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venerdì 2 giugno 2017

Wonder Woman: niente estremismi, please...


La visione di "Wonder Woman" di Patty Jenkins forse dovrebbe ricordarci che tutti i cinecomics hanno almeno un filamento di DNA in comune. Tutto sta a vedere con che cosa si intreccia. Se non sei troppo piccolo da meravigliarti davanti a tutto, se per te tutto non è nuovo e quindi sorprendente, è normale ridimensionarlo parecchio. A scanso di equivoci, il film della Jenkins risulta piacevolissimo se visto o con occhi di bambino o con occhi di maturo appassionato di miti, leggende, fiabe, fumetti, cinema. Con lo spirito di chi ama sentirsi raccontare mille volte una storia che già conosce, purché il narratore abbia una voce abbastanza musicale e un modo sufficientemente accattivante di raccontare. Senza sperticature, con qualche goffaggine (l'estetica del rallenty ha ormai stuccato gli zebedei), e cadute di ritmo di un film forse troppo lungo, "Wonder Woman" funziona quanto basta. Funziona nella sua profonda, fisiologica imperfezione. Funziona perché ti scopri in grado di anticipare persino le battute che i protagonisti pronunceranno alla fine, la sequenza finale stessa, già vista decine e decine di volte. Eppure il film ha un cuore, sebbene non diverso da molti altri. In qualche momento batte, persino.

Le origini mitologiche sono un mix dell'epoca post Crisis e del rilancio dei New 52 (con una rivelazione comunque prescindibile). Un film d'avventura fantastica a suo modo gradevole, e che può essere apprezzato da chi ha amato la principessa amazzone nella versione di George Perez. Gal Gadot, statuaria e neppure troppo inespressiva, a mio avviso, si è meritata di essere identificata con Diana. Insomma... non si danno voti a un film del genere. Probabilmente, alcuni dei bambini presenti in sala lo ricorderanno come uno dei film più intensi della loro infanzia. Gli adulti meno. Ma come scriveva Antoine de Saint-Exupery: non tutti i grandi ricordano di essere stati piccoli. Il trucco è tutto lì.

martedì 1 settembre 2015

Gli Dei di Rimpiazzo: Supereroi, Religioni e Macchine del Tempo...


The Replacement Gods” (“Gli dei di rimpiazzo”) è un documentario americano del 2012 prodotto dalla Little Lights Studios, studio cinematografico senza scopo di lucro per la divulgazione religiosa presso i giovani, che tratta dei fumetti di supereroi e della loro ingombrante (e ovvia) parentela con le mitologie antiche, l'esoterismo, le simbologie bibliche. L'approccio è protestante e, benché il film non contenga alcun riferimento esplicito, si direbbe espressione della Chiesa Avventista del Settimo Giorno, cui è legato anche Light Channel Italia, che ne ha curato per l'appunto l'edizione italiana.

Un film di 95 minuti molto denso. Discutibile e interessante nello stesso tempo. Affascinante per la ricchezza dei contenuti e spiazzante per le improvvise cadute di tono. E' curioso notare (da liberi pensatori) come l'argomento alla base del documentario (che, ricordiamo, parla dei supereroi, della loro genesi e soprattutto della loro funzione) non è prettamente “protestante”, ma ha radici comuni al cattolicesimo più antico. Peccato che questo non sia un apprezzamento positivo o ecumenico. Quel che viene spontaneo commentare è che il mondo cattolico, con tutte le sue resistenze e pregiudizi, si esprimeva con determinati toni e messaggi nel Medioevo, agli inizi della sua storia istituzionale. Qui ci troviamo, invece, in presenza di un titolo del 2012. E la cosa, per chi ha un approccio laico alla vita e ai fumetti, è abbastanza disturbante.


E' il caso di premettere che le critiche (che ci saranno) non sono rivolte alla fede Avventista in sé, ma ai toni e ai contenuti di questo film (benché sia lecito supporre che siano stati approvati e allineati con le linee generali della confessione cui appartengono). Per capire subito di cosa stiamo parlando, basta un riassunto del tema principale del documentario prodotto dal Little Light Studios (e reperibile anche in italiano su Youtube). Il senso di tutto è che i fumetti di supereroi sono strumenti diabolici, volti a perpetuare (così come le antiche mitologie) un inganno nei confronti del genere umano, e indurlo a venerare falsi dei, in modo da confondere le acque e sviare dall'accoglienza di Cristo (soprattutto nella sua seconda venuta).

