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mercoledì 20 novembre 2019
A Girl Walks Home Alone at Night
"A Girl Walks Home Alone at Night" (2014) è un film horror indipendente davvero molto, molto strano. Per cominciare si tratta di una produzione statunitense, girato in America con un budget ridottissimo da una regista, Ana Lily Amirpour, inglese di nascita, naturalizzata americana ma con ascendenti iraniani. Ambientato in un'immaginaria cittadina dell'Iran, interpretato da attori iraniani e interamente recitato in lingua persiana. Una bella commistione di culture, per quanto la regista sia formata a una scuola di cinema occidentale. Il film è difficile da inquadrare. Horror? Si direbbe di sì, visto che il perno del racconto è una misteriosa ragazza paludata in uno chador che va in giro di notte da sola (come dice esplicitamente il titolo), e che se avvicina un uomo, in genere, è per morderlo sul collo e succhiargli fino all'ultima goccia di sangue. Ma non è tutto qui. La fotografia in splendido bianco e nero porta in scena un'umanità alla deriva. Un bambino, occhio dello spettatore, sempre per strada e apparentemente senza famiglia. Il protagonista, il giovane Arash, inquieto, incerto sul suo domani e anche un po' cleptomane, e suo padre, vedovo tossicodipendente, che vive con il figlio una drammatica inversione di ruoli. In una città desolata e triste, abitata prevalentemente da spacciatori, magnaccia e prostitute, il vampiro si aggira silenzioso. Quasi un simbolo di più anime dannate, in cerca di una ragione per continuare a esistere. Emblema di una condizione statica, prigioniera di una routine quotidiana che come una forma di dipendenza impedisce di iniziare a vivere davvero. Il film adotta un ritmo lentissimo e frequenti silenzi, affidati a personaggi didascalici e molto è affidato alla lettura dello spettatore. Un determinato risvolto narrativo oggi potrebbe far pensare a un ormai fin troppo citato brand cinematografico per adolescenti, ma qui siamo in un territorio affatto diverso. Un sogno prima che un film, che va vissuto e interpretato. Un'esperienza cinematografica bizzarra e sicuramente molto suggestiva.
giovedì 14 novembre 2019
Midsommar, di Ari Aster
Sono finalmente riuscito a vedere "Midsommar" di Ari Aster, film tenuto pochissimo in sala nella mia città. Del quale avevo letto poco (nel senso che avevo preferito non immergermi in troppe recensioni) proprio per arrivare alla visione del film con l'atteggiamento più neutro possibile. E devo dire che, al di là di tutto, mi ha piacevolmente colpito.
Si è parlato di folk horror, ma esiste anche un'altra definizione, meno elegante, coniata non ricordo da chi: inquietanti comunità aliene. Si è basato tutto su questa classificazione e si sono fatte similitudini ingombranti. Inevitabili, d'accordo. Ma per certi versi anche fuorvianti.
Mettendo da parte le ormai scontatissime parentele con "The Wicker Man" di Robin Hardy (ma anche "The Sacrament" di Ti West risponde in qualche modo all'appello), possiamo dire che il film di Aster si affranca da questi rimandi che lo renderebbero derivativo, e lo fa sia per forma che per intenti. Non scontati come potrebbe sembrare a una lettura superficiale. Cominciamo dicendo che "Midsommar" merita tutta la sua etichetta di horror. E questo a partire dalle primissime scene, quando la sostanza del racconto principale è ancora distante e il cuore della trama si deve ancora concretizzare. In questo, il film di Aster è nobilmente di "forma". In quanto non fa paura il cosa, ma decisamente il come. A partire dal suo prologo, che porta in scena un dramma familiare con una scansione talmente efficace da regalare i primi brividi. Il modo di narrare qualcosa che è sì prevedibile, ma che arriva allo spettatore in modo devastante per come è preparato e orchestrato. Tanto che pensavi di sapere tutto e di essere preparato, ma la tensione accumulata e la regia ti sconvolgono lo stesso. E questo non te lo potevi aspettare. Perché il racconto di Aster si basa sui sottotesti, non sulla semplice fabula. La componente più profonda di "Midsommar" sta tutta nella forte valenza allegorica del racconto e delle tappe che conducono lentamente a una meta inesorabile. Non bisogna attendersi sorprese, ma interrogarsi sul significato di quanto sta succedendo, come se stessimo analizzando uno strano, incantevole e nello stesso tempo disturbante sogno. Una parabola nerissima sui legami, sulla loro natura, sul nostro modo di gestirli, a volte di dipendere da questi. E sul concetto di sacrificio, volto ad affrancarci (forse) sia pure dolorosamente da qualcosa che ci sta lentamente uccidendo. La cosa più inquietante di "Midsommar" è che durante il racconto avremo paura, ma una volta arrivati, alla luce dei significati nascosti, forse dovremmo gioire. E' questo che sembra dirci Ari Aster, parlando di lutto, di ritualità, di scelte difficili, di morte e rinascita.
mercoledì 6 novembre 2019
The Hole in the ground
Che strana sensazione vedere "The Hole in the ground", film irlandese del 2019 diretto da Lee Cronin, credo al suo primo film, dopo avere visto "Us" di Jordan Peele. Il confronto, infatti, è quasi inevitabile, visto il tema centrale. Ma quello che salta agli occhi (e alla mente) è la grande differenza di approccio alla materia nel tradurre in chiave horror quello che è un racconto metaforico che parla di ricerca del proprio ruolo, di emancipazione, della scoperta di sé e della generale indifferenza, spesso complice di tutto ciò che frustra queste esigenze.
Sarah sta fuggendo da una vita presumibilmente fatta di violenze familiari, e le cicatrici sul suo corpo, e che traspaiono dalla sua anima sono gli unici indizi che avremo per definire un quadro che sarà affidato solo alla nostra fantasia. Con sé ha portato Chris, il figlioletto, con cui ha un rapporto molto forte, e progetta di ricostruire la propria vita da zero in una zona della campagna irlandese, lontana da tutto quello che l'ha ferita. Nel bosco vicino alla casa, però, esiste una misteriosa voragine nel terreno. Un abisso buio di cui, stranamente, nessuno parla, nero come un vuoto esistenziale. Una notte, Chris sembra uscire da solo di casa e avvicinarsi ai margini del buco nel terreno. Sarah lo ritrova immediatamente, illeso e tranquillo, ma c'è qualcosa che non va. Da quel momento guarderà il suo bambino con occhi diversi, pensando che in lui c'è qualcosa di tremendamente sbagliato...
