martedì 10 luglio 2007

Bullismo a Palermo: Un altro passo indietro



Vivendo in una società così miope, le cui istituzioni sembrano camminare all’indietro come i gamberi, pensare che la vicenda dell’insegnante, del piccolo bullo, e del genitore incazzato si sarebbe conclusa con la recente sentenza che assolveva la professoressa “perché il fatto non sussiste”, sarebbe stato da ingenui.
Ce lo dimostra prontamente il pubblico ministero Ambrogio Cartosio, presentando oggi appello contro la sentenza del gup di Palermo. La professoressa, che insegna in una scuola media, era stata accusata di abuso di mezzi di correzione per aver punito il bulletto costringendolo a scrivere 100 volte sul proprio quaderno la frase “Sono un deficiente”. Questo a seguito di un atto di bullismo, pare reiterato, nei confronti di un compagno, al quale era stato impedito l’ingresso al bagno con le parole “Sei gay. Non puoi entrare, vai nel bagno delle femmine”.
Nell’impugnare la sentenza che assolve l’insegnante, il pm Cartosio dichiara: "Il sistema adottato dalla docente per correggere lo studente è consistito nel costringerlo a insultarsi e rendere pubblica la propria autocritica: un metodo da rivoluzione culturale cinese del 1966".
Dichiara, inoltre, su qualche quotidiano che non c’è prova che il comportamento del bullo fosse recidivo, e che, per quanto censurabile, le frasi e i comportamenti usati nei confronti del compagno, con riferimenti alla sfera sessuale o ai costumi delle madri, fanno da sempre parte di una fenomenologia sociale inveterata nelle nostre scuole, e quindi da considerare totalmente fisiologica e “normale”.
Si evince, dunque, che per il pubblico ministero Cartosio non è, invece, normale reprimere questi atti di prevaricazione tra minori che non fanno presagire nulla di buono sulla loro progressiva formazione. E scomoda addirittura la Rivoluzione Culturale Cinese, per condannare una punizione scolastica in realtà molto più blanda e assai meno violenta dell’offesa che l’ha causata.
Se qualcuno ritiene che le parole del sostituto procuratore incoraggino i nostri giovani alla cultura della legalità, mi vedo costretto a dissentire. Il nostro è uno strano paese. E la figura del minore sembra essere diventata oggi l’ambiguo simbolo della sua difficoltà a maturare. C’è stato un tempo, per noi quarantenni, in cui l’infanzia era un mondo impervio, a volte spaventoso, e il bambino una creatura invisibile, in totale balia degli eventi influenzati dagli adulti. Poi nacque Telefono Azzurro, e fenomeni sempre esistiti, come abusi e violenze sui minori, diventarono palesi per tutti. Il passo successivo sarebbe dovuto essere una maggiore e più responsabile presenza del mondo adulto e delle istituzioni in quel territorio minato che è l’infanzia. Ma nel nostro bel paese abbiamo il brutto vizio (o il disturbo congenito) di digerire male ogni buona partenza. Il risultato, pare, è che oggi il bambino sia stato trasformato in un sacro feticcio da proteggere in modo tribale più che responsabile, spingendo spesso gli adulti a deviare dal cammino educativo pur di rispettare il nuovo dogma. Da qui una serie di situazioni ambigue, dove il concetto di protezione si confonde con quello di fanatismo e cecità sociale. Non a caso ultimamente udiamo sempre più spesso che genitori furiosi hanno aggredito insegnanti che avevano osato bocciare il figlioletto. Negli ultimi anni, il sistema non è maturato. E’ soltanto stato messo a testa in giù.
Lo dimostra la completa invisibilità dei diritti e del vissuto del bambino cui è stato impedito l’ingresso in bagno, defraudato dal suo ruolo di vittima a favore del persecutore. Poco importante, quasi inesistente, in quanto bersaglio, come è stato detto, di un “comportamento socialmente accettato”. Oggi, il pubblico ministero Cartosio invoca l’articolo 3 della Convenzione di Ginevra e parla di “tortura” e di “trattamento degradante” a proposito della punizione del bullo. Si continuano a ignorare le sofferenze e le possibili conseguenze psicologiche di chi subisce atti di bullismo (anche se per una volta soltanto), e viene di nuovo richiesta una sentenza che servirebbe solo a legare ulteriormente le mani alla classe docente, consacrando una volta per tutte il bullismo come un rito di passaggio “normale” e tollerabile.
Delle eventuali, devastanti conseguenze di situazioni simili, come il possibile suicidio delle vittime, la nostra società sembra voler continuare a non tenere conto. Forse non lo fanno neppure le famiglie dei piccoli perseguitati, dal momento che si sa: avere un figlio che non riesce a difendersi a scuola è una vergogna, averlo bullo è quasi un vanto. E se proprio dobbiamo parlare di Convenzione di Ginevra, che dovrebbero dire i tanti omosessuali italiani discriminati e insultati ogni giorno, per strada, sul lavoro, dappertutto?
Possiamo solo sperare che i successivi gradi di giudizio tronchino questa nefasta spirale che ci sta portando culturalmente indietro in modo forse irrecuperabile. E ricordare che le attuali argomentazioni del pubblico ministero Ambrogio Cartosio sottolineano la necessità impellente di legiferare contro l’omofobia e contro ogni forma di discriminazione. Affinché, se qualcuno compirà ai nostri danni una vigliacca azione vessatoria, ci si possa ancora sentire oltre che esseri umani, soprattutto cittadini, assistiti in quanto tali dalla magistratura, piuttosto che personaggi trasparenti, relegati a margine e ulteriormente umiliati.

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