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venerdì 21 ottobre 2016

Quella Lucca vista da lontano...


Diario del Capitano. Data bestiale 21 Ottobre 2016

Devo fare un coming out: non sono mai stato alla fiera del fumetto di Lucca.

Se vogliamo essere pignoli, non ci sono mai andato né prima né dopo, quando ha preso a chiamarsi Lucca Comics and Games. Nessun rifiuto. Nessuno snobismo. L'omissione è imputabile principalmente a ragioni economiche e altri fattori contingenti. In sostanza, non posso parlarne per esperienza personale. La fiera di Lucca, quella che per molti è un'istituzione da decenni, per me è qualcosa di leggendario, fatto di testimonianze e copertura mediatica. Qualcosa vissuto per interposta persona, insomma, e mai in modo diretto.

Sarà perché non amo, per indole, i bagni di folla, ma questa rinuncia non mi è mai pesata più di tanto. Ciò non toglie che dal punto di vista commerciale, finché a Palermo ancora esisteva una fumetteria chiamata Altroquando, io abbia vissuto di striscio gli echi della manifestazione. Fenomeni che producevano conseguenze (tuttora esistenti) tanto sul mercato che sulle reazioni della clientela, per non parlare degli effetti collaterali che sin dall'inizio hanno investito le librerie indipendenti.

A dispetto di tutto questo, non posso fare a meno di esprimermi. Quest'anno, nel 2016, le polemiche sui social riguardanti la venuta di Frank Miller e le condizioni dettate dal suo editore italiano (di cui non parlerò, visto che l'argomento è già stato sviscerato in altre sedi), mi fanno un effetto personale davvero strano e disturbante.

Le controversie legate alla gestione della presenza dell'autore de “Il ritorno del Cavaliere Oscuro”, hanno permesso a numerose testimonianze oculari di emergere e raggiungermi una volta di più. Sui social soprattutto. Alcune si riferiscono a eventi recenti, altre ad accadimenti più distanti nel tempo. In ogni caso, io le ho fruite come chi ascolta, rabbrividendo, il racconto di un'inquietante leggenda metropolitana seduto davanti a un falò in una sera d'inverno.

Parlo della descrizione di qualcosa che (se reale) ai miei occhi è apparsa come vera e propria isteria di massa. Ho letto di lacrime e pianti disperati. Di ressa incontrollabile e incontrollata. Di persone che fanno del male a se stesse o ad altri tentando di forzare argini di vario genere. Di degradanti suppliche per ottenere un pezzo di carta con una firma sopra. Non indugerò sul giro di denaro alla base di questi meccanismi. Sono ovvi. Parlo delle emozioni che questi racconti suscitano in me, provinciale senza rimpianti rimasto lontano da questa processione imperiale.


E' scontato che la presenza di Frank Miller sia un evento di lusso.
Intendo dire proprio riservato a chi non ha troppi pensieri per arrivare alla fine del mese. Se tanto mi dà tanto, ogni ulteriore riflessione diventa pressoché inutile. Quello che mi ha colpito è il vortice che la notizia dell'evento in sé ha risvegliato. Quei racconti, quelle testimonianze... Sì, le chiamo testimonianze, perché mi hanno fatto pensare a qualcosa che ho vissuto da altrettanto lontano, ma rimanendone esposto di riflesso né più né meno di come oggi succede per la fiera di Lucca.

Mi ha fatto pensare a Lourdes.

Anzi, ai viaggi organizzati per i pellegrini a Lourdes. E ai racconti che ascoltavo quando, più giovane, meno disincantato, frequentavo comunità religiose in cui mettevo impegno, fede e competenze. Le testimonianze (per lo più sconcertate) sulla folla incontenibile, sulla frenesia dei pellegrini per raggiungere l'acqua santa, per il grande circo intorno, se confrontate alla descrizione della caccia all'autografo in quel di Lucca, mi danno una sensazione di raccapricciante deja vu.

La sostanza di tutto questo si riassume nella frenesia di poter avere il lusso di toccare un lembo del mantello di Cristo. Magari trarne una qualche forma di beneficio spirituale. Oppure chissà, forse più materiale, se qualche souvenir santificato dal suo tocco conserverà un valore di mercato almeno per qualche anno.