"The Hole in the ground" non brillerà per originalità. Come dicevo in apertura, andare con la memoria a "Us" (ma ancora di più a "L'invasione degli Ultracorpi" di Don Siegel) è facilissimo. Com'è facile intuire la matrice folklorica del racconto, che si basa su una notissima leggenda irlandese nota in tutta Europa, cui persino Luigi Pirandello si è ispirato per uno dei suoi celeberrimi lavori teatrali. Il punto interessante, e la profonda differenza formale di "The Hole in the ground" rispetto a "Us" è l'assoluta avarizia del primo nel voler fornire spiegazioni delucidanti rispetto al secondo, forse fin troppo indulgente a motivare ogni dettaglio, finendo in parte col disinnescare l'atmosfera inquietante del film e la valenza ancestrale e terrifica del concetto di Doppelgänger. Nel film di Lee Cronin tutto è affidato alle immagini, splendidamente fotografate, e all'interpretazione di attori poco noti ma di straordinaria espressività (su tutti Seána Kerslak e il piccolo James Quinn Markey, capace di passare dall'essere il ritratto dell'innocenza a un'ambiguità da cardiopalma). Il tema centrale qui è l'emancipazione di una donna da una vita di abusi, il superamento dei traumi nonostante una società distratta, che tende a non accorgersi di nulla e a negare persino l'evidenza pur di accoccolarsi in un confortevole status quo. Ma anche l'affermazione di una famiglia monogenitoriale, incrollabile nonostante le apparenze grazie non solo a un forte rapporto affettivo, ma a soprattutto a un'irriducibile autodeterminazione. Il non detto fortifica il simbolismo e permette alla metafora sociale di emergere a tutto tondo. Cosa non scontata in un quotidiano omologante come il nostro, dove influenze costanti non ci rendono più più sicuri di conoscere davvero chi ci è vicino e di avere il controllo, se si è genitori, della maturazione dei propri figli.
Un film da vedere, in definitiva. E da confrontare, per riflettere su forma e sostanza. In un mondo in cui tutto è riflesso di qualcos'altro, c'è bisogno di una visione... laterale.
domenica 3 novembre 2019
Go Home - A casa loro
Finalmente visto "Go Home - A casa loro" di Luna Gualano.
Punto fermo: lo zombi cannibale canonizzato da George Romero è una metafora politica. Emiliano Rubbi, autore della sceneggiatura, e Luna Gualano, regista, questo lo sanno benissimo. E traspare da ogni singola inquadratura di questo film indipendentissimo, realizzato grazie a un crowdfunding, girato in economia e proiettato nelle sale italiane per soli tre giorni.
Punto fermo: lo zombi cannibale canonizzato da George Romero è una metafora politica. Emiliano Rubbi, autore della sceneggiatura, e Luna Gualano, regista, questo lo sanno benissimo. E traspare da ogni singola inquadratura di questo film indipendentissimo, realizzato grazie a un crowdfunding, girato in economia e proiettato nelle sale italiane per soli tre giorni.
L'innesco è semplice e molto forte. A Roma, un centro d'accoglienza profughi è oggetto di una manifestazione organizzata da gruppi di estrema destra che ne richiede lo sgombero. Scoppiano delle risse e nella mischia qualcuno lancia un candelotto di... qualcosa. Come da manuale, le cause che scatenano l'apocalisse zombi sono vaghe e ininfluenti. Quello che conta è la presenta dei morti antropofaghi e la loro insensata, famelica violenza (non troppo diversa da quella dei vivi) che assedieranno il centro in cui Enrico, un militante di destra xenofobo, troverà rifugio per non finire sbranato.
Il film di Gualano e Rubbi merita tantissimo dal punto di vista delle intenzioni, e della fantasia (volta a fare di necessità virtù) con cui porta in scena l'orrore. Anzi, diversi tipi di orrore. Magari pecca di un eccessivo didascalismo, e finisce col predicare ai convertiti, tuttavia ha molte cartucce da sparare. A differenza dei personaggi assediati del film, che in questo caso sono completamente disarmati. Il climax angosciante del dramma della costrizione, in cui tutti i feticci dello zombi movie si presentano puntualmente, è scandito anche dalle differenze e dalle divisioni interne. La solidarietà non si può mai dare per scontata, neppure tra chi condivide disgrazie amarissime. Neppure davanti a una catastrofe che mette in pericolo tutti azzerando ruoli che a quel punto sarebbero marginali. Anche questo un punto nevralgico tenuto a battesimo dal grande Romero. Gli zombi sono una massa brutale mossa solo da una fame mostruosa, ma sono le divisioni interne il reale pericolo e la miccia che farà esplodere tutto. Il ruolo emblematico di Enrico, il giovane razzista messosi in salvo grazie all'aiuto della gente che odia e che vorrebbe vedere sgombrata, non è da dare per scontato. Chi si aspetta un comune racconto di redenzione potrebbe trovarsi davanti a qualcosa di inatteso. E pessimista, in perfetta chiave romeriana. Una parabola nerissima, dove gli effetti splatter, per forza maggiore, glissano spesso sul versante visivo e si affidano soprattutto a un validissimo comparto sonoro. Girato in due centri sociali della capitale, il film si avvale anche del commento musicale di band della scena romana tra cui Il Muro del Canto. Per i mezzi a disposizione, nel complesso, un film da applaudire. E davanti al quale rabbrividire per numerosi motivi. Perché ormai lo sappiamo. Quando gli zombi sono tanti e premono contro le porte, prima o poi entreranno. E allora... sarà un bagno di sangue.
lunedì 21 ottobre 2019
lunedì 7 ottobre 2019
The Head Hunter [di Jordan Downey]
"The Head Hunter"(Il cacciatore di teste) è un bizzarro film (Fantasy? Horror?) diretto dal regista Jordan Downey nel 2018. Un film pressoché muto (i dialoghi ci sono, ma ridotti a un osso di pochi centimetri) che punta gran parte della sua durata (breve, dura poco più di un'ora) sull'atmosfera e la presenza, in sostanza, di un solo personaggio protagonista (l'attore norvegese Christopher Rygh). Un cavaliere vive isolato in una casupola in mezzo ai boschi dove, tempo prima, la figlioletta è stata uccisa da una creatura soprannaturale. La sua vita è scandita dall'attesa della vendetta e da una costante lotta contro i mostri che infestano quelle lande. Forse orchi, forse troll o altro (il film è molto avaro di spiegazioni). Qualcuno gli segnala la presenza dei mostri per mezzo di messaggi inviati su pergamena, quasi dei bollettini che segnalano la presenza di banditi ricercati, come i cartelli "wanted" del far west.
Il cavaliere, però, non è un cacciatore di taglie, ma di teste, che conserva come trofei, impalandole su pioli dentro la sua casa o su bastoni nel campo circostante. Le sue battaglie contro le creature mostruose sono tutte tenute rigorosamente fuori scena. Quella che ci viene narrata è la sua quotidianità, tra uno scontro sanguinoso e l'altro. Il cavaliere torna ogni volta con una nuova testa mostruosa da aggiungere alla sua macabra collezione. Cura le proprie ferite con erbe e pozioni magiche (veramente magiche!) e attende l'incontro finale con il suo antico nemico. Giorno dopo giorno, i suoi rituali diventano per noi familiari. Finché qualcosa non andrà storto. Tremendamente storto...