E' inquietante scoprire come le parole di Sant'Agostino in De Civitate Dei, agli albori della chiesa cattolica, siano state riciclate in ambito protestante riportando di fatto indietro il tempo (e il modo di intendere la spiritualità) di secoli. Per Agostino, le divinità dei pantheon pagani (buone o cattive che fossero) non erano semplicemente delle figure simboliche di forze della natura e di emozioni umane. Erano entità reali, ma di natura demoniaca, il cui ruolo era quello di farsi adorare al posto dell'unico vero Dio e di screditarne l'esistenza. Non a caso, in molte narrazioni di genere horror a tema demoniaco, le presenze diaboliche portano nomi di antiche divinità. Persino nel celebre romanzo e film “L'Esorcista”, il demone protagonista è Pazuzu, un tempo divinità assiro-babilonese dei venti e delle tempeste. La patristica e i padri della chiesa riscrissero pazientemente le mitologie pagane per creare il nemico di cui la propaganda della nascente istituzione ecclesiastica aveva bisogno. Per questo, oggi, vedere un film come “Gli Dei di Rimpiazzo” è un'esperienza bizzarra. Interessante e irritante nello stesso tempo.


Il documentario si apre e si chiude nel modo peggiore possibile. Lo spezzone iniziale è un documento d'epoca che ci riporta alla nascita del comics code americano, alla crociata contro i fumetti dello psichiatra Fredric Wertham e al suo “La Seduzione dell'Innocente”. Al termine di quella sequenza, lo spettatore è indotto a pensare che il filo del discorso verrà ripreso. Invece no. Termina lì, quasi fosse un'epigrafe posta a memento per i posteri. In sostanza, per il film, quanto contestato ai fumetti da Fredric Wertham era vero e legittimo. E sembra suggerire che sarebbe una posizione da recuperare in questi anni bui. La tirata finale, invece, è tra le più scontate in ambito religioso (tanto da livellare praticamente qualsiasi confessione cristiana), e conclude la disamina affermando che uno solo è il supereroe che dovremmo tutti adorare e che ci salva, e cioè l'unico e solo Gesù Cristo.

Un documentario di propaganda religiosa, dunque, ma non privo di spunti di interesse. I rapporti tra la nascita dei supereroi e le antiche mitologie è curato e supportato da fonti che destano la curiosità dello spettatore. Non lesina neppure l'inserimento di interviste o citazioni di opere di Alan Moore e Grant Morrison, e il loro rapporto con l'occulto. Peccato che alla fine scopra i giochi con l'affermazione puerile e dichiaratamente propagandista che niente di buono può venire da storie a fumetti scritte da chi è abituato a flirtare con i demoni. Il concetto di inversione (cioè mettere Lucifero al posto di Cristo e rendere il primo un eroe e il secondo un malvagio protettore dello status quo) avrebbe (qualora affrontato in modo più distaccato) potuto prestarsi a un'affascinante lettura metaforica (e politica) di rovesciamento dei ruoli precostituiti. Batman, esempio di eroe moderno che fa della simbologia demoniaca un lampante ribaltamento tra luce e tenebre, tra bene e male, dovrebbe essere uno dei punti cardine di questa analisi religiosa. Succede, però, che “Gli Dei di Rimpiazzo” finisce con il disinnescarsi da solo, quando (esaminando le pellicole dedicate all'Uomo Pipistrello nel corso degli anni) confonde con ingenuità disarmante il personaggio di Joker con quello dell'Enigmista, come se fossero un unico villain. E lo fa più volte, con uno scivolone che non sfugge ai lettori abituali, rivelando una falla molto grossa nella conoscenza e nell'attenzione degli autori nei confronti del media di cui stanno discutendo. Né parliamo di un errore da poco, giacché se ho una tesi da dimostrare, e sono in grado di citare la Bibbia, la Cabbala, antiche leggende e testi esoterici, dovrei dimostrare di conoscere i rapporti e le identità di banali personaggi dei fumetti. Ancora più allarmante è l'uso parziale e manipolatorio delle interviste tratte da più documentari preesistenti. La testimonianza farlocca (un semplice scherzo, in realtà) di Warren Ellis sulle presunte pratiche negromantiche di Grant Morrison, estratta dal film "Talking with Gods", è proposta fuori contesto, come un atto d'accusa talmente serio e inquisitorio da dare i brividi.
Questi elementi causano un clamoroso autogoal. Infatti, tutto ciò che si è ascoltato nei minuti precedenti si appanna, diventa dubbio. Posso e devo fidarmi delle notizie fornite da una fonte così dichiaratamente faziosa, apparentemente erudita, ma pronta a scivolare così platealmente su una buccia di banana?