Ma per me sono solo racconti. Leggende. Io non c'ero, io non ho visto. Forse molti dettagli sono falsi o ingigantiti. Lo spero. Ma lo trovo inquietante. Non so neppure quali parole siano le più indicate per descrivere il fenomeno. Passione? Fanatismo? Collezionismo estremo? Feticismo? Compulsione? Idolatria? Fase anale irrisolta? Lo ignoro. E sia chiaro, non giudico. Del resto sono solo uno che guarda da molto, molto lontano.


Sono solo uno che ama i fumetti, che ci ha lavorato, che riflette sulle loro parentele mediatiche e che ama poterli condividere. Magari spaziando un po' in altre forme di comunicazione. Per molti la fiera di Lucca e i suoi affollatissimi eventi sono sicuramente un appuntamento imperdibile. L'unica certezza che ho io è di non essere in target.

lunedì 24 settembre 2012

Grit! Devil secondo Alan Moore


Il nome di Alan Moore fa certamente suonare un campanello nella memoria di molti appassionati di fumetti. Il fondamentale Watchmen, certo. Il geniale V for Vendetta, ovvio. L'ambizioso e inquietante From Hell, il giocoso La Lega degli Straordinari Gentlemen. I lettori più onnivori e attenti ricorderanno anche piccole gemme firmate dal bardo di Northampton, come la storia immaginaria (non lo sono tutte?) dedicata a Superman, Che cosa è successo all'Uomo del Domani? Batman, The Killing Joke. La saga di Capitan Bretagna, le brevi run sullo Spawn di Todd McFarlane e altro ancora. Ma in quanti penserebbero a Devil? Ebbene, non sono molti a ricordarlo in Italia, ma l'avvocato cieco protettore di Hell's Kitchen è passato, in qualche modo, anche sotto il pennino fatato di Moore. 

E' avvenuto negli anni ottanta, sulla rivista britannica intitolata proprio The Daredevils (Gli Spericolati), dove apparirono per la prima volta gli episodi di Capitan Bretagna firmati da Moore e disegnati da Alan Davis, e dove fu ristampata anche lo storico, fortunato ciclo di Devil scritto da Frank Miller che ridefinì del tutto il personaggio del vigilante cieco e del suo mondo.
Alan Moore pubblicò sulla rivista questa breve parodia tutta dedicata alla versione milleriana di Devil, al suo tono da romanzo hard boiled, alle sue ambientazioni cupe e ai suoi personaggi ruvidi. Non a caso il breve racconto si intitola GRIT (praticamente, Il Grinta), canzonatura sul tono da scuola dei duri che Frank Miller aveva impresso alla serie sul diavolo rosso. Atmosfere malsane, oscure ambientazioni metropolitane, villain mai così crudeli e morti improvvise. Un vero spartiacque stilistico che avrebbe influenzato, nel bene e nel male, molte celebri icone a fumetti, fino alla ridondanza e alle sue applicazioni più estreme e commerciali (come ha fatto notare l'autore Mark Waid, recentemente trionfante agli Eisner Awards proprio per la sua gestione di Daredevil). GRIT, la parodia di Moore gioca esattamente con le spigolosità del racconto che si propone come noir a ogni costo, e le mette alla berlina con humor britannico proprio nel loro periodo di maggiore popolarità. Le didascalie hanno un tono sarcastico, quasi provocatorio nei confronti del lettore, mentre il disegnatore Mike Collins offre a sua volta una gustosa citazione dello stile di Miller, delle sue ombre e dei suoi manierismi. Daredevil, l'Uomo senza Paura, diventa così Dour (Cupo, Tetro) Devil, l'Uomo senza il senso dell'Umorismo, e la sua crociata contro il crimine di New York è sbeffeggiata con il medesimo spirito di casa su riviste come Mad, magazine noto anche per le sue parodie supereroistiche. E' probabile che questo breve scherzo sarebbe caduto nel dimenticatoio se a firmarlo non fosse stato l'autore di così tanti classici moderni. Ma una delle arti più seducenti del mago Alan Moore è sempre stata anche la sua duttilità, la capacità di cambiare pelle e sorprendere. E' con piacere, dunque, che riscopriamo questo suo divertito, grintoso, esercizio di stile.







