Visualizzazione post con etichetta cinema. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta cinema. Mostra tutti i post

lunedì 2 marzo 2020

Freaks [di Zach Lipovsky e Adam B. Stein]



"Freaks" è un film statunitense/canadese del 2018, e per quanto il titolo ricordi precedenti ingombranti non ha niente a che vedere con loro. Potremmo dire addirittura che il titolo, abusatissimo, sia l'unico neo su una pellicola tutta da scoprire. Dimenticatevi quindi del fim di Todd Browning del 1932, non c'entra nulla. Dimenticate anche "Freaks!" (con il punto esclamativo), la web serie diretta da Claudio Di Biagio e Matteo Bruno, che ha spopolato su Youtube nel 2011. Non c'entra nulla. Beh... Chissà... Forse forse... con questa qualcosina potrebbe entrarci... Mettiamola così. "Freaks" di Zach Lipovsky e Adam B. Stein è uno di quei film (un altro di quelli che piacciono a me) cui sarebbe meglio accostarsi senza sapere con che cosa si ha a che fare. Se siete abbastanza audaci da fidarvi, e pensate di apprezzare i film thriller a budget ridotto che puntano tutto su attori in gamba, un'idea classica ma gestita ottimamente, forse fareste meglio a smettere di leggere e cercare di vedere "Freaks". Infatti, in questo piccolo film indipendente, ci troviamo davanti all'ennesima dimostrazione che in un buon racconto non conta il "cosa" ma soprattutto il "come". Il punto di vista di un bambino (bravissima e inquietante la piccola Lexy Kolker) serve da filo d'Arianna in un labirinto in cui all'inizio ci si muove spaesati, ma con la consapevolezza che c'è qualcosa di strano e che presto gli avvenimenti prenderanno una piega terribile.


Ci siete ancora?
Ormai vediamo riproporre spesso determinati topoi narrativi in forma di kolossal, affidati a effetti speciali milionari. E altrettante volte ci capita di annoiarci un po' nel sentirci raccontare sempre le medesime dinamiche. Qui è tutto diverso. Gli effetti speciali sono quasi assenti. Determinati snodi li abbiamo già visti, ma non credo ci siano mai stati raccontati in questo modo. Non con le cadenze di un thriller tra lo psicologico e il soprannaturale, che ci irretisce, ci confonde, e a un tratto ci porta a casa, ma arredata in un modo che stentiamo a riconoscere.
Ma siete ancora qui?
E' sorprendente notare quanto sia ampia l'impronta che nel tempo gli X-Men hanno lasciato nell'immaginario contemporaneo. E quanto siano diventati un archetipo, in grado di contaminare più media e riproporre una metafora senza tempo, che parla di paura del diverso, di responsabilità, di rabbia e antitetici approcci a un mondo ostile, di negazione e accettazione, e infine di dignità. Lo stile narrativo fa la sostanza del racconto, e spostandoci da un ambito commerciale miliardario a uno che sceglie di fare di messa in scena e recitazione il suo principale perno, scopriamo quanto una storia di supereroi possa avere in comune con un racconto horror. Se non fosse ancora chiaro, "Freaks" mi è piaciuto un sacco. E penso rappresenti un contraltare affascinante a una ribalta ormai invasa da blockbuster sfornati con lo stampino. Sì, l'ho detto. "Sfornati con lo stampino". Aspettando l'ennesima versione cinematografica dei mutanti Marvel, potremmo accorgerci che in fondo non abbiamo bisogno di ulteriori repliche. Il cuore degli X-Men, quelli raccontati da Chris Claremont, è politico, è umano, e in "Freaks" lo troviamo vivo e pulsante senza bisogno di ricorrere a personaggi variopinti. Se siete arrivati a leggere fin qui, un po' è un peccato. Ma vale comunque la pena di vedere il film di Lipovsky e Stein. Anche solo per il suo formidabile cast.

mercoledì 26 febbraio 2020

L'impero delle ombre [di Kim Jee-woon]


E' allucinante che io mi debba sentire inibito a parlare di cose che apprezzo solo perché l'Oscar a Bong Joon-Ho ha scatenato due fazioni, tra cui alcuni soggetti pronti a disturbarti con toni che posso definire solo maleducati. Chi sta scoprendo il cinema sud-coreano (o asiatico in generale) soltanto adesso (non sarebbe il mio caso, ma in verità la trovo una cosa legittima) e cinefili integralisti che ti accusano di seguire un trend in modo acritico (perché naturalmente leggono solo quello che vogliono leggere e il loro unico fine è sentirsi migliori di qualcun'altro). Invece no, torno alle mie abitudini di condividere i miei pensieri sull'arte parlando de "L'impero delle ombre" di Kim Jee-Woon (regista di "Two Sisters", "Il buono, il matto, il cattivo", "I Saw the Devil" e tanto altro). Anche qui parliamo di un film arrivato da noi solo per l'home video, e anche in questo caso ingiustamente ignorato dal vasto pubblico (e non perché dovremmo imparare qualcosa dai cineasti orientali... ma perché è un cinema molto valido che è cibo per l'anima, e vale la pena di conoscerlo). Quando l'ho visto mi sono scoperto a interrogarmi sul titolo, sia italiano che internazionale. Ritengo che "L'impero delle ombre" sia un po' fuorviante. Il titolo in inglese è "The Age of the Shadows", quindi l'Era delle ombre... o meglio "delle tenebre". Penso che potremmo tradurlo più fedelmente dicendo "Gli anni bui". Il titolo originale "Mil-jeong", credo significhi "Agente segreto", ma non ne sono sicuro. Perché tutto questo girare intorno al titolo? Perché in molti siti ho trovato il film di Kim Jee-Woon definito come una "spy story", quando in realtà è qualcosa di molto diverso. E' un film drammatico, un film di guerra, storico, un racconto di scelte, di onore e tradimenti, di doppi giochi... e sì, è anche un thriller politico, confezionato con una notevole potenza visiva ed emotiva. Ambientato nella Corea degli anni venti durante l'occupazione giapponese, è una storia di resistenza e di riscoperta di un'identità, da parte di soggetti che l'hanno in parte persa e devono (forse, chissà) ricostruirla insieme al senso di appartenenza a un paese sotto il tacco di una potenza autoritaria. "L'impero delle ombre" può essere letto su molti livelli, una cronaca, per l'appunto, della resistenza coreana di quegli anni bui, un racconto di suspense in cui tutti fingono e non sai mai se credere a ciò che senti. Qualcuno ha accostato certe sequenze del film al cinema di Brian De Palma (la famosa, lunga scena del treno). Mi astengo dal dare conferme o smentite che (onestamente) non mi competono. Dirò solo che il film di Kim Jee-woon riesce a coniugare benissimo l'aspetto del thriller con quello della ricostruzione storica, del messaggio politico, dell'inno alla resistenza, dell'esortazione alla dignità e alla lotta contro tutti i totalitarismi. E non si può non sottolineare la presenza di Song Khang-ho, un viso che ormai è noto anche dalle nostre parti, e un attore camaleontico come pochi. Insomma, moda o non moda, ossessioni esterofile o meno, se non lo avete ancora visto, "L'impero delle ombre" di Kim Jee-woon è un film che vi consiglio spassionatamente di recuperare. Perché c'è solo da imparare. Dalle cose belle, intendo. Ed è un peccato che debba specificarlo.