"The Head Hunter", con la sua narrazione minimalista, i suoi lunghi silenzi e lo sconcertante finale, potrebbe dare l'idea di un cortometraggio allungato oltre misura. Eppure sarebbe ingeneroso giudicarlo così. Il film di Jordan Downey, che si era fatto notare nel 2013 con l'horror comedy "Thankskilling", con protagonista un tacchino demoniaco, è un vero dipinto vivente. Un film dove i silenzi, la fotografia, i dettagli, il sangue e l'attesa dell'inevitabile, contribuiscono a plasmare un'esperienza cinematografica totalizzante, che non ha bisogno delle parole per essere completa. Un piccolo gioiello da ammirare con attenzione.
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lunedì 8 luglio 2019
Alla fine John muore
“John Dies at the end” (“Alla fine John muore”) è un film di Don Coscarelli uscito nel 2013 e inedito da noi. Don Coscarelli è noto agli appassionati per la sua filmografia ridotta e le uscite molto dilazionate nel tempo. Il suo nome è ricordato soprattutto per la saga “Fantasmi” (iniziata nel 1979) e il delizioso “Bubba Ho-Tep” del 2002, tratto dal racconto di Joe R. Landsdale e interpretato da Bruce Campbell.
All'origine
di “Alla fine John muore” c'è il fenomeno letterario firmato da
David Wong (pseudonimo di Jason Pargin), un blog novel realizzato a
puntate quasi per gioco, divenuto un caso grazie al passaparola e
infine arrivato su carta nel 2009 (in Italia è pubblicato da
Fanucci).
Il
genere non è facilmente classificabile. Horror? Grottesco?
Fantascienza? Se rammentiamo il tono fortemente onirico del film
“Fantasmi”, sarà facile capire perché Coscarelli è stato
attratto dal romanzo di Wong come uno spillo da una calamita. E
questo nonostante la versione cinematografica adatti una minima parte
dei tanti eventi folli che formano il libro. Ed è tutto dire, perché
il film di Coscarelli non dà tregua, e realizza un beffardo incubo
sulle montagne russe in cui splatter, assurdità e comicità, si
susseguono per la durata (in fondo contenuta) di un'ora e mezza.
Leggere
il romanzo di Wong è un'esperienza psichedelica che il film riesce a
condensare con un ottimo ritmo, grazie anche alle performance di
attori di spicco tra cui si segnalano Paul Giamatti e Clancy Brown in
due ruoli di supporto ma fondamentali. Dialoghi deliranti, strane
droghe che conferiscono bizzarri poteri, mostri, metamorfosi, minacce
lovecraftiane, armi improbabili, stati alterati della percezione e un
vortice di situazioni di una comicità crudelissima. Una sarabanda in
cui l'eroismo non esiste, ma l'unica vera arma contro l'apocalisse
sembra essere l'irriducibile capacità di riderle in faccia.
Sì,
ridere in faccia all'apocalisse. Si può fare.
Un
piccolo grande film bizzarro, tratto da un altrettanto bizzarro
romanzo, che ovviamente in Italia non è stato distribuito. Se
potete, e vi va, recuperatelo. Anzi, leggete anche il libro (quello
lo trovate più facilmente). L'effetto è quello di una scarica di
adrenalina e di un'esplosione di fantasia a briglia sciolta che in
certi tratti provoca pure il mal di mare. Ma ubriaca, al punto che ne
vorremmo ancora. Una piccola gemma che conferma Don Coscarelli un
artigiano artistoide di grande caratura che fa solo quello che gli
va. E forse proprio per questo è così poco prolifico.
lunedì 13 maggio 2019
Resolution (2012) di Justin Benson e Aaron Moorhead
“Resolution” (2012) è il film
horror che ha segnato l'esordio del duo Justin Benson e Aaron
Moorhead, che si sarebbero fatti notare da un pubblico più vasto un
paio d'anni più tardi con il popolare (e altrettanto bizzarro)
“Spring”, da molti definito una sorta di “Twilight per adulti”.
Ma il debutto avvenuto con “Resolution”
è ancora più indie, ancora più strano e sotto certi aspetti
controverso. Un film indipendente fino al midollo, essenziale e
girato benissimo con un pugno di attori e poche location rimediate.
Non c'è da soprendersi che, a differenza di “Spring”, ambientato
sullo sfondo degli splendidi paesaggi pugliesi e forte di una vena
romantica, abbia avuto una distribuzione molto più limitata, e per
quanto i consensi non siano mancati, riceva anche bocciature da chi
non è interessato a leggere i sottotesti nascosti (ma neanche tanto,
in fondo) dietro la sua narrazione ellittica e la confezione da
budget limitato.
Michael e Chris sono amici
dall'infanzia. Michael oggi è un uomo sposato, che lavora come
grafico e ha una vita anonima, ma che procede senza troppi scossoni.
Chris invece conduce un'esistenza deragliata. E' un tossico dedito al
consumo di crack e ha imboccato un cammino autodistruttivo senza
ritorno. Un giorno, Michael riceve via mail un collage di video che
mostrano Chris in un luogo sperduto, intento a drogarsi e a compiere
azioni sconnesse in palese stato di alterazione. Michal decide così
di cercare il vecchio amico, raggiungerlo nella casupola in mezzo ai
boschi in cui si è rifugiato e imporgli una settimana di astinenza
nella speranza di persuaderlo a entrare in riabilitazione. E'
l'inizio di una settimana da incubo, in cui la convivenza tra Chris,
incatenato a una tubatura, e Michael nel vecchio casolare susciterà
l'attenzione di una presenza invisibile la cui natura e le cui
intenzioni sono tutte da stabilire.
“Resolution” (Risoluzione, inteso
anche come “Soluzione” o “Traguardo”) non è un film per
tutti. Ed è un film che porta in modo riconoscibilissimo il marchio
che Benson e Moorhead hanno definito con le loro opere successive.
Come “Spring” è un horror e nello stesso tempo non lo è. E' un
film indipendente che gioca con determinati spunti, ma li sovverte,
li declina in modi inconsueti e trasforma quello che ci si potrebbe
aspettare in altro. In un contesto povero, in cui tutto è affidato
alla recitazione (ottima!) dei due protagonisti, impegnati a lottare
psicologicamente e a volte fisicamente in nome di un'antica amicizia,
la trama dichiaratamente soprannaturale si insinua in modo subdolo,
prendendo in prestito elementi dal cinema di genere e creando un
puzzle allegorico che non condurrà a nessun effetto speciale, a
nessuno spauracchio fotografato in campo. E sarà lo spettatore,
sorpreso o sgomento a seconda delle sensibilità, a dover dare un
senso al racconto.