lunedì 30 aprile 2012

Sacro Terrore



Sembra una notte come tante a Empire City. Una metropoli corrotta le cui ombre sono il regno di Fixer, implacabile e misterioso vigilante. Il duello del raddrizza-torti con la criminalità procede come una danza eterna, fatta di ciclici scontri con la Gatta Ladra, seducente fuorilegge per la quale forse sta iniziando a provare qualcosa di diverso. Ma la danza notturna dei due avversari, quasi amanti, è bruscamente interrotta da un boato fragoroso mentre un tornado fatto di sangue, metallo e sassi spazza l'intera città. E' l'inizio di una lunga notte di terrore per Empire City. Un terrore che qualcuno definirebbe sacro...

Frank Miller è un personaggio, oltre che un affermato autore, tra i più noti nel mondo dei fumetti, e la sua opera sul terrorismo islamico era molto attesa da questa parte dell'oceano, dopo aver suscitato in patria polemiche e accuse di fascismo. Non è escluso che anche nel nostro paese, Sacro Terrore, pubblicato dalla Bao Publishing in edizione cartonata, possa ispirare analoghi dibattiti. Si può immaginare tenendo conto dell'alta considerazione che Miller gode tra i lettori italiani, a volte pronti a difenderne anche i passi falsi, del tema scottante e complesso, nonché di quei redazionali, pubblicati a puntate su certe riviste di settore e riguardanti la deriva artistica e ideologica dell'autore, interrotti bruscamente non appena divulgata la notizia che la sua opera controversa sarebbe approdata presto anche in Italia. Eppure, tenendo in mano il volume, osservando le caratteristiche illustrazioni di Miller e leggendo i suoi dialoghi, ormai altrettanto prevedibili, verrebbe spontaneo chiedersi se tanto fumo è proprio necessario. Infatti, la sostanza di questo fumetto ispirato agli eventi dell'11 settembre 2001 è talmente esile, talmente stereotipata,  da disinnescarsi praticamente da sola, con buona pace dei fantasmi razzisti che pure aleggiano tra le sue pagine.


Nato per essere una storia di Batman, collocata nel suo universo e tra i suoi comprimari, sia pure nella chiave milleriana che i fans ricordano bene, Sacro Terrore ha preso in seguito una strada  differente. Ma neppure tanto. Allontanarsi realmente dalla figura dell'Uomo Pipistrello e della sua Gotham avrebbe richiesto uno sforzo narrativo più cospicuo e caratterizzazioni, per quanto allusive, un po' più difformi da quelle dei prototipi di partenza. Questo – per cominciare – non avviene, e ogni ulteriore lavoro sui protagonisti è in sottrazione. Fixer, privato delle ossessioni di Batman, è una maschera senza spessore. Un duro dalla mascella squadrata che quando non straparla di odio e vendetta non fa che pensare alle curve della Gatta, e a ripetere – inutilmente – di non volersi innamorare, come il protagonista de La sposa infedele di Lorca, ma senza la medesima forza poetica e neppure la stessa sensualità. Così è per la Gatta-Natalie, controfigura di Catwoman che non aggiunge nulla al personaggio cui deve praticamente tutto. O dell'occhialuto capitano Donegal, un commissario Gordon non ancora incanutito, irriducibile stereotipo dello sbirro tutto di un pezzo che abbiamo visto sfilare tante volte. Il passaggio dall'ennesimo progetto revisionista a quello di variazione sul tema avviene, insomma, senza nessuna vera alchimia, e lascia i personaggi che conosciamo come una pietanza cui sono stati sottratti tutti gli ingredienti che la rendevano saporita, catapultati in un contesto serrato, ma decisamente pretenzioso e troppo spesso confuso.


Dal punto di vista grafico, il lavoro di Frank Miller è altalenante, e proprio per questo – ci sentiamo di dire – tanto più deludente. La scelta stilistica si colloca a metà strada tra i contrasti netti di Sin City e le morfologie spigolose de Il ritorno del Cavaliere Oscuro, in un bianco e nero dove sprazzi di colore brillano in solitario tra le pagine come lampi fugaci. L'inizio, dedicato all'eterno balletto erotico tra il vigilante e la  felina scassinatrice non sarebbe neppure male, ma il caos incombe dietro l'angolo, e non è quello scatenato dai fondamentalisti islamici sull'ignara Empire City.

