’origine dell’Himalaya del trash, sorto da mesi in piazza Garraffello a Palermo, ad ogni modo, potrebbero essere le più varie.
Pur rispettando l’estro e soprattutto l’iniziativa che Uwe ha saputo dimostrare negli ultimi anni, non posso non dirmi perplesso sugli effettivi messaggi che mi giungono dalle sue opere e dal gradimento che queste riscuotono in un’ampia fetta della cittadinanza. Non mi soffermerò sul bisogno di novità di cui la cultura Palermitana avrebbe bisogno, contro una serie di provocazioni che, di anno in anno, cominciano a ripetersi sempre uguali. Non è importante, in questa sede, ricordare quanti anni siano trascorsi dalla presentazione della “merda d’artista” di Piero Manzoni o dagli objets trouvés di Marcel Duchamp, o che l’arte moderna si nutre di provocazione ormai da tempo immemorabile, tanto d’averne ormai fatto indigestione. Parliamo di noi, della nostra città e delle sue ferite ancora aperte. La Vucciria, aimé, è morta. E anziché tentare di riportarla in vita con iniziative politiche, pratiche, e una ricerca artistica che spinga alla crescita e al risanamento, comincio a credere che ne stiamo festeggiando la definitiva dipartita.
Sei bravo, Uwe, indubbiamente. Ma io sono stanco del degrado in cui vivo, e non me la sento più di accettare che questo venga semplicemente raccolto dentro una bella cornice ammantata dal sapore dell’arte da strada. Hai voluto chiamare la Vucciria "il tuo paradiso", e affermi che quanti dicono che il quartiere sia morto si sbagliano. «Ti sembro morto, io?» hai detto una volta. Sei una delle persone più vitali che si possano incontrare, senz'altro. Ma non sei la Vucciria. Sei Uwe. E la Vucciria è, era o dovrebbe essere, una collettività di individui e iniziative differenti. Mi piacerebbe vederle esprimere un reale desiderio di cambiamento. Ogni giorno, invece, assisto allo stesso deprimente spettacolo. Vedo i palermitani del centro storico disfarsi dei propri rifiuti gettandoli a pochi metri dalla propria abitazione, appena girato l’angolo. Quasi l’intero quartiere non fosse anche casa loro. Come se il fornire un quotidiano nutrimento ai ratti non contribuisse alla rovina propria come a quella del vicino.
Cosa vuoi dire, Uwe? Il messaggio che mi arriva è che se non potremo mai uscire dal degrado in cui siamo sprofondati, tanto vale convincerci che la nostra stessa lordura è una cosa bella. E allora conviene aver fede nella nostra stessa rovina, farne un vitello d’oro da adorare, e – come recita un proverbio tuareg – “baciare la mano che non possiamo tagliare”.
Una definitiva provvisorietà, quindi. Un cerchio magico dal quale Palermo non riesce a evadere. Forse, da bravi alchimisti, potremo anche riuscire a trasformare l’immondizia in un cosa bella come un fuoco intorno al quale danzare tutti insieme. Ma questo non cambia il fatto che se non troveremo un rimedio, un giorno, quella stessa spazzatura, ci seppellirà.
OK, Uwe. A causa del mio aspetto mi chiami “il Michael Moore di piazza Garraffello”. Una cosa che a volte mi lusinga, altre mi irrita. Proprio come certa, standardizzata, cultura palermitana. Beh, questo piccolo, stolido Michael Moore siciliano ha ancora bisogno di sperare che un domani nella sua città cambi qualcosa. E tu, Uwe, tutt’oggi non sei riuscito a regalargli il sogno che sta cercando.
Esisteva una volta, la Vucciria. Un mercato noto per il chiasso, la folla, l’abbondanza e il colore. Renato Guttuso ne cantò la musica e gli odori in un celebre quadro. Oggi, di quel leggendario mercato non restano che edifici squarciati, indifferenza, rovine e spazzatura.