casa nel bosco”. Parliamo qui non del film di esordio di Sam Raimi, ma del remake di “Evil Dead” realizzato da Fede Alvarez nel 2013. Anche lì il McGuffin iniziale era il tentativo di riabilitazione di un'amica tossicodipendente, e l'infelice scelta di rifugiarsi in una magione fatiscente in mezzo al nulla, già teatro di drammi stregoneschi e dove si trovava nascosto il famigerato libro dei morti. In “Resolution” abbiamo echi di tutto questo, ma in una forma molto più stilizzata. E' chiaro che nella casupola cadente in cui si svolge lo psicodramma tra i due amici sono avvenuti fatti terribili, e che molte tracce, confuse ed enigmatiche, sono seminate in ogni angolo. Avvertiamo echi di found footage, con il ritrovamento di supporti visivi e audio (che ci ricordano, questi, l'originale “Evil Dead”). Ma chi si aspetta la macelleria grottesca di quella scuola, resterà deluso. Ancora più sfumati sono i riferimenti a “Quella casa nel bosco”, film di Drew Goddard del 2012, pellicola riuscita che cercava di dare un senso globale a corsi e ricorsi di tanto cinema di genere. Ma nella sua povertà formale, nella sua essenzialità, “Resolution” forse va anche oltre. Innanzitutto perché rifugge da spiegoni e preferisce suggerire. Ma anche per la scelta di affidare solo all'atmosfera, alle aspettative e alla stessa intuizione dello spettatore, la risoluzione di cui parla il titolo.
Il racconto, che si sviluppa in pochi
giorni, è irto di tracce, di sospetti, di teorie e di personaggi che
fanno apparizioni fugaci. Le informazioni fornite sono soltanto delle
esche su cui lavorare di fantasia. Come dice il personaggio (forse
quello più inquietanti di tutti) dell'antropologo: «Un aborigeno
australiano non sa niente di alieni, fantasmi o demoni. Ognuno dà il
nome che vuole all'infinito.» E contemporaneamente fa un gesto,
tocca qualcosa, mostra qualcosa che potrebbe essere rivelatore della
metafora alla base del film.
Chi è dunque il mostro, il demone, il
fantasma, la presenza diabolica (o come sceglierete di chiamarla) che
manipola le vite dei protagonisti e di quanti girano loro intorno?
Che ha scelto una vecchia casa in mezzo ai boschi come teatro, e
sembra suggerire più che causare diversi snodi alla vicenda? E
perché tutto sembra ruotare intorno al personaggio di un tossico, di
un fattone che non vuol saperne di interrompere la sua corsa verso
l'autodistruzione? Siamo sicuri che sia soltanto un pretesto? Tra
presenze di redneck criminali, nativi americani dai modi enigmatici,
ambigui venditori porta a porta, sette religiose e scienziati che più
pazzi non si può, “Resolution” sembra mischiare le carte di un
gioco da tavolo e invitare chi guarda a trovare la soluzione del
rompicapo. Anzi, la sua risoluzione.
Un esercizio di cinema essenziale che
Benson e Moorhead continueranno in seguito con “The Endless”(film di cui sono autori, registi e
anche interpreti), che
non è un seguito di “Resolution”, ma che in qualche modo ne
riprende alcuni temi. Un cinema indipendente che usa il genere horror
per parlare di stili, di narrazione e rapporto con le storie che
siamo abituati ad ascoltare. Con quello che vogliamo, ci aspettiamo,
desideriamo davvero ascoltare, vedere, assistere.
Un cinema della suggestione, più che
horror. Grande nella sua piccolezza formale, e a suo modo coraggioso.
domenica 20 gennaio 2019
Suspiria di Luca Guadagnino (Spoiler)
"Suspiria” di Luca Guadagnino è un film discretamente discusso, ma che evidentemente ha suscitato la curiosità di pochi. Non si capirebbe, altrimenti, la pessima distribuzione nelle sale italiane e i risultati poco confortanti al botteghino. Ci sarebbe da dire “peccato”. E non perché siamo davanti a un film imprescindibile, ma perché l'esperimento si dimostra interessante e stimola una riflessione trasversale sul cinema e la narrazione in generale.
Per parlarne davvero sarà necessario qualche spoiler, e questo dovrebbe già segnalare quanto sia ampia la distanza tra il lavoro di Guadagnino e l'opera di Dario Argento cui si ispira. Ma per iniziare è opportuno spendere prima qualche parola sul concetto di remake, termine che nel corso dei decenni è andato cambiando significato, diventando sempre più vago e a volte ingannevole.
La
pratica del remake è in realtà vecchia quanto il cinema stesso.
Hollywood ha sfornato un'infinità di riletture in cui registi e star
di grido gareggiavano con le precedenti versioni per carisma e
allestimento. Per molto tempo, per remake si è intesa una nuova
narrazione della medesima storia, magari aggiornata ai propri tempi,
ma portando in scena gli stessi personaggi e seguendo dinamiche molto
simili al prototipo. Nella maggioranza dei casi, rigirando anche le
scene salienti del film precedente, solo fornendone una diversa
interpretazione dal punto di vista tecnico e registico. Un differente
approccio, insomma, a una narrazione in cui si rimaneva comunque
discretamente fedeli al soggetto originale se non alla sceneggiatura.
Nel tempo, la pratica del remake si è andata gradualmente
allontanando da questa ricetta per esplorare altri stili di
rinarrazione. In molti casi a rimanere riconoscibile è solo lo
spunto, mentre i personaggi e la trama prendono strade indipendenti.
Negli ultimi decenni, con qualche eccezione, abbiamo visto arrivare
sullo schermo sempre meno esempi della prima tipologia di rifacimenti
e prendere piede la pratica della più libera variazione sul tema.
Sarebbe
questo il caso del “Suspiria” di Luca Guadagnino? Beh, sì e no.
E
poco altro. Sì, ma direi che è sufficiente. Uno spunto e delle
icone che bastano a fare del film di Guadagnino una personale
fantasia che prende le mosse da un'opera precedente, ma per dire
altro. O meglio, per portare a casa uno spettacolo cinematografico di
tipo diverso.
Horror
sì? Horror no? Siamo sicuri che questa domanda oggi abbia ancora
senso? La maggior parte degli horror più riusciti, ultimamente, sono
quelli che riescono a travalicare il genere e a ibridarne più d'uno.
In “Suspiria” di Guadagnino abbiamo del sangue e alcuni lampi di
orrore, ma più concettuali che prettamente visivi come nel prototipo
di Dario Argento. Inoltre, qui la storia, per quanto criptica e piena
di sottintesi forse non del tutto centrati, c'è e si fa sentire.
Come si fanno sentire e hanno corpo e anima le streghe, che nel film
di Argento svolgevano solo un ruolo di McGuffin volto a portare in
scena i loro spettacolari delitti. Qui c'è la danza, molto più
presente e tematica che nel “Suspiria” del 77. Una danza che
diventa anche strumento di stregoneria, usata per dare la morte.