Un peccato, perché alcune sequenze, come la serie di detonazioni che provocano uno tsunami di chiodi e lamette da barba che investe i protagonisti, è davvero potente. Peccato che racconto e disegni si smarriscano presto in un gorgo pasticciato, dove spunti che avrebbero potuto essere interessanti si limitano a fare una veloce comparsa, e dove l'azione e il segno graffiante di Miller si ingarbugliano in una spirale nebbiosa, rendendo a volte difficile decifrare quanto sta accadendo sulla pagina. L'episodio brevissimo incentrato sulla giovane kamikaze, scandito da un dialogo trasognato e immagini essenziali, è intenso, ma fine a se stesso. Le psicologie suscitano qualche perplessità, come vedere la piccola Amina trangugiare avidamente alcool per la prima e unica volta in vita sua, in una sorsata di vita disperata,  subito prima di far detonare la bomba che ucciderà lei e quanti le stanno intorno. Bizzarro, vien da pensare, che un agente islamico commetta quello che per la sua religione è un atto impuro proprio mentre sta per affrontare il martirio supremo. Eppure questo breve episodio possiede una forza emotiva assente nel resto del volume, e lascia l'amaro in bocca per tutte quelle atmosfere e quelle domande che Sacro Terrore non riesce a presentare.


E' stato scritto, come lancio commerciale, che Sacro Terrore sarebbe “un pugno in mezzo agli occhi alla retorica e al perbenismo”. In verità non è niente di tutto questo. Non è un pugno e neppure un pizzicotto, ma soltanto uno scialbo anello di fumo, il cui aroma ricorda vagamente le prove passate di Miller senza prendere nessuna direzione precisa. La superficialità con cui la questione politica è affrontata rende il graphic novel omologabile a qualunque episodio di Sin City, dove a un delitto seguono l'ira funesta e la vendetta di un implacabile giustiziere. Non è tuttavia il caso di mettere i titoli in questione sullo stesso piano, giacché se si levano gli occhi al cielo e si pretende di dar lezioni di astronomia, sarebbe il caso di conoscere almeno i nomi dei pianeti. Sacro Terrore è la consueta sagra di violenza al testosterone proposta negli ultimi anni da un Frank Miller ormai prigioniero del suo personale brand. La retorica cui vorrebbe sferrare un pugno fa in realtà capolino anche in Sacro Terrore nel modo più stucchevole, attraverso la rappresentazione (fredda e sterile) dei volti anonimi delle tante vittime innocenti spazzate via in modo insensato. E altrettanto in fretta liquidate dall'espediente grafico che le fa dissolvere, impiegando ben due pagine di un libro corposo solo in apparenza, ma che si legge in pochi minuti. La stessa cosa vale per i volti noti della politica e della cultura internazionale, gettati alla rinfusa tra le tavole come palloncini lasciati a fluttuare senza meta, senza criterio, senza idee solide cui aggrapparsi. Solo rabbia e sete di sangue.