In questo teatro diroccato, qualche anno fa, ha fatto la sua apparizione l’artista austriaco Uwe Jantsch, che con le sue installazioni provocatorie ha presto conquistato la ribalta cittadina, diventando uno dei personaggi più celebrati e fotografati dal turismo. Creativo a 360 gradi, pittore, scultore, ideatore di performance surreali e architetto di installazioni artistiche tra le più sconcertanti, Uwe ha preso possesso del fatiscente quartiere Vucciria come un Tarzan nella giungla. Dalla pittura dei ruderi è passato presto alla manipolazione dell’immondizia e del ciarpame rinvenuto in strada creando un Everest di spazzatura. Incredibile monumento alla decadenza, sul quale, nel corso del suo lavoro, si arrampica (spesso rischiando anche la vita) con l’agio di un ragno nella tela. Le crazioni di Uwe sono spesso occasione di affollatissime feste in piazza (l’ultima in ordine di tempo: due serate in piazza Garraffello svoltesi il 6 e il 7 Ottobre 2006). Una via di mezzo tra la l’inaugurazione ufficiale dell’opera, l’happening teatrale e una pubblica dimostrazione dell’artista, accompagnata da musica, cibo, vino, e cascate di colore sui ruderi illuminati della Vucciria. Le fatiche di Uwe, potremmo dire, ricevono un discreto consenso. La gente accorre, una buona parte di critica plaude. Le riflessioni sui perché posti all’origine dell’Himalaya del trash, sorto da mesi in piazza Garraffello a Palermo, ad ogni modo, potrebbero essere le più varie.
Pur rispettando l’estro e soprattutto l’iniziativa che Uwe ha saputo dimostrare negli ultimi anni, non posso non dirmi perplesso sugli effettivi messaggi che mi giungono dalle sue opere e dal gradimento che queste riscuotono in un’ampia fetta della cittadinanza. Non mi soffermerò sul bisogno di novità di cui la cultura Palermitana avrebbe bisogno, contro una serie di provocazioni che, di anno in anno, cominciano a ripetersi sempre uguali. Non è importante, in questa sede, ricordare quanti anni siano trascorsi dalla presentazione della “merda d’artista” di Piero Manzoni o dagli objets trouvés di Marcel Duchamp, o che l’arte moderna si nutre di provocazione ormai da tempo immemorabile, tanto d’averne ormai fatto indigestione. Parliamo di noi, della nostra città e delle sue ferite ancora aperte. La Vucciria, aimé, è morta. E anziché tentare di riportarla in vita con iniziative politiche, pratiche, e una ricerca artistica che spinga alla crescita e al risanamento, comincio a credere che ne stiamo festeggiando la definitiva dipartita.
Sei bravo, Uwe, indubbiamente. Ma io sono stanco del degrado in cui vivo, e non me la sento più di accettare che questo venga semplicemente raccolto dentro una bella cornice ammantata dal sapore dell’arte da strada. Hai voluto chiamare la Vucciria "il tuo paradiso", e affermi che quanti dicono che il quartiere sia morto si sbagliano. «Ti sembro morto, io?» hai detto una volta. Sei una delle persone più vitali che si possano incontrare, senz'altro. Ma non sei la Vucciria. Sei Uwe. E la Vucciria è, era o dovrebbe essere, una collettività di individui e iniziative differenti. Mi piacerebbe vederle esprimere un reale desiderio di cambiamento. Ogni giorno, invece, assisto allo stesso deprimente spettacolo. Vedo i palermitani del centro storico disfarsi dei propri rifiuti gettandoli a pochi metri dalla propria abitazione, appena girato l’angolo. Quasi l’intero quartiere non fosse anche casa loro. Come se il fornire un quotidiano nutrimento ai ratti non contribuisse alla rovina propria come a quella del vicino.
Cosa vuoi dire, Uwe? Il messaggio che mi arriva è che se non potremo mai uscire dal degrado in cui siamo sprofondati, tanto vale convincerci che la nostra stessa lordura è una cosa bella. E allora conviene aver fede nella nostra stessa rovina, farne un vitello d’oro da adorare, e – come recita un proverbio tuareg – “baciare la mano che non possiamo tagliare”.
Una definitiva provvisorietà, quindi. Un cerchio magico dal quale Palermo non riesce a evadere. Forse, da bravi alchimisti, potremo anche riuscire a trasformare l’immondizia in un cosa bella come un fuoco intorno al quale danzare tutti insieme. Ma questo non cambia il fatto che se non troveremo un rimedio, un giorno, quella stessa spazzatura, ci seppellirà.
OK, Uwe. A causa del mio aspetto mi chiami “il Michael Moore di piazza Garraffello”. Una cosa che a volte mi lusinga, altre mi irrita. Proprio come certa, standardizzata, cultura palermitana. Beh, questo piccolo, stolido Michael Moore siciliano ha ancora bisogno di sperare che un domani nella sua città cambi qualcosa. E tu, Uwe, tutt’oggi non sei riuscito a regalargli il sogno che sta cercando.
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