In
sostanza, potremmo dire che forse Guadagnino suggerisce questo. Ecco
la trama che mi sarebbe piaciuto scoprire dentro l'ossatura del film
di Argento. Film, ricordiamo, che per quanto cult, per quanto
celebrato (successivamente, ai suoi esordi la critica lo distrusse),
è un'opera che vive di puro virtuosismo formale, laddove il film di
Guadagnino punta su simboli, recitazione, e trama. Una trama non
nuovissima, per carità. Anzi, già vista e riconoscibile come
palinsesto in mille altre occasioni. Le lotte intestine a una
congrega di streghe che si contendono la leadership e
l'identificazione di una prescelta è discretamente sfruttata. Al
punto che qualche parentela potremmo individuarla anche nella terza
stagione della serie TV “American Horror Story: Coven” o nel film
“The Craft” (in italiano “Giovani streghe”). Anche lì
(SPOILER) a emergere trionfante e a rivelare il crisma di strega
suprema è il personaggio presentato inizialmente come il più
innocente. Nel caso di “Suspiria” è Susie, che se nel film di
Dario Argento è l'artefice della sconfitta della strega Markos, qui
si dimostra essere la vera incarnazione dell'antica parca venuta a
rivendicare il titolo che le spetta di diritto. Ma anche qui, come
spesso succede con le storie, a contare non sono tanto i fatti quanto
la forma che li esprime. E Guadagnino confeziona un film forse non
perfetto, ma a suo modo riuscito, grazie anche alle ottime
performance (su tutti una camaleontica Tilda Swinton impegnata in ben
tre ruoli) e ai sottotesti (confusi ma intriganti) che echeggiano la
stagione del terrorismo tedesco di estrema sinistra. Alle azioni
della Rote Armee Fraktion, si contrappone infatti l'intellighenzia
(altrettanto truce, ma più occulta e meditata) delle streghe, a loro
modo portatrici di un pensiero anarchico, svincolato dai concetti di
bene e di male come li conosciamo, e rivolti a una visione tutta
femminile dell'esistenza. Più che perverse, le streghe di Guadagnino
sono amorali, e sfidano il sistema (e il potere maschile) a modo
loro, pur scadendo nell'eterna lotta per la supremazia, Eva contro
Eva, vero punto debole della congrega che sarà (forse) risolto dalla
rivelazione della vera prescelta. E' la rappresentazione di un potere
antico che potrebbe fare tantissimo, ma che in mani umane cede
inevitabilmente al peccato originale dell'individualismo. Una deriva
che solo la natura stessa, unico vero potere incrollabile, potrà
arrestare.
A
questo punto, anche la domanda “remake o no?” perde importanza.
Luca Gudagnino ha attinto alle suggestioni di un film che
evidentemente lo ha colpito, ispirandogli la sua storia e la sua
rappresentazione filmica del concetto di strega. Le storie e il modo
di raccontarle, al cinema e in altri media, funzionano spesso come un
virus. Si attaccano alla fantasia, e spesso mutano generando qualcosa
di simile e nello stesso tempo peculiare. Non è male questo. Storie
e immaginari si parlano, fanno l'amore e a volte generano pure dei
figli. Anche dei nipoti se è per questo. E mi piace ricordare che
Dakota Johnson, riscattata in questo film dal ruolo rivestito nella
serie cinematografica di “50 sfumature”, è la figlia
dell'attrice Melanie Griffith, e quindi la nipote di Tippy Hedren,
indimenticabile protagonista de “Gli Uccelli” di Alfred
Hitchcock.
Per
concludere, fare paragoni tra i due film non sarebbe sano. Non
parliamo solo di due diversi registi e di due pellicole dallo stesso
titolo, ma con intenti diversi. Parliamo anche di tempi diversi. Di
concezioni diverse non soltanto dell'horror, ma del cinema stesso. Ma
di cinema si tratta. Sempre e comunque. E per una volta l'intento è
una sperimentazione artistica, una personale rivisitazione di una
suggestione storica, e non un progetto meramente commerciale.
domenica 13 gennaio 2019
Big Bad Wolves
«Per fare paura a un maniaco... ci
vuole un altro maniaco!»
“Big Bad Wolves” è un
thriller israeliano diretto da Aharon Keshales e Navot Papushado
uscito nel 2013. Stesso anno di “Prisoners” di Denis
Villeneuve, con il quale ha in comune uno spunto di base. I due film
non potrebbero, però, essere più diversi per forma e sostanza, a
dispetto degli elementi di contatto. Tel Aviv è insanguinata da un
serial killer pedofilo che rapisce bambine, le sevizia e infine le fa
ritrovare agli inquirenti i loro corpi privati della testa, che puntualmente non
si trova. La polizia, per ragioni vaghe e superficiali, ritiene di
avere identificato il mostro in un mite insegnante di religione, che
subisce un pestaggio volto a estorcergli una confessione che non
arriva. La violenza degli agenti è però scoperta e l'autorità è costretta a rilasciare il sospettato con tante scuse e a sospendere il poliziotto
che ha guidato il commando ai suoi danni. Questi continuerà
privatamente a perseguitare l'uomo che ritiene colpevole, ma la sua
strada si incrocia con quella del padre dell'ultima vittima, deciso a
farsi giustizia da solo. I due vogliono sostanzialmente la stessa
cosa, ma hanno anche mentalità non proprio convergenti. E
l'insegnante è veramente l'orco che cercano?
Probabilmente è grazie all'esuberanza
di Quentin Tarantino, che lo ha definito “il miglior film
dell'anno”, se “Big Bad Wolves” (Grossi lupi cattivi)
è arrivato anche da noi. Non sarà probabilmente, secondo gli
eccessi tarantiniani, il migliore film uscito nel 2013, ma è di
sicuro un gran bel thriller, di difficile catalogazione e con una
regia a quattro mani di grande impatto visivo. La sola sequenza
d'apertura, muta, che riassume il nocciolo della vicenda da cui si
svilupperà l'intero film è da antologia. Ma anche la conduzione
generale del racconto non scherza. Qualcuno parla di battuta
d'arresto nella parte intermedia del racconto, ma non è esatto. Si
tratta piuttosto di una creatura che cambia pelle, che sfugge e che
ipnotizza lo spettatore con cambi di registro decisamente inattesi.
Una storia di vendetta cupissima e crudele, con pennellate di horror
ascrivibile al genere abusato del torture porn, in grado di virare
improvvisamente in situazioni e linguaggi grotteschi, quasi del tutto
comici, in grado di suscitare anche una risata, senza però mai
smorzare la tensione, ma al contrario amplificandola. Il senso
generale di “Big Bad Wolves” è
l'insensatezza della vendetta che lungi dal perseguire un'idea di
giustizia finisce col favorire un rinnovato orrore. Ma sottintende
anche un discorso satirico sulla società militarizzata israeliana,
dove il clima di sospetto, di pregiudizio e di reazione violenta o
quanto meno di paura tocca tutti indistintamente (la maggior parte
della vicenda si svolge in un casale fuori mano dal costo bassissimo
proprio perché vicino a un villaggio arabo).
E'
facile scomodare Tarantino per il connubio violenza-umorismo, ma è
possibile scoprire nell'opera di Keshales
e Papushado anche echi del
cinema spagnolo di Alex De la
Iglesia e dello stesso Pedro Almodovar. Difficile definire il genere
di appartenenza. Thriller, horror, commedia nera, grottesco,
satirico.