martedì 18 febbraio 2020

Memorie di un assassino [di Bong Joon Ho]


"Memorie di un assassino", film del 2003 di Bong Joon Ho, era arrivato da noi direttamente in home video, e soltanto adesso, sulla scia del successo planetario di "Parasite", si sta giovando di una (più che tardiva) distribuzione nei cinema. Quel che si può dire... anzi, che posso dire a livello personale, è che negli ultimi anni il cinema orientale, e quello sudcoreano in particolare, mi suscita emozioni che i film occidentali neppure arrivano a sfiorare. Intendo dire che restano dentro, a fermentare nella memoria, dopo avere incantato con immagini di grande impatto, interpretazioni magistrali e temi non scontati. Già "The Host", da alcuni bistrattato come fosse un banale monster movie, era un grande film, con molteplici livelli di lettura e sfumature a perdita d'occhio e di cervello. "Memorie di un assassino" è un'opera per certi versi spiazzante. Si regge su quella linea grottesca che caratterizza la maggior parte dei film di Bong Joon Ho (compreso "Snowpiercer"), e disorienta con i suoi frequenti twist tra noir, con frequenti esplosioni di violenza, e situazioni che sconfinano nel comico. Un altro di quei film dei quali è meglio parlare poco per scoprirli sullo schermo, giacché ogni segmento è una sorpresa, e il film muta di tono ogni quarto d'ora spingendoci a chiederci che cosa ci sta venendo mostrato e perché. La componente sociopolitica è chiara qui sin dall'inizio, ma diventa sempre più delineata a mano a mano che ci si avvicina al finale. Bong Joon Ho non rassicura nessuno, al contrario disturba. Fa ridere e un attimo dopo colpisce allo stomaco. Duramente. E Song Kang Ho, attore feticcio del regista e punta di diamante di tutto il cinema sudcoreano, è un camaleonte inarrivabile. Si stenta a riconoscerlo nelle sue trasformazioni tra "The Host", "Snowpiercer" e "Parasite". In "Memorie di un assassino" recita un ruolo sfaccettato e difficile da inquadrare. Proprio perché umano nelle sue imperfezioni, reale nei suoi sconfinati difetti. Buffo e tragico nello stesso tempo. Insomma, un altro gioiello del cinema sudcoreano da scoprire. Una filmografia e un'estetica della settima arte da cui abbiamo tutti da imparare.

domenica 9 febbraio 2020

Vedendo JoJo Rabbit



Breve storia di vita vissuta. Al cinema, vedendo "JoJo Rabbit". Dietro di me, nel buio della sala, sento le voci di una coppia. Lui sembra un po' annoiato. Lei, invece, molto interessata.
Intanto arriva l'intervallo.
Lui: E' un po' lento, però.
Lei: No, non è vero. E poi che ne sai. Hai dormito tutto il tempo. Ahahaha!
Il film riprende. Ci si avvicina al finale. Ora... se ritenete questo uno spoiler, vuol dire che siete potenzialmente il concorrente medio de "L'Eredità" o "La pupa e il secchione", di quelli che scambiano Stalin per Mussolini.
Arriva la notizia che Hitler è morto e si è sparato in testa (falso storico! La notizia della morte di Hitler fu tenuta segreta a lungo. Ma non importa, il film ha molto di fiabesco). Ad ogni modo... dietro di me...
Lui: Chi? Chi è che è morto? Chi si è sparato?
Lei: (sospirando) Hitler! Hitler si è sparato.
Lui: Aaaah! E' lento, però.
Il film finisce. Iniziano a scorrere i titoli di coda. Dietro di me.
Lui: Eh, che succede?!
Lei: Dai, sveglia. Il film è finito. Possiamo andare via.
Anch'io mi alzo per andare via. Le luci ora sono accese. Realizzo che non mi sono voltato neanche per un momento, neppure durante l'intervallo. Ora lo faccio e scopro una realtà che non mi aspettavo.
Nella mia testa, avevo visto una coppia, con un lui accompagnatore recalcitrante e annoiato, e una ragazza che alzava gli occhi al cielo. Oddio, quasi. Ma non proprio come me l'ero immaginata.
"Lei", dalla voce bianca, era un bambino di circa tredici o quattordici anni.
Lui, era il nonno (non credo fosse il padre, per l'età) cui il ragazzo spiegava il film che faticava a seguire. Mi sembrava un'usuale, antipatica dinamica di coppia, invece, forse, era una cosa carina.
Comunque "JoJo Rabbit" è questo. Un film pedagogico per bambini. Nel senso che parla all'infanzia e la educa. Anche un'infanzia anagraficamente cresciuta, magari. Può non essere perfetto. Anzi, non lo è. Ma di questi film, e di questi bambini (intendo come quello seduto dietro di me, che aveva evidentemente scelto il film da vedere) oggi ne abbiamo un gran bisogno.