Se l'intento fosse stato quello di rappresentare l'insensatezza della violenza, del terrore, la perdita del senso di umanità di fronte a eventi tanto grandi e drammatici, forse Sacro Terrore si sarebbe avvicinato di più al centro del suo bersaglio. La caduta della Statua della Giustizia di Empire City (allegoria della Statua della Libertà e palese allusione alle Torri Gemelle) avrebbe potuto rappresentare un'allegoria morale di ben altra caratura. Non è così, purtroppo, e la vicenda segue gli sviluppi più elementari, fedele al proposito di mostrare un vigilante prendere a cazzotti i terroristi arabi, vendicare l'America ferita al cuore e così via. Quel che emerge dalle pagine firmate da Miller è solo un furioso, patetico caos.
Il personaggio di David, enigmatico figuro la cui sagoma ricorda The Question, ma con una significativa stella di David disegnata sul viso, è emblematico del fallimento di un progetto che nasce ambizioso ma del tutto privo degli strumenti essenziali per il suo compimento. Vale a dire profondità, accuratezza, e se vogliamo anche capacità di osare davvero. Al lettore è comunicato sbrigativamente che il misterioso personaggio, letale agente del Mossad, è stato anche il mentore di Fixer. Un elemento geopolitico e dietrologico troppo ghiotto per essere presentato e subito fatto sparire dalla trama senza giustificazione. Sarebbe stato meglio, a questo punto, se fosse stato del tutto assente. L'opera di Frank Miller, più che dalle bombe di al-Qaeda, è travolta dalla sua stessa inconsistenza, frettolosità e provocazione d'accatto. Non è un'opera politicamente scorretta, ma un fumetto approssimativo, i cui contenuti sono proposti in modo troppo goffo e ingenuo anche per suscitare scandalo. Tutto si svolge secondo una logica da teatro delle marionette in cui il copione è tutto un cliché collaudato. Fixer e la Gatta non ci mettono molto a diventare tali e quali i loro nemici, belve spietate che non si curano di niente e nessuno, neppure dei loro stessi compagni. I metodi del vigilante, raccapriccianti esattamente come quelli dei terroristi, hanno l'unico scopo di portare in scena la scontata e infantile legge del taglione, e il procedere del racconto non si sposta da questi prevedibili, svenevoli binari.


Sacro Terrore di Frank Miller è un'opera che a suo modo andrebbe letta. Non per godere di una nuova pietra miliare del fumetto (da cercare decisamente altrove), e neppure per sentirsi ispirati o indignati dai suoi contenuti, superficiali e schematici come spesso accade in tutte le posizioni estreme. Eppure andrebbe letta come paradigma dell'enorme ingenuità e del regresso emotivo che una tragedia come l'11 settembre ha potuto generare. Un'ondata di collera comprensibile, ma orfana della razionalità necessaria a comprendere o a chiedersi che cosa sia realmente successo e perché. Viviamo in tempi in cui il concetto stesso di democrazia è stato inquinato da espedienti demagogici di bassa lega.
Il celebre aforisma attribuito a Voltaire «Non condivido le tue idee, ma sono pronto a morire perché tu possa esprimerle» è stato fin troppo spesso trasformato in un grimaldello retorico volto a livellare ogni argomento e a legittimare qualsiasi sciocchezza, istigazione all'odio o insulto al pari dei ragionamenti più motivati. Il fumetto di Frank Miller si incanala tristemente in questa scia, dove si parla alle pance senza passare per la testa, ed è necessaria questa consapevolezza per accostarvisi in modo sereno. Non è proprio il caso di paragonare Sacro Terrore ai fumetti di propaganda usciti durante l'ultimo conflitto mondiale. Per intenderci, quelli sulla cui copertina Capitan America prendeva a pugni Adolf Hitler. A Frank Miller non interessa parlare di una tragedia internazionale e delle sue mille ambiguità, ma piuttosto di cieco revanscismo americano. E l'accento pesa come un macigno tanto sull'aggettivo quanto sul sostantivo. Dalle 120 pagine di trama confusa e disegni incoerenti non emerge molto altro. Il resto è solo kitsch, e l'eco lontana di un'occasione sprecata.


[Articolo di Filippo Messina]


Questa recensione è stata pubblicata anche su Fumettidicarta.


mercoledì 14 settembre 2011

All Star Batman e Robin

Quando un personaggio ha molti anni di storie alle spalle, è normale che si facciano diverse interpretazioni degli eventi cardine della sua vita. Quando il personaggio è una leggenda come Batman, questo è praticamente la regola. Tuttavia, i grandi autori che si trovano a percorrere a ritroso il cammino del tempo, reinterpretando storie già raccontate, in genere rispettano le tematiche di fondo di quelle storie, soprattutto per mantenere una sorta di coerenza narrativa ed evitare di distorcere l’essenza dei protagonisti. Però capita che autori particolarmente carismatici decidano di seguire il corso della loro fantasia, tenendo in ben poco conto l’opera dei loro predecessori. È questo il caso di Frank Miller.