“Big Bad Wolves” non
sarà un film perfetto. Ma è senz'altro un film da vedere, se non
altro per la sua forma pressoché impeccabile. Non spettacolo per
tutti, dal momento che nonostante la violenza sia contenuta e in
larga parte fuori scena, questa è evocata con un uso della tensione
molto forte. Un finale
nerissimo,
forse non del tutto imprevedibile, ma che si incastra molto bene con
la logica suggerita dalla narrazione.
Homo
homini lupus, come suggerisce il titolo. E questo aldilà della
colpevolezza (vera o presunta) di qualcuno. Un film che
paradossalmente diverte, a dispetto delle cupissime premesse, e
lascia spiazzati, ma anche affascinati da una magnifica architettura
cinematografica.
Da
conoscere. Da scoprire.
mercoledì 31 ottobre 2018
Jeffrey Dahmer: An Artistic Portrait (by ShivaProduzioni feat. Altroquando)
Una collaborazione di cui sono onorato. Shiva Produzioni esplora la storia di Jeffrey Dahmer in senso transmediale, senza trascurare il fumetto (il graphic novel di Def Backderf "My Friend Dahmer"). Se vi affascina l'argomento serial killer, questo corposo documentario, cui sono felice di avere contribuito, è pane per i vostri denti.
martedì 30 ottobre 2018
Witch Doctor: tra Lovecraft e Harry Potter
Buon Halloween, terrestri. Ecco a voi Witch Doctor, di Brandon Seifert e Lukas Ketner. Un fumetto horror caciarone che realizza un curioso cocktail, mixando atmosfere alla Lovecraft con un mondo soprannaturale che ricorda quello immaginato da Joanne K. Rowling per Harry Potter. Ecco a voi il medico stregone per la cura delle malattie soprannaturali. Tra le malattie che cura ci sono la possessione demoniaca, il vampirismo e... l'Apocalisse.
domenica 9 settembre 2018
Lake Mungo
In queste sere di fine Estate, mentre
il caldo, mio grande nemico, continua a posticipare la sua ritirata,
sono tornato a dedicarmi a una delle mie passioni più inveterate: la
visione di film horror, possibilmente scelti tra titoli poco noti e
potenzialmente portatori di sorprese.
Eccomi dunque affrontare la visione di
“Lake Mungo”, film australiano del 2008, inedito in
Italia, ma del quale avevo sentito parlare solo bene. Il film è un
mockumentary, cioè un falso documentario. Non un found footage, non
un Pov. Siamo lontani dal concetto dei filmati amatoriali ritrovati
per caso che narrano un'esperienza in prima persona secondo il
modello di “The Blair Witch Project”. Qui siamo in
presenza di un finto documentario fatto e finito. Composto da
interviste, filmati di repertorio, vecchie foto, testimonianze, e –
inevitabilmente, sì – anche qualche video amatoriale dalle
immagini traballanti. La cornice potrebbe essere quella di un
programma ascrivibile al giornalismo-spettacolo, ma senza la presenza
di un anchor-man in video. “Lake Mungo” non esce mai dagli
argini formali che si è imposto, e il suo ritmo è dilatato,
costruendo il racconto di una testimonianza alla volta, una scoperta
alla volta. La storia è innescata dalla morte improvvisa di
un'adolescente, Alice Palmer, che annega in un lago durante una gita
con la famiglia. Già, di cognome fa Palmer. E il suo nome non può
che far pensare a una citazione d'autore, e infatti è così. Tutto
parte come un dramma familiare canonico, ma mentre genitori e
fratello minore, affrontano il difficile cammino del lutto, in casa
si comincia ad avvertire qualcosa di strano. Una presenza. Iniziano
gli incubi. Gli improvvisi avvistamenti. E a un certo punto qualcosa
si manifesta in foto e filmati...
Credo che “Lake Mungo” sia
la più bella e terribile ghost story degli ultimi vent'anni. Un film
che parte da un presupposto che più classico non si può per virare
improvvisamente (con inattese sterzate da mal di mare) in territori
che non ci si aspetta. In apparenza un piccolo film, tra l'altro
abbastanza statico per lo stile documentaristico che adotta. Una
narrazione fatta di parole, senza sangue né salti sulla sedia.
Eppure, a visione completata, quando tutti i pezzi del puzzle sono
andati al loro posto, ci si accorge di essere rimasti profondamente
turbati. “Lake Mungo” è davvero una strana
creatura cinematografica. E' un dramma ed è un horror (ma anche un
thriller psicologico) che alterna la marcia tra questi due generi
mutando registro più volte. E' un film sul lutto, e sulle
consolazioni che il paranormale in qualche caso potrebbe offrire. Ma
è anche un formidabile esercizio di regia, che ammirato nella sua
completezza si dimostra perturbante come poche altre pellicole. Una
storia sul rapporto tra vivi e morti che nel finale (fortemente
metaforico) comunica, insieme a una profonda inquietudine, una
sensazione di tristezza devastante. Gli ultimi secondi di film, con
le loro rivelazioni, inducono a riguardare alcune scene alla luce di
una nuova consapevolezza. E notare quello che a una prima occhiata
non si era visto, distratti da una regia maliziosa, fa davvero gelare
il sangue. Se non fosse che a quel punto, a film finito, non si sa
più se avere paura o piangere.
Il concetto di fantasma, inteso come
archetipo del terrore, è da ricondurre sostanzialmente alla domanda
“cosa c'è dopo la morte?”. La paura di incontrare qualcuno di
trapassato, anche se un proprio caro, è quella di trovarsi in
presenza di un gancio con l'aldilà. Qualcuno che in teoria potrebbe
portarci con lui oltre quella soglia sconosciuta. La paura dei
fantasmi è in realtà paura della morte stessa. E in “Lake
Mungo” questo concetto viene ulteriormente affermato, con un
twist agghiacciante e nello stesso tempo disperato che lascia lo
spettatore con ulteriori domande sulla tragica morte di Alice.
E' anche un dramma sulla comunicazione
tra familiari. Meglio, sulla difficoltà (o impossibilità) di
comunicare e sulle sue nefaste conseguenze. Un dramma sulla
solitudine dei vivi quanto dei morti, tra i quali potrebbe, in un
certo senso, non esserci troppa differenza.
“Lake Mungo” è un film
bellissimo e strano. Sicuramente poco commerciale e di fruizione non
facile per un pubblico generalista. Il fan horror di ultima
generazione potrebbe non riuscire ad arrivare a metà pellicola,
liquidandola come noiosa e priva di mordente. Sarebbe un gravissimo
errore. Perché pochi film, sia pure solo dopo che i titoli di coda
sono terminati, lasciano una tale sensazione di smarrimento. Se
parliamo di orrore, orrore del quotidiano, orrore del vivere (e del
morire), “Lake Mungo” è di sicuro un piccolo capolavoro.
martedì 14 agosto 2018
"The End? L'inferno fuori" di Daniele Misischia
“The End? L'inferno fuori”
dell'esordiente Daniele Misischia è un film italiano di genere. Ok.