mercoledì 1 gennaio 2020

Sulle tracce di... Harvey



Ho trascorso la sera di fine anno guardando "Harvey", la classica commedia fantastica del 1950 con James Stewart. E mi sono trovato a riflettere sul concetto di "arte datata", o meglio di opere "invecchiate male" come capita oggi di sentire dire spesso, anche riferito a titoli non poi tanto antichi. Ripenso a quanti oggi definiscono "invecchiata male" l'originale trilogia di Guerre Stellari (pardon, Star Wars). E mi intristisce pensare che se questo capita alla saga originale di George Lucas, lo stesso tipo di pubblico oggi troverebbe un film come "Harvey" assolutamente inguardabile. Parliamo di un prodotto dei suoi tempi, i primi anni 50, dove trovavamo un modo di recitare differente, legato a un'idea di cinema d'altri tempi, e dei dialoghi che oggi potrebbero apparire artificiosi (ma sempre deliziosi). Per non parlare di una poetica cinematografica molto distante da quella del nuovo millennio. Penso, però, che lo stesso marchio di "vecchio" e "superato" (invecchiato male, in fondo è un eufemismo) lo si potrebbe applicare anche a film come "Casablanca", come "Ninotchka", "Psycho" e persino "Roma: città aperta". Più tanti altri tesori di un cinema che fu.
Vogliamo dire la verità? E' un modo immaturo di approcciarsi al cinema e alle arti in generale. E' vero che esistono film e altri prodotti mediatici che soffrono del passare del tempo. Ma questo avviene solo quando la loro forza artistica è debole, e viene schiacciata da un cambiamento generazionale che appanna molto la loro capacità di comunicare. Capacità di comunicare emozioni, non l'inevitabile invecchiamento dei mezzi tecnici che li hanno prodotti. Ci sono opere che sono e resteranno valide per sempre, in quanto arte, in quanto lavori riusciti e in quanto pietre miliari. A pensarci bene, si potrebbe dire che sono invecchiate male anche opere come la Gioconda, o la Venere di Milo, o la Nike di Samotracia... per non parlare delle tragedie di Euripide e Sofocle, dal momento che non si dipinge, non si scolpisce e non si scrive più in quel modo. Chi avrebbe il coraggio di dire che non parliamo di arte che ha fatto la storia e in quanto tale è da ritenere immortale e resistente al passare del tempo? Temo che nel formulare certi giudizi giochi una certa superficialità. La tendenza (comune a tante persone negli anni della giovinezza) a far prevalere le estetiche a noi più vicine, i mezzi e gli stili nei quali ci riconosciamo di più, perché nostri contemporanei. Per non parlare di alcune reazioni di ottuso rifiuto del passato, trascurando che senza questo non può esserci né presente né futuro, e di sicuro non esisterebbe più il concetto di cultura. La capacità a collocare l'arte nel tempo in cui è stata forgiata e ad apprezzarla per quanto è ancora in grado di dire dovrebbe essere spontanea. Dovrebbe essere oggetto di insegnamento. Vedere, riconoscere la bellezza avulsa dal tempo, che rimane sempre bellezza e continua a far parte di noi. E' un peccato non esserne capaci. Interroghiamoci su questo, e sia chiara una cosa:
se mi chiamate boomer (lo sono, ma è diventata una moda odiosa), dovrete accollarvi che io vi definisca piscialetto. E questa è una parola piena di significato che di moda non passerà mai. ;)

martedì 31 dicembre 2019

The Lighthouse




Non è semplice parlare di "The Lighthouse", opera seconda di Robert Eggers, regista statunitense che nel 2015 aveva aperto nuovi orizzonti alla concezione dell'horror cinematografico con il bel "The Witch", storia di stregoneria, ma anche di pregiudizio, sospetto, frustrazione, liberazione. Non è semplice perché con "The Lighthouse" Eggers fa un ulteriore passo avanti. Insomma, osa - da un lato -, allontanandosi ancora di più dalle dinamiche commerciali cui siamo abituati. Da un altro, ingrana la marcia per farsi definitivamente autore, facendo delle scelte inconsuete e dichiaratamente controtendenza. Il rischio (grosso) è quello di considerare le scelte estetiche di "The Lighthouse" pretenziose, e la sua forma un esercizio di stile forse un po' arrogante. Diciamo subito che Robert Eggers dimostra egregiamente di potersi permettere queste "trasgressioni", e il suo dichiarato rifuggire dalla contemporaneità. La scelta del bianco e nero, l'uso di una strumentazione tecnica desueta, e un quadro cinematografico in 4:3, quadrato come vecchie produzioni hollywoodiane. C'è qualche pretesa, d'accordo, ma anche del coraggio. Il quadro ridotto dello schermo non rimanda semplicemente a un cinema che fu, così come la scelta cromatica. La scelta estetica sottolinea un intento concettuale, dove a contare sono i dettagli, i sottintesi, in cui il campo visivo compatto evidenzia il senso di claustrofobia, di spazio limitato tra i corpi, dove non c'è via di fuga se non un oceano ostile pronto a ingoiare tutto.




Non è semplice parlarne perché Il racconto di "The Lighthouse" vive soprattutto di suggestioni e suggerimenti. E analizzarne i simboli, fornire le proprie interpretazioni di determinati risvolti, potrebbe avere il sapore dello spoiler non richiesto. I due uomini su quello scoglio striminzito, un anziano guardiano del faro e un giovane assistente, cui è vietato l'accesso alla lanterna, vista qui come una sorta di divinità lovecraftiana in grado di fornire risposte scomode e aprire porte sull'orrore, reggono l'intero film con la forza dei loro dialoghi. Dialoghi non realistici, scritti in un inglese letterario che echeggia e richiama precedenti illustri. Tra tutti, il palese riferimento alla "Ballata del vecchio marinario" di Samule Taylor Coleridge. Si dice che lo script del film di Eggers sia ispirato a un racconto incompiuto di Edgar Allan Poe. In realtà soltanto in parte, considerato che nel racconto di Poe ad abitare lo scoglio e a occuparsi del faro è un uomo solo con le sue ossessioni. Ma le voci del mare, la natura inquietante del faro come idolo enigmatico e temibile, permangono nel film di Eggers. In quel microcosmo marinaro, nel rapporto tra i due e nelle loro routine, sembra di vedere un possibile inferno. Oppure una possibile metafora dell'umanità e delle sue (orrende) prospettive di esistenza, fatte di prevaricazione, caos e incapacità di redimersi. “