A questo punto devo fare una piccola parentesi: non mi piace per niente Frank Miller. Non tanto come disegnatore, ruolo in cui riesce a trovare soluzioni innovative e di un certo effetto, quanto come scrittore. È incontestabile che abbia uno stile di narrazione molto personale, che affronti con disinvoltura anche tematiche piuttosto delicate, soprattutto per un mondo come quello del fumetto che ancora oggi risente degli strascichi di anni di proibizionismo narrativo. Tuttavia, il suo modo di raccontare non incontra il mio gusto. Non mi sono mai piaciuti gli eccessi, ma soprattutto non sopporto il machismo testosteronico di cui Miller ha fatto il suo cavallo di battaglia, soprattutto quando questo è del tutto fuori contesto. Non ho niente da ridire sull’esaltazione che si ritrova negli spartani di 300, perché non è affatto lontana dalla realtà storica e dalla tradizione narrativa di quell’episodio. Posso ancora comprendere questo tipo di narrazione in un’opera come Sin City, dalle atmosfere prettamente noir, dove la violenza, il turpiloquio e la degradazione sono le basi portanti della storia. Ma non riesco ad accettarla in una storia di Batman.


In All star Batman e Robin leggiamo una rivisitazione degli eventi che portano il Cavaliere oscuro ad avere la sua prima spalla. Quando Bruce Wayne vede il piccolo Dick Grayson in mezzo ai cadaveri dei suoi genitori, non può non rivedere se stesso in quella fatidica notte che cambiò per sempre la sua vita. Così, decide che il ragazzo va preso sotto la sua protezione, per essere addestrato a combattere il crimine al suo fianco. Questo è sostanzialmente l’impianto narrativo della storia. Ma al di là dei momenti tragici e di qualche riflessione psicologica di un certo livello, c’è poco altro che colpisce, nell’opera, e certamente non in senso positivo. Sicuramente è interessante vedere le considerazioni di Batman quando da un lato vede che il ragazzo ha il talento che gli servirebbe avere al fianco nella sua crociata, ma dall’altro si rende conto che in questo modo lo condannerà alla sua stessa vita infelice e solitaria. Bello e intenso, a tal proposito, è anche l’acceso scambio di battute tra Batman e il maggiordomo Alfred, che gli fa notare come imporre le sue scelte di vita a un ragazzino di dodici anni possa essere una decisione discutibile. Al di là di questo, però, vediamo degli atteggiamenti dell’eroe che si fa fatica a riconoscere come suoi. Siamo abituati ad un Batman che si muove come un’ombra terrificante e silenziosa, che nessuno vede o sente finché non ha colpito. Qui invece, annuncia il suo arrivo con una risata ghignante, giustificandola come un altro degli artifici volti a incutere terrore nei criminali. Siamo abituati ad un Batman cupo e silenzioso fino al mutacismo patologico, freddo e riflessivo, mai preda di emozioni di alcun tipo. Qui invece, lo vediamo esaltarsi in una corsa di auto, sfidare i poliziotti solo per il gusto di mostrare la sua superiorità, ostentare le tecnologie della sua attrezzatura solo per impressionare il piccolo Dick. Insomma, un Batman spocchioso e arrogante, pieno di sé, esaltato dal mito della sua stessa maschera. Tutti tratti di un carattere che poco si accosta alla figura del vero Batman. A qualcuno potrà anche piacere questa interpretazione, ma a mio modo di vedere questo non è il Batman che ho imparato a conoscere e amare in tanti anni di storie.

Discorso a parte meritano i meravigliosi (come al solito) disegni di Jim Lee, che non delude mai i suoi fan e ci regala tavole di grande intensità e dinamismo pur non tralasciando quella cura dei dettagli che lo contraddistingue da sempre. Spettacolare in tal senso l’enorme splash page a sei facciate che raffigura il primo ingresso di Dick nella Batcaverna. In definitiva, se dovessi dare dei numeri, direi che le ragioni per voler tenere in mano il volume All star Batman e Robin sono 20% storia e 80% disegni, nonostante io sia un convinto sostenitore che un fumetto deve essere prima di tutto ben scritto, poi ben disegnato, e non il contrario.


[Articolo di Filippo Longo]




Questa recensione è stata pubblicata anche su Cose Preziose