Partiamo da questo dato scontato. E cioè che dopo un lungo silenzio,
qualcuno in terra italica torna a percorrere quei sentieri
dell'immaginario perturbante che nel nostro cinema è stato
consegnato alla storia da nomi del calibro di Dario Argento e Lucio
Fulci (ma prima ancora arrivò Mario Bava), soprattutto negli anni
70 e in parte negli 80. Tempi eroici in cui dire “di genere”
aveva una valenza diversa da quella odierna. Principalmente
dispregiativa. E in cui venivano prodotte pellicole di una genialità
artigianale che spesso sarebbero state rivalutate solo dopo un lungo
e colpevole atteggiamento di sufficienza culturale. Il film di
Misischia (esordiente alla regia sul grande schermo, ma già rodato
alla scuderia dei Manetti Bros) subisce l'ennesima angheria di essere
distribuito a Ferragosto, per di più insieme a blockbuster con i
quali la partita al botteghino è impari in partenza. E proprio per
questo, pur con tutte le sue imperfezioni, è un film che si dovrebbe
scoprire, godere e valorizzare. Sempre che – elemento necessario –
siate cinefili e soprattutto amiate l'horror. O quel tono di
sufficienza, molto anni 70, potrebbe tornare a mordervi come gli
zombi di cui stiamo per parlare. Sì, perchè il film di Daniele
Misischia si basa tutto su un'idea e sulla tecnica per fare di un
limite virtù. E sono sforzi che bisogna sapere apprezzare.
“The End? L'inferno fuori”
è un film horror, dunque.
Anzi, uno zombi-movie, di quelli che ormai fanno etichetta a sé. Ma
è anche un esercizio di stile che combina più sottogeneri, tutti
ascrivibili alla categoria più ampia del thriller.
Il film vive inteamente
nel suo spunto di partenza. Un apocalisse zombi (o di infetti furiosi
e cannibali, ormai non importa più). Un uomo intrappolato in uno
spazio angusto. Una serie di eventi terrificanti che si succedono al
di fuori, e di cui c'è dato scoprire solo il punto di vista del
protagonista. Quello offerto dalla finestra ricavata dalle ante
semiaperte di un ascensore bloccato tra
due piani. Rifugio e nello
stesso tempo strumento di tortura, che porta lo spettatore a
chiedersi dove sarebbe effettivamente meglio trovarsi? Se in trappola
con il protagonista o fuori, alla mercé di un'orda di zombi
famelici. Se in fuga là dove
si può essere
sbranati a ogni angolo o rinchiusi dove con molta probabilità si
farà la fine del topo.
Potremmo
definire questo sottogenere, un “punto di vista relativo”. Una
narrazione classica ridotta alla visione soggettiva e parziale di un
personaggio defilato. Un po' come nel film “Cloverfield”,
dove la classica invasione del mostro gigante che mette a ferro e
fuoco una città è raccontata
attraverso gli occhi di un pugno di cittadini ignari di quanto sta
succedendo, quasi venisse
data voce alle comparse che
si solito si limitano a correre urlando.
Inevitabile è anche pensare
a “Buried”,
film interamente ambientato
nel chiuso di una cassa dove
un uomo, sepolto vivo, cerca di darsi aiuto con un telefono e pochi
altri arnesi. Il tutto collocato nello scenario ormai canonizzato
dell'epidemia zombesca, in cui l'appassionato di horror sa perfettamente che cosa sta
succedendo, ma dove l'ansia e il senso dello spettacolo è fornito
dal crescendo di consapevolezza, terrore e reazione, dell'uomo
intrappolato in uno spazio che ne limita i movimenti e la
comprensione dei fatti. C'è
poi quell'elemento che risale addirittura al
teatro del Grand Guignol
e agli orrori suggeriti più che mostrati. Sempre attraverso il
telefono, come nel classico “Au telephone”
del drammaturgo francese André De Lorde, in cui un uomo in viaggio,
attraverso l'apparecchio telefonico appena installato
nelle case del primo novecento,
ascolta
impotente i suoni che
descrivono l'assassinio della
sua famiglia.
Il
cinema di zombi, a partire dal suo capostipite romeriano, “La
notte dei morti viventi”,
nasce da subito come cinema della costrizione. Racconto d'assedio,
dove l'inferno fuori è catalizzatore di discordia e orrori interni,
secondo l'idea infernale immaginata da Jean Paul Sartre in “Porta
Chiusa”. Qui
l'assedio riguarda un singolo e il catalizzatore della paura non sono
tanto gli zombi, quanto l'ignoranza di cosa succede fuori, e gli
inesorabili sviluppi della
catastrofe che si rivelano in
dettagli mostrati dapprima con piccoli squarci di mondo esterno, e
poi con una progressiva penetrazione dell'orrore all'interno. Se
nella trilogia di George Romero gli zombi assediavano l'ordine
costituito, la famiglia, l'istituzione, la società dei consumi, le
forze dell'ordine e alla fine dichiaratamente il capitalismo, in
“The End?” si
scatenano all'interno di un complesso aziendale e tengono
emblematicamente in ostaggio un imprenditore cinico e dispotico.
Potremmo definirla una
miniatura dei topos romeriani, dove sia il luogo dell'assedio (una
casa, un ipermercato, un bunker... qui lo spazio angusto di un
ascensore) e i totem da abbattere (qui riassunti in un unico
personaggio simbolo) sono felicemente concentrati con un ottimo uso
del ritmo e dello spazio scenico volutamente ridotto.
Allessandro
Roja, volto della serie
televisiva “Romanzo criminale”
è funzionale al suo personaggio e alla lenta evoluzione (anche
quella simbolica che affronterà). La performance non è forse
memorabile, ma non necessita di esserlo in quanto il film vive di
attese, suggestioni e vampate di terrore che
l'interprete è in grado di reggere. Più incisivo è il giovane Claudio Camilli, che riempie lo schermo con la sua mole e il suo carisma non appena entra in scena, ed è il perno di alcuni dei momenti più intensi della pellicola. I comprimari, la maggior parte dei quali appaiono solo di sfuggita, e
la moglie del protagonista (Carolina Crescentini, presente solo come
voce al telefono) sono veicolo di tutti quei cliché che lo
spettatore si aspetta, e che fanno parte del lavoro di attenta
miniatura che la regia offre a un pubblico scafato, ma in grado di
apprezzare la tecnica del racconto.
In
definitiva, “The End? L'inferno fuori” è
un riuscito, piacevole giocattolo per mettere paura. Senza
esagerazioni, è un'opera prima da promuovere per la forma e la
capacità di osare. Una variazione su un tema ormai abusato che trova
i suoi punti di forza nella sottrazione anziché nell'eccesso. Un
giocattolo che riesce persino a spaventare in più di una scena là
dove pellicole mainstream hanno ormai rinunciato, oppure falliscono
nel più frustrante
dei
ja vu. E se dovrà esserci un ritorno al cinema di genere italiano,
magari possiamo considerare proprio il film di Daniele Misischia il
punto da cui ripartire.
mercoledì 1 agosto 2018
Hereditary
Ossessione. Infestazione. Possessione.