Alla resa dei conti, “Gli Dei di Rimpiazzo” è un documentario pensato per denunciare un complotto mistico in cui i fumetti di supereroi giocherebbero un ruolo importantissimo. Far credere ai giovani che Cristo è malvagio, rendere la sua divinità irriconoscibile come lo fu per chi lo inchiodò alla croce, e alimentare l'attesa di un messia più terreno, più pragmatico, che salvi fisicamente e non spiritualmente. I temi trattati restano stimolanti dal punto di vista storico e antropologico, ma non può che far balzare il cuore in gola per la profonda arretratezza del messaggio di base, l'incapacità di accettare l'innocenza dei sogni, delle simbologie popolari più ingenue e la loro fondamentale inoffensività. Sembra, a tratti, di essere veramente tornati ai tempi del dottor Wertham, e si prova disagio per il fatto di non riuscire a smettere di guardare, di ascoltare. Sì, perché “Gli Dei di Rimpiazzo”, nonostante la consistente falla di credibilità, dimostra una forza affabulatoria non da poco, e i vari parallelismi possono essere seguiti e apprezzati da chi ama i supereroi senza leggervi nessun contenuto volto a influenzare la nostra personale visione religiosa.

Gli Dei di Rimpiazzo” è un documentario che va visto. Magari criticato. Ma non evitato per preconcetto. Anzi, va conosciuto proprio per scoprire quanti punti di vista differenti possano esistere sulla Nona Arte e sulla figura, oggi sfruttatissima, del supereroe. Il film commette anche l'errore di predicare ai convertiti (il tono dello speaker è sempre da sermone e dà molto, troppo per scontato di stare parlando a un pubblico credente) e di utilizzare in modo strumentale (e forse anche un poco scorretto) testimonianze più o meno dirette di due mostri sacri del mezzo: Moore e Morrison, qui presentati (sebbene tra le righe) quasi come profeti del Male e sabotatori dell'opera di rivelazione dell'unico vero Dio. Peccato, aggiungerei, che gli autori abbiano completamente dimenticato l'opera “Promethea” di Alan Moore e il suo particolare concetto di Apocalisse. Ne avremmo visto e sentite delle belle. Ma forse, Promethea e i suoi miracoli è troppo buona, troppo saggia, troppo donna per figurare come messia nero. Probabilmente è per lo stesso motivo che il personaggio di Wonder Woman, presente nel documentario, non è approfondito più di tanto. Eppure sarebbe stato uno spunto per parlare del nascente femminismo, delle streghe e del loro rapporto con i segreti della natura, osteggiate dal maschio detentore del potere tanto in famiglia quanto presso l'ordine costituito. Ma parliamo di un'opera di propaganda, e non possiamo aspettarci che sia quello che non è. Possiamo prendere ciò che offre di accattivante, e cioè le concatenazioni tra mito e fumetto contemporaneo, con la sacrosanta raccomandazione di controllare le fonti e approfondire per conto proprio. Non sia mai di confondere un personaggio con un altro, servendo su un piatto d'argento al nostro uditorio una ricca porzione di dubbi su quanto detto prima e dopo.

Gli Dei di Rimpiazzo” è un documentario non mainstream, non contiene niente di politicamente corretto. E' schierato, è quello che è: un veicolo di propaganda religiosa. E va fruito con questa consapevolezza. Pertanto, guardate il film, pensateci su, discutetene con i vostri amici. Una cosa è sicura. Lo spunto di conversazione (o dibattito) è molto consistente.







martedì 1 ottobre 2013

Un corto su Wonder Woman



Il mondo dei corti e dei video fanmade può essere sorprendente. Da molti anni, dopo i fasti anni settanta dell'iconica Linda Carter, si specula su un possibile reboot cinematografico o televisivo dedicato all'amazzone di casa DC, la principessa Diana, Wonder Woman. Ma tutto si è finora risolto con un niente di fatto e nel progetto di una serie tv mai partita dopo la realizzazione di un pessimo pilot che suscita sghignazzi in rete. Questo corto diretto da Sam Balcomb ci permette di dare un'occhiata a come potrebbe rendere l'amazzone in carne e ossa con un po' di fantasia. L'attrice Rileah Vanderbilt (Hatchet) è statuaria, e anche se non è il massimo dell'espressività traccia l'incedere del suo personaggio in modo convincente. D'accordo, è solo un corto realizzato senza troppe pretese, ma le atmosfere ci sono eccome.



giovedì 11 agosto 2011

Vintage Woman: La prima volta di Diana in TV


E’ un momento controverso per Wonder Woman. Recentemente oggetto di un discusso restyling, abbandonato dopo una manciata di numeri dallo sceneggiatore J.M. Straczynski, e pronta a subire un ulteriore reboot insieme all’intero universo supereroistico di casa DC, la principessa amazzone sarebbe dovuta tornare anche in televisione (a distanza di oltre trent’anni dal telefilm interpretato dalla statuaria Lynda Carter) come protagonista di una nuova serie live action. Esperimento già naufragato sul nascere, con la produzione di un episodio pilota mai trasmesso e che non avrà futuro, se non quello di piccolo cult trash presso quanti sono riusciti avventurosamente a visionarne una copia. L’ironico blogger Dr. Manhattan ne offre una dettagliata, esilarante descrizione nel suo Antro Atomico, ma l’onda del trash parte da lontano, e ci