The Lighthouse” trova nei suoi interpreti un ingranaggio perfettamente oliato. Chi si ostina a dire che Robert Pattinson non è un attore completo o ha visto soltanto “Twilight” o continua a ripeterlo in malafede per puro puntiglio. Willem Dafoe appare immenso in un ruolo sgradevolissimo, tra echi di Herman Melville e il profilo di un nocchiero infernale. In definitiva, “The Lighthouse” è un film complesso, forse non del tutto compiuto, ma sicuramente da vedere. Un'esperienza visiva, sensoriale e concettuale che non fa sconti allo spettatore. Una visione che fa anche stare male a tratti. E la presenza dei gabbiani, il cui verso (lo sa bene chi ha vissuto per un po' vicino al mare) sembra tanto una risata beffarda, è un altro segnale di sporcizia, degrado e morte. Una morte e un degrado che la luce del faro può soltanto far risaltare di più. In un modo oscenamente rivelatore.

domenica 22 dicembre 2019

A Christmas Horror Story


"A Christmas Horror Story" è un film horror antologico canadese diretto nel 2015 da ben tre registi diversi: Grant Harvey, Steven Hoban e Brett Sullivan. Il titolo già ci spiega in che territorio ci troviamo. Orrore a Natale, per un portmanteau (un film a episodi) che in questo caso non separa in modo netto i vari capitoli, ma li frulla tra loro, alternando i vari sviluppi narrativi, legati da fugaci collegamenti che sta a noi cogliere. Siamo dalle parti dell'antinatalizio arrabbiato.


Un istrionico dj radiofonico interpretato da William Shatner fa da collante al film, e introduce quella che sarà una vigilia molta particolare, mentre nella stazione radio da cui trasmette i suoi collaboratori vanno sparendo misteriosamente e dall'esterno iniziano ad arrivare notizie allarmanti. Un anno prima, proprio per la vigilia di Natale, in una scuola della cittadina, è stato commesso un efferato duplice omicidio che ancora non ha un colpevole. L'anno dopo, sempre alle soglie del Natale, un gruppo di ragazzi si mette in testa di tornare sul luogo del crimine per girare un documentario. La fidanzata di uno di loro è in visita con la famiglia presso il maniero di una vecchia zia, un po' svampita, un po' strega. E tira una pessima aria in quelle campagne su cui aleggia la leggenda del Krampus. Il poliziotto che aveva fatto il sopralluogo alla scuola del delitto, vuole procurare un albero di Natale molto bello per il suo figlioletto. E per farlo si avventura in un campo cui è vietato severamente l'accesso. Non è una sorpresa che tutta la famigliola avrà di che pentirsene. Nel frattempo, nella fabbrica di Babbo Natale, inizia a diffondersi un'epidemia zombi tra i folletti operai, e Santa Claus è costretto ad armarsi e a diventare un ammazzasette per sopravvivere alla famelica orda...


"A Christmas Horror Story", nonostante l'apparente confezione natalizia con incursioni nel fantastico, non è un film per ragazzi. E' un vero e proprio horror, anche piuttosto violento e crudo. Alcune atmosfere sono molto riuscite (non avevo mai visto statue del presepe così inquietanti), e certe soluzioni veramente malvagie. A vestire i panni di Babbo Natale c'è il caratterista George Buza, spesso voce di personaggi animati (era la voce di Bestia nella seria animata degli X-Men negli anni 90). Un Santa Claus arcigno che si trasforma presto in guerriero infuriato e coperto di sangue. "A Christmas Horror Story" non è un film del tutto riuscito. Ma riesce nel suo intento di intrattenere rompendo il tabù che vuole il Natale come festa idilliaca. Magari troppo. E forse, nel cattivissimo finale, riesce persino a farci dire... Beh, dopotutto non c'è niente di male a passare un paio di giorni scambiandosi regali e cercando di stare in pace. Sempre meglio di un macello simile. E' uno dei pregi dell'horror. La sua funzione medicinale. Ed è per questo che a me piace tanto aggiungerlo come spezia al Natale.

mercoledì 18 dicembre 2019

"Better Watch Out" di Chris Peckover


"Better Watch Out" è un film horror del 2016 diretto dall'esordiente Chris Peckover, che si guadagna un posto di tutto rispetto nel novero dei thriller "anti-natalizi", per malvagità, imprevedibilità e carica iconoclasta. Olivia DeJonge ("The Visit") è la classica baby sitter chiamata a prendersi cura di un ragazzino durante l'assenza dei genitori in prossimità del Natale. La casa, il bimbetto, il vicinato, sembrano un territorio noto e amichevole, ma... inutile specificare che qualcosa non andrà secondo i programmi, e che un incubo senza fine è in agguato dietro l'angolo. Non solo per lei, ma anche per l'ignaro spettatore che non si attende certi pugni nello stomaco. E' difficile definire "Better Watch Out". E' un horror? In un certo senso sì, perché porta in scena uno dei mostri più riusciti e temibili degli ultimi anni. E' sicuramente un thriller, e sotto certi aspetti un racconto grottesco impregnato di un cattivissimo humor nero. Altro sarebbe meglio non dire, perché "Better Watch Out" è una bestia strana cui è meglio accostarsi sapendo il meno possibile del film che ci accingiamo a vedere. Vogliamo dire in modo sibillino che potremmo leggerlo come il rovesciamento crudele e beffardo di un altro notissimo classico natalizio? In un certo senso... come apparirebbe se fosse (terribilmente) reale? "Better Watch Out" è in ogni caso un film da cardiopalma. Una corsa sulle montagne russe che fa vomitare per lo shock e lascia le vertigini appena scesi. Da vedere per stemperare (se si vuole) la melassa natalizia. E mi raccomando, non perdetevi la scena post credits.

martedì 10 dicembre 2019

Train to Busan, di Yeon Sang-Ho


"Train to Busan" è uno zombi-movie sud coreano diretto nel 2016 da Yeon Sang-ho, e grosso successo in Asia, tanto da generare immediatamente un prequel animato (diretto dallo stesso regista e incluso nella versione home video uscita anche in Italia) e un sequel, che dovrebbe uscire nell'ormai vicino 2020. Il film di Yeon Sang-ho gestisce un plot abusatissimo con un mestiere inattaccabile. Un'epidemia zombi si scatena per cause vaghe e irrilevanti (come sempre), ma la storia che noi seguiremo sarà il destino dei passeggeri di un treno diretto a Busan. Treno su cui è appena salita una persona che ha contratto il mostruoso contagio che presto dilagherà sul treno in corsa, trasformandolo in un inferno su ruote. Gli zombi di questa versione appartengono alla tradizione velocista. Sono snodati, feroci, tarantolati, e il loro numero cresce con una velocità impressionante (la trasmissione e il decorso del virus sono rapidissimi). Presto diventano un'orda simile a cavallette fameliche, e per un giovane manager, che sta accompagnando la figlioletta in visita dalla madre da cui sta divorziando, sarà l'inizio di un'odissea insanguinata, mentre il treno viaggia verso quella che (forse) è l'ultima stazione sicura. Lo svolgimento della trama sarebbe da manuale. Ma le modalità con cui tutto ci viene raccontato sono impeccabili. "Train to Busan" non dà tregua. E' una corsa a perdifiato tra le varie carrozze, una più insidiosa dell'altra, e una carrellata di personaggi caratterizzati, dei quali per una volta ci preoccupiamo per davvero. Non manca un pizzico di melodramma molto orientale. E alla fine del film ci sentiamo spossati. Una sorpresa da non farsi sfuggire.

lunedì 2 dicembre 2019

Parasite, di Bong Joon-Ho



Che strano, imprevedibile, straordinario film che è "Parasite" di Bong Joon Ho. Premiato a Cannes con la Palma d'oro nel 2019, e ora selezionato come miglior film straniero ai prossimi Oscar del 2020.
"Parasite" è uno di quei film difficilmente collocabili nel genere che raccontano. Sarebbe facile iniziare definendolo una commedia nera, dove l'aspetto umoristico (a tratti anche grottesco) prevale sugli aspetti noir,  che pure ci sono e restano a incombere per una discreta fetta di minutaggio, sottotraccia, ma comunque presenti in modo inesorabile. Il fatto è che "Parasite" cambia pelle almeno tre volte nel corso della sua durata, sconfinando dalla commedia al thriller, avventurandosi a un certo punto persino nel territorio dell'horror. Ma quello che prima di tutto caratterizza "Parasite" è il suo essere un film politico. Una parabola sulla lotta di classe che non sceglie un punto di vista in maniera netta, ma preferisce  suggerire i paradossi di un'ingiustizia sociale che va oltre l'etica dei personaggi, e inaspettatamente li livella sul piano morale, inscenando dei contraltari allegorici che lasciano pietrificati nella loro beffarda spietatezza.
Sarebbe un delitto parlare della trama di "Parasite". No, meglio scoprirla poco per volta vedendo il film, incontrando i protagonisti e le loro caratterizzazioni uno dopo l'altro. Bong Joon Ho si era già dedicato alla descrizione di famiglie di reietti e alla loro inventiva per la sopravvivenza nel bellissimo "The Host", e aveva trattato il conflitto di classe nella sua trasferta americana con "The Snowpiercer", inasprendo ulteriormente le ambientazioni del fumetto francese da cui traeva spunto per infondere al racconto politico una visione allucinatoria e simbolica tutta orientale. Con "Parasite" dirige una sinfonia di emozioni che travolge lo spettatore e lo scaraventa a terra, con tocchi di comicità sardonica, twist inaspettati e improvvisi cambiamenti di registro. Ma il tema è sempre quello: i poveri, i ricchi, le profonde differenze di vita, e l'eterna domanda se è possibile risolvere tanta disparità in modo pacifico. E se sì, come? Con che proposito? Con quale iniziativa? Quale piano? Esiste una solidarietà tra disgraziati? E qualora ci fosse, quando... come... con quale gesto potrebbe manifestarsi?
La risposta non è scontata, e Bong Joon Ho affida al suo humor nero numerose metafore volte a suscitare altri quesiti e nuove considerazioni più che risposte. Song Kang-Ho è un fottuto camaleonte, capace di cambiare ruolo e passare da registri comici a drammatici in pochi istanti. E' uno dei volti più noti del cinema coreano contemporaneo, e con "Parasite" potrebbe essere sulla buona strada per diventare un attore internazionale. Ma in verità tutto il cast è al meglio e perfettamente affiatato.
"Parasite" è un film da vedere e rivedere. Prima per ridere, stupirsi e sconvolgersi. Poi per comprenderne meglio i tanti sottotesti seminati in ogni singola inquadratura di un teatro dell'assurdo che descrive miseria e agiatezza con una grazia cinematografica che ha del virtuosistico.
Una chicca: sensazionale la presenza nella colonna sonora di "In ginocchio da te", a commento (non casuale) di una delle scene più divertenti e spiazzanti del film. Da vedere assolutamente. Il cinema coreano non è mai stato tanto vitale, ed è un faro nella notte che bisogna seguire a tutti i costi.

giovedì 21 novembre 2019

Balada triste de trompeta: a proposito di Joker e di pagliacci folli...


Fa un curioso effetto rivedere oggi "Balada triste de trompeta", film che Alex De la Iglesia realizzò nel 2010, e arrivato da noi con il titolo italiano "Ballata dell'odio e dell'amore" (che come al solito, finisce con il banalizzare tutto). L'effetto più strano, più paradossale, è quello di sentirsi spinti a pensare che un film che si proponesse di narrare in modo allegorico, sociale e politico le origini del Joker, era già stato fatto molto prima dei fasti di Todd Phililips. Ed è questo. C'è da dire che il cinema di Alex De la Iglesia è difficilmente classificabile da sempre. Riconoscibile e nello stesso tempo impossibile da incasellare. Grottesco, drammatico, ironico, impegnato, allucinato, satirico... e chi più ne ha più ne metta.
Ad accendere la miccia di una risata terrorizzante qui è un quadro politico e storico truce. Prima la guerra civile spagnola, poi gli ultimi colpi di coda della dittatura franchista. Ma anche l'eterna tragedia della gente comune, la gente povera, disperata e disadattata, che magari cerca nell'arte una possibilità di fuga da una realtà troppo crudele. Nel film di De la Iglesia i Joker sono addirittura due. Entrambi generati da un humus culturale e politico tossico, emblemi di una contrapposizione manichea che finisce solo per distruggere e per distruggersi. Tra violenza e risate, lazzi e paura, espressione di un paese allo sbando che danza sull'orlo di un abisso senza fondo. Tra invenzioni visive indimenticabili, personaggi esplosivi e persino citazioni cinefile imprevedibili (da Alfred Hitchcock a Tim Burton), "Balada triste de trompeta" presenta un circolo vizioso inquietante e amaro. L'alternanza tra farsa e tragedia, che si alimentano a vicenda come luce e ombra, bene e male. E tanto, tanto altro, in mezzo a un caos sociale e storico che sembra non mostrare scampo. E in questo interregno, come diceva Gramsci, nascono i fenomeni più aberranti, che si mostrano a noi, pubblico stupefatto, con le eterne due maschere del teatro. Il sorriso e le lacrime.
Sì, il film sulle origini di Joker, esisteva già. Ed era perfetto.

mercoledì 20 novembre 2019

A Girl Walks Home Alone at Night


"A Girl Walks Home Alone at Night" (2014) è un film horror indipendente davvero molto, molto strano. Per cominciare si tratta di una produzione statunitense, girato in America con un budget ridottissimo da una regista, Ana Lily Amirpour, inglese di nascita, naturalizzata americana ma con ascendenti iraniani. Ambientato in un'immaginaria cittadina dell'Iran, interpretato da attori iraniani e interamente recitato in lingua persiana. Una bella commistione di culture, per quanto la regista sia formata a una scuola di cinema occidentale. Il film è difficile da inquadrare. Horror? Si direbbe di sì, visto che il perno del racconto è una misteriosa ragazza paludata in uno chador che va in giro di notte da sola (come dice esplicitamente il titolo), e che se avvicina un uomo, in genere, è per morderlo sul collo e succhiargli fino all'ultima goccia di sangue. Ma non è tutto qui. La fotografia in splendido bianco e nero porta in scena un'umanità alla deriva. Un bambino, occhio dello spettatore, sempre per strada e apparentemente senza famiglia. Il protagonista, il giovane Arash, inquieto, incerto sul suo domani e anche un po' cleptomane, e suo padre, vedovo tossicodipendente, che vive con il figlio una drammatica inversione di ruoli. In una città desolata e triste, abitata prevalentemente da spacciatori, magnaccia e prostitute, il vampiro si aggira silenzioso. Quasi un simbolo di più anime dannate, in cerca di una ragione per continuare a esistere. Emblema di una condizione statica, prigioniera di una routine quotidiana che come una forma di dipendenza impedisce di iniziare a vivere davvero. Il film adotta un ritmo lentissimo e frequenti silenzi, affidati a personaggi didascalici e molto è affidato alla lettura dello spettatore. Un determinato risvolto narrativo oggi potrebbe far pensare a un ormai fin troppo citato brand cinematografico per adolescenti, ma qui siamo in un territorio affatto diverso. Un sogno prima che un film, che va vissuto e interpretato. Un'esperienza cinematografica bizzarra e sicuramente molto suggestiva.

lunedì 18 novembre 2019

I Saw the Devil


"I Saw the Devil" è un film di Kim Jee-Woon del 2010. Thriller crudelissimo, che si rifà all'abusato aforisma di Nietzsche sull'abisso che ti guarda quando osi guardare in esso, in modo non scontato. I film sulla vendetta privata non si contano, e la Corea del Sud ha già avuto parecchio da dire sul tema. Kim Jee-Woon realizza un film molto diverso dai precedenti, forse con meno virtuosismi fotografici evidenti, ma con una regia che scatta come una trappola. Si chiude e fa un male cane. Un serial killer uccide la donna (incinta) di un agente dei servizi segreti. Questi promette che quando lo avrà trovato gli farà diecimila volte più male. E lo fa. Con una modalità, però, che lascia disorientati. E non solo per il contagio di mostruosità che ancora una volta si realizza tra criminale e agente dell'ordine, ma per una modalità narcisistica (e terribilmente ottusa) nel piano generale dell'uomo assetato di vendetta. Una vendetta che deflagrerà, facendo tracimare ulteriormente il male che si sarebbe voluto punire. Un film violento come pochi, e recitato benissimo (uno dei due protagonisti è Choi Min-Sik, quello di "Old Boy"). Una storia noir che è anche un esame anatomico dell'idea di vendetta, in termini pragmatici oltre che etici. E una parabola sulla frustrazione, sull'insensatezza del male, e sulla sua fondamentale stupidità. Perché il male non è mai nobile o frutto di ragionamenti elaborati. Molto spesso nasce da pulsioni venali, egoistiche, superficiali. Ed è il genere di male che fa più danno in assoluto.

giovedì 14 novembre 2019

Midsommar, di Ari Aster



Sono finalmente riuscito a vedere "Midsommar" di Ari Aster, film tenuto pochissimo in sala nella mia città. Del quale avevo letto poco (nel senso che avevo preferito non immergermi in troppe recensioni) proprio per arrivare alla visione del film con l'atteggiamento più neutro possibile. E devo dire che, al di là di tutto, mi ha piacevolmente colpito.
Si è parlato di folk horror, ma esiste anche un'altra definizione, meno elegante, coniata non ricordo da chi: inquietanti comunità aliene. Si è basato tutto su questa classificazione e si sono fatte similitudini ingombranti. Inevitabili, d'accordo. Ma per certi versi anche fuorvianti.
Mettendo da parte le ormai scontatissime parentele con "The Wicker Man" di Robin Hardy (ma anche "The Sacrament" di Ti West risponde in qualche modo all'appello), possiamo dire che il film di Aster si affranca da questi rimandi che lo renderebbero derivativo, e lo fa sia per forma che per intenti. Non scontati come potrebbe sembrare a una lettura superficiale. Cominciamo dicendo che "Midsommar" merita tutta la sua etichetta di horror. E questo a partire dalle primissime scene, quando la sostanza del racconto principale è ancora distante e il cuore della trama si deve ancora concretizzare. In questo, il film di Aster è nobilmente di "forma". In quanto non fa paura il cosa, ma decisamente il come. A partire dal suo prologo, che porta in scena un dramma familiare con una scansione talmente efficace da regalare i primi brividi. Il modo di narrare qualcosa che è sì prevedibile, ma che arriva allo spettatore in modo devastante per come è preparato e orchestrato. Tanto che pensavi di sapere tutto e di essere preparato, ma la tensione accumulata e la regia ti sconvolgono lo stesso. E questo non te lo potevi aspettare. Perché il racconto di Aster si basa sui sottotesti, non sulla semplice fabula. La componente più profonda di "Midsommar" sta tutta nella forte valenza allegorica del racconto e delle tappe che conducono lentamente a una meta inesorabile. Non bisogna attendersi sorprese, ma interrogarsi sul significato di quanto sta succedendo, come se stessimo analizzando uno strano, incantevole e nello stesso tempo disturbante sogno. Una parabola nerissima sui legami, sulla loro natura, sul nostro modo di gestirli, a volte di dipendere da questi. E sul concetto di sacrificio, volto ad affrancarci (forse) sia pure dolorosamente da qualcosa che ci sta lentamente uccidendo. La cosa più inquietante di "Midsommar" è che durante il racconto avremo paura, ma una volta arrivati, alla luce dei significati nascosti, forse dovremmo gioire. E' questo che sembra dirci Ari Aster, parlando di lutto, di ritualità, di scelte difficili, di morte e rinascita.