Visto “Hereditary” di Ari Aster. Film horror che divide il pubblico. Chi lo esalta, chi lo boccia senza appello. E tutto sommato un motivo c'è.
Visto “Hereditary” di Ari Aster. Film horror che divide il pubblico. Chi lo esalta, chi lo boccia senza appello. E tutto sommato un motivo c'è.
“Hereditary” è un'opera ambiziosa,
volta a essere un horror d'autore. Ari Aster, regista giovanissimo al
suo esordio, dimostra di non essere un velleitario qualunque, e di
possedere delle felici intuizioni visive. Il problema è la
confezione generale, la cesura quasi netta che sembra dividere il
film in due blocchi narrativi collegati ma sotto certi aspetti non
omogenei. Cosa che porta alla nascita di una creatura attraente, ma
claudicante. Gioca la sua parte anche un'eccessiva caduta di stile
nel finale, in cui la volontà di concludere in fretta sembra
mostrare il conto a una regia interessante che giunta a quel
traguardo ha però esaurito le cartucce, e si adagia in un manierismo
che dopo tanta atmosfera risulta tanto più fastidioso. Parecchio
fastidioso. Lacuna ancora più grave quanto tutta la prima parte del
film è stata affascinante, sprecando in sostanza un buon potenziale
e presentando in definitiva un'opera non del tutto compiuta.
Questo non rende “Hereditary” un
film da buttare. Ricordiamoci, soprattutto, che ci troviamo di fronte
a un'opera prima. E ad averne. Il giudizio si colloca in una
posizione intermedia, una materia potenzialmente buona, una regia
suggestiva e soprattutto un ottimo comparto attoriale guidato da una
Toni Collette al suo meglio. Se non fosse per quello scotto pagato a
una conclusione che se scritta con maggiore cura, se fosse stata più
suggerita e meno declamata, magari avrebbe reso di più e conservato
la solidità della prima ora. Diciamolo. “Hereditary”, come molti
altri film di genere, echeggia spunti già visti, e in questo non c'è
niente di insolito né di male. Nella fattispecie, a me ha ricordato
“Darkness”, film spagnolo di Jaume Balaguerò del 2002, che
presenta più di un dettaglio in comune con la narrazione di base del
film di Aster. Dal mio punto di vista, il confronto tra questi due
horror è curioso. Infatti, se in “Darkness” la rivelazione
dell'intrigo soprannaturale e delle sue dinamiche aveva una sua
efficacia drammatica, mostrata più che spiegata, “Hereditary”
pecca proprio in questo, ma risulta (sempre a mio parere) più
riuscito del film di Balaguerò dal punto di vista del ritmo e del
crescendo preparatorio, laddove “Darkness” girava a vuoto senza
seminare le suggestioni malate che invece nel film di Aster
abbondano.
“Hereditary” si affida molto ai
dialoghi, anche quelli che sono apparentemente relegati a rumore di
fondo, per suggerire significati e dare un senso a quanto vedremo
accadere sullo schermo. I vari riferimenti mitologici, uno scambio di
battute tra madre e figlia, il ricordo di tragedie passate. Il
racconto di spavento fa leva sulla memoria e sull'attenzione per il
dettaglio dello spettatore. Se si guarda a questi elementi con occhio
distratto, il film perderà un'altra ampia porzione della sua ragion
d'essere. Come dicevo all'inizio, è un'opera ambiziosa che fallisce
sul lungo tragitto, ma che è apprezzabile per le buone intenzioni e
non lascia del tutto indifferenti. Al contrario, fornisce sequenze e
situazioni che generano autentico raccapriccio (in senso emotivo, non
come shock visivo, in ogni caso molto ridotto). I rapporti di causa e
di effetto, le scelte dei personaggi (che quasi sempre finiscono col
produrre un risultato opposto a quello che si proponevano di
ottenere) esprimono un sottotesto fatalista e claustrofobico (reso
benissimo dalla sovrapposizione con l'arte artigianale cui si dedica
la protagonista, che realizza miniature in scala dei momenti cardine
nella vita della propria famiglia) trovano la loro ragion d'essere in
una verità angosciante espressa chiaramente sin dalle prime battute
del film. Per questo “Hereditary”, nonostante l'intrusione non
sempre ben gestita del tema demoniaco, potrebbe essere interpretato
come la metafora di una malattia ereditaria. Ineluttabile,
immeritata, e contro il cui decorso è vano ribellarsi. Un dna malato
il cui destino è già stato scritto.
La regia di Aster sceglie un ritmo
lento ma scandito, e alcune scelte visive sono realmente inquietanti.
Compresa la scelta del volto particolare di Milly Shapiro
(cinicamente mi ha fatto ripensare all'uso fatto da Wes Craven
dell'attore Michael Berryman in “Le colline hanno gli occhi”),
vera e propria maschera del film in un ruolo che non si dimentica.
Poi arriva la parte finale. La corsa
(eccessiva) alle rivelazioni, e la scelta di espedienti fin troppo
dozzinali per svelare un background che per tutta la prima parte è
stato latitante. I riferimenti a “Rosemary's Baby” sono evidenti,
ma se il film di Roman Polansky sin dal principio era generoso di
indizi che lentamente formavano un mosaico d'angoscia, “Hereditary”
si affida a poche sequenze che veramente non reggono per immaturità
e faciloneria il confronto con le intuizioni drammatiche del primo
tempo. Si legge in rete che in alcune sale il pubblico risponde
ridendo a determinate scene. Ci può anche stare, ma lascia il tempo
che trova. Al di là della fretta di determinate soluzioni, e quindi
alla loro goffaggine, sono abituato a sentire la gente ridere in sala
di tutto senza distinzione. Quando è giustificato e anche quando non
lo è. Ricordo di aver sentito la platea ridere davanti al cadavere
congelato di Leonardo Di Caprio nel finale di “Titanic”, pertanto
non do alcun peso a questo fenomeno di massa.
In definitiva, “Hereditary” è un
film che gli appassionati di horror dovrebbero vedere con molta
attenzione. Giusto per coglierne gli spunti migliori separandoli da
quelli palesemente malriusciti, valutando lo stile di alcune
variazioni su un tema già affrontato in passato. Non mi sento di
condannare l'intero film nel suo complesso, la valutazione si colloca
nel mezzo. Come un lavoro che dimostra un potenziale che però dovrà
forse esprimersi e confermarsi in produzioni future.
Del resto, l'eredità cinematografica
di Ari Aster non era agevole. Bacchettate sulle mani per la chiusura
del film, e rimandato a Settembre per portare a compimento tutto
quello che di buono ha lasciato intravedere.
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