Una
cosa che trovo sempre irritante quando si parla di fumetti, è sentire
un lettore (non importa di quale età) affermare che sceglie i suoi
acquisti esclusivamente in base a quanto gradisce i disegni. La trama?
Non conta. I dialoghi? Trascurabili. L’importante è la presenza di
immagini spettacolari, possibilmente di stampo mainstream (Jim Lee, Bryan Hitch,
e così via discorrendo). Di norma, quando sento parlare in questo modo,
devo reprimere l’impulso di chiedere al mio interlocutore se ha
l’abitudine, non appena giunto a casa con i fumetti acquistati, di
staccare le pagine degli albi per farne quadretti. Non posso farci
nulla, è un atteggiamento estetico troppo distante dal mio. E lo ametto:
mi suscita una punta di rabbia.
Sono abituato a considerare il
fumetto un mezzo di comunicazione (è qualcos’altro?) composito. La sua
stessa ragion d’essere è data, non tanto dalla fusione di testo e
immagini, quanto dalla funzione di veicolare (con il giusto equilibrio
tra i due elementi) un racconto. L’immagine pura e semplice è una
manifestazione artistica che può prendere più strade. Possiamo trovarci
davanti alla perfezione formale di un’illustrazione del tutto priva di
contenuto concreto, così come possiamo assistere a un film che si
sviluppa lungo una serie di effetti speciali senza il supporto di una
trama degna di questo nome. Odio doverlo dire. Ma anche questi prodotti
privi di reale ragion d’essere hanno i loro estimatori.
Spunto per tornare su questo spinoso argomento, è stata in questi giorni l’uscita del primo numero di “Sandman” della Planeta DeAgostini. Collana che ristamperà in albi il capolavoro di Neil Gaiman
che ha contribuito a cambiare per sempre il modo di intendere (certi)
fumetti. La fila di clienti della fumetteria che, vedendosi proporre il
primo numero della serie, illustrato da un Sam Kieth
agli inizi della carriera, ha declinato l’offerta dicendo: «No, grazie.
I disegni non mi piacciono.» o «I disegni sono proprio brutti», si
allunga ogni giorno che passa.
Senza esagerare, la cosa mi fa
soffrire un po’. La bellezza del lavoro di Neil Gaiman, quell’universo
magico complesso e affascinante, rischia di rimanere ignorato dalle
nuove generazioni (come età anagrafica o anche solo come approccio al
media fumetto) solo perché i disegni surreali dell’ancora inesperto
Kieth non posseggono l’immediatezza di un Ethan Van Sciver.
Ed è solo il capitolo più recente di una serie di sconfortanti exploit. Prendete altri capolavori come “Maus” di Art Spiegelman, e “Persepolis” di Marjane Satrapi.
Due gemme che travalicano il genere fumetto per potenza espressiva e
capacità di emozionare. Due autori immensi, liquidati spesso con la
frase desolante: «Sono belle le storie, ma i disegni fanno schifo!»
Mi
sembra chiaro che ci manca la cultura del “bello perché vario” a
vantaggio del prodotto più omologato. Ci manca la maturità per usare
parole diverse, come: «Non mi piace... Non è il mio genere... Non lo
capisco». Quanto è più facile (e cazzuto, secondo alcuni) tagliar corto
dicendo che qualcosa fa semplicemente "cagare”.
Oppure il gusto
generale è in caduta libera. Fuorviato dal kitsch e dall’ignoranza
dilagante, che penalizza le scelte classiche e non comprende quelle
innovative, solo per restare in adorazione del trend più sfacciato.
Per
chiudere, una chicca. Un giovane cliente di fumetteria si sfoga.
Chiacchiere in libertà su chi (a suo parere) sa disegnare e chi no. Gli
andrebbero bene tutti. Tranne quello lì. Come si chiama? Quello fa
proprio schifo. Non sa disegnare per niente. Un fallito! Se lo avesse di
fronte gli direbbe di andare a zappare e scordarsi la matita. Eppure
spunta dappertutto, questo incapace, con i suoi disegni da zero
tagliato. Ecco... Ecco un suo fumetto. Guarda, che schifo...
Si chiama Steve Dillon.
Per favore, Morfeo... dimmi che presto mi sveglierò.
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