Il buono, il matto, il cattivo

"Il buono, il matto, il cattivo" è un film del 2008 diretto da Kim Ji-woon. Una geniale stramberia in cui il regista coreano prende liberamente spunto dal classico "Il buono, il brutto, il cattivo" di Sergio Leone per creare una propria epopea western orientale secondo la propria estetica. Non un remake, ma una riconoscibile e godibilissima variazione sul tema degli archetipi che il capolavoro di Leone ha lasciato nella memoria cinematografica. Un film, quello di Kim Ji-woon, imprevedibile, nonostante abbia scelto di seguire dei binari già percorsi. Incredibilmente divertente, estroso e ricco di invenzioni visive che ne fanno un gioiello da vedere assolutamente. Grazie a film come questo, possiamo riconoscere che il genere "western" si è svincolato dai suoi legami storici e geografici, e ormai da tempo fa genere a sé. Quindi, vedere questa caccia al tesoro in Manciuria, all'inizio del secolo scorso, tra picari fantasiosi, malvagi a metà strada tra la figura del ninja e una maschera della commedia dell'arte, e rocambolesche sfide (non solo con le pistole), è una festa a cui non si può mancare. Tra l'altro, per una volta, il film è stato anche distribuito in Italia. Se non l'avete già fatto, cercatelo, conoscetelo, divertitevi, amatelo.

sabato 9 novembre 2019

Two Sisters


Ho finalmente recuperato "Two sisters" (A tale of Two Sisters"), film coreano del 2003 diretto da Kim Ji-woon.
Mai ritardo fu più colpevole. Ci si sente sempre colpevoli davanti alla bellezza. Soprattutto quando ci si accorge di averla ignorata (non si sa bene perché). "Two Sisters" conferma a mio avviso che le migliori ghost story sono quelle allegoriche, in grado di dimostrare che i fantasmi (aimé) esistono. E non infestano case o oggetti. Ma le persone. Le menti, le anime. E nessun racconto di spavento è più efficace di quello che ti confonde, e alla fine ti lascia incerto tra l'orrore e le lacrime. Sì, perché il film di Kim Ji-woon, oltre a inquietare fa piangere. E ti impone di tenere il cervello sveglio, nonostante il ritmo elegantemente lento, ma tagliente come un bisturi. Un'ambientazione fotografata in modo superbo, attori pazzeschi e una colonna sonora che non si dimentica più. Che altro dire? No, meglio non dire altro. Se non lo si è visto, è meglio non sapere nulla. E dopo averlo visto, vederlo di nuovo. Peccato non averlo scoperto e apprezzato prima. Sì, mi sento un po' in colpa.

mercoledì 6 novembre 2019

The Hole in the ground


Che strana sensazione vedere "The Hole in the ground", film irlandese del 2019 diretto da Lee Cronin, credo al suo primo film, dopo avere visto "Us" di Jordan Peele. Il confronto, infatti, è quasi inevitabile, visto il tema centrale. Ma quello che salta agli occhi (e alla mente) è la grande differenza di approccio alla materia nel tradurre in chiave horror quello che è un racconto metaforico che parla di ricerca del proprio ruolo, di emancipazione, della scoperta di sé e della generale indifferenza, spesso complice di tutto ciò che frustra queste esigenze.

Sarah sta fuggendo da una vita presumibilmente fatta di violenze familiari, e le cicatrici sul suo corpo, e che traspaiono dalla sua anima sono gli unici indizi che avremo per definire un quadro che sarà affidato solo alla nostra fantasia. Con sé ha portato Chris, il figlioletto, con cui ha un rapporto molto forte, e progetta di ricostruire la propria vita da zero in una zona della campagna irlandese, lontana da tutto quello che l'ha ferita. Nel bosco vicino alla casa, però, esiste una misteriosa voragine nel terreno. Un abisso buio di cui, stranamente, nessuno parla, nero come un vuoto esistenziale. Una notte, Chris sembra uscire da solo di casa e avvicinarsi ai margini del buco nel terreno. Sarah lo ritrova immediatamente, illeso e tranquillo, ma c'è qualcosa che non va. Da quel momento guarderà il suo bambino con occhi diversi, pensando che in lui c'è qualcosa di tremendamente sbagliato...
"The Hole in the ground" non brillerà per originalità. Come dicevo in apertura, andare con la memoria a "Us" (ma ancora di più a "L'invasione degli Ultracorpi" di Don Siegel) è facilissimo. Com'è facile intuire la matrice folklorica del racconto, che si basa su una notissima leggenda irlandese nota in tutta Europa, cui persino Luigi Pirandello si è ispirato per uno dei suoi celeberrimi lavori teatrali. Il punto interessante, e la profonda differenza formale di "The Hole in the ground" rispetto a "Us" è l'assoluta avarizia del primo nel voler fornire spiegazioni delucidanti rispetto al secondo, forse fin troppo indulgente a motivare ogni dettaglio, finendo in parte col disinnescare l'atmosfera inquietante del film e la valenza ancestrale e terrifica del concetto di Doppelgänger. Nel film di Lee Cronin tutto è affidato alle immagini, splendidamente fotografate, e all'interpretazione di attori poco noti ma di straordinaria espressività (su tutti Seána Kerslak e il piccolo James Quinn Markey, capace di passare dall'essere il ritratto dell'innocenza a un'ambiguità da cardiopalma). Il tema centrale qui è l'emancipazione di una donna da una vita di abusi, il superamento dei traumi nonostante una società distratta, che tende a non accorgersi di nulla e a negare persino l'evidenza pur di accoccolarsi in un confortevole status quo. Ma anche l'affermazione di una famiglia monogenitoriale, incrollabile nonostante le apparenze grazie non solo a un forte rapporto affettivo, ma a soprattutto a un'irriducibile autodeterminazione. Il non detto fortifica il simbolismo e permette alla metafora sociale di emergere a tutto tondo. Cosa non scontata in un quotidiano omologante come il nostro, dove influenze costanti non ci rendono più più sicuri di conoscere davvero chi ci è vicino e di avere il controllo, se si è genitori, della maturazione dei propri figli. Un film da vedere, in definitiva. E da confrontare, per riflettere su forma e sostanza. In un mondo in cui tutto è riflesso di qualcos'altro, c'è bisogno di una visione... laterale.

lunedì 4 novembre 2019

I Trapped the Devil


" I Trapped the devil" è un film horror che più indipendente non si può, diretto nel 2019 dall'esordiente Josh Lobo.
Matt e Karen si recano in visita per le feste natalizie a casa di Steve, fratello di Matt, che ha vissuto una dramma personale del quale non sappiamo niente, e che da sempre - pare - ha dato segni di instabilità. La visita di cortesia si trasforma molto presto in un incubo, quando Steve afferma di essere riuscito a catturare il diavolo in persona, che adesso si trova rinchiuso nella sua cantina. Il delirio di un folle paranoico? O dietro quella porta sprangata con più lucchetti e bloccata da una croce di legno si nasconde davvero qualcosa di strano e terribile?
Il film è tutto qui. Liberamente ispirato a un episodio della serie classica di "Ai confini della realtà" ("Ululati nella notte"), il racconto si basa per gran parte del tempo sull'ambiguità della situazione e poggia tutto sulle spalle di tre (tre!) interpreti, coadiuvati solo da qualche comparsa. Un film breve e poverissimo, che deve molto all'interpretazione inquietante del televisivo Scott Poythress. Un horror di situazione lontano dall'essere perfetto, che dilata uno spunto difficile da far reggere nella canonica tempistica di un lungometraggio. Ma funzionante di sicuro in tutta la prima parte, quando il clima di paranoia è crescente, e tutto si affida al non visto e a alla voce implorante di qualcuno prigioniero dietro una porta che diventa la vera protagonista del racconto. Avvolta da una spettrale luce cremisi, e che in qualche momento sembra addirittura respirare.
Nel complesso, un piccolo esperimento gradevole, per chi ama il cinema indipendente fatto di suggestioni. Gli altri, forse è meglio che ne stiano alla larga.

domenica 3 novembre 2019

Go Home - A casa loro


Finalmente visto "Go Home - A casa loro" di Luna Gualano.

Punto fermo: lo zombi cannibale canonizzato da George Romero è una metafora politica. Emiliano Rubbi, autore della sceneggiatura, e Luna Gualano, regista, questo lo sanno benissimo. E traspare da ogni singola inquadratura di questo film indipendentissimo, realizzato grazie a un crowdfunding, girato in economia e proiettato nelle sale italiane per soli tre giorni.


L'innesco è semplice e molto forte. A Roma, un centro d'accoglienza profughi è oggetto di una manifestazione organizzata da gruppi di estrema destra che ne richiede lo sgombero. Scoppiano delle risse e nella mischia qualcuno lancia un candelotto di... qualcosa. Come da manuale, le cause che scatenano l'apocalisse zombi sono vaghe e ininfluenti. Quello che conta è la presenta dei morti antropofaghi e la loro insensata, famelica violenza (non troppo diversa da quella dei vivi) che assedieranno il centro in cui Enrico, un militante di destra xenofobo, troverà rifugio per non finire sbranato.


Il film di Gualano e Rubbi merita tantissimo dal punto di vista delle intenzioni, e della fantasia (volta a fare di necessità virtù) con cui porta in scena l'orrore. Anzi, diversi tipi di orrore. Magari pecca di un eccessivo didascalismo, e finisce col predicare ai convertiti, tuttavia ha molte cartucce da sparare. A differenza dei personaggi assediati del film, che in questo caso sono completamente disarmati. Il climax angosciante del dramma della costrizione, in cui tutti i feticci dello zombi movie si presentano puntualmente, è scandito anche dalle differenze e dalle divisioni interne. La solidarietà non si può mai dare per scontata, neppure tra chi condivide disgrazie amarissime. Neppure davanti a una catastrofe che mette in pericolo tutti azzerando ruoli che a quel punto sarebbero marginali. Anche questo un punto nevralgico tenuto a battesimo dal grande Romero. Gli zombi sono una massa brutale mossa solo da una fame mostruosa, ma sono le divisioni interne il reale pericolo e la miccia che farà esplodere tutto. Il ruolo emblematico di Enrico, il giovane razzista messosi in salvo grazie all'aiuto della gente che odia e che vorrebbe vedere sgombrata, non è da dare per scontato. Chi si aspetta un comune racconto di redenzione potrebbe trovarsi davanti a qualcosa di inatteso. E pessimista, in perfetta chiave romeriana. Una parabola nerissima, dove gli effetti splatter, per forza maggiore, glissano spesso sul versante visivo e si affidano soprattutto a un validissimo comparto sonoro. Girato in due centri sociali della capitale, il film si avvale anche del commento musicale di band della scena romana tra cui Il Muro del Canto. Per i mezzi a disposizione, nel complesso, un film da applaudire. E davanti al quale rabbrividire per numerosi motivi. Perché ormai lo sappiamo. Quando gli zombi sono tanti e premono contro le porte, prima o poi entreranno. E allora... sarà un bagno di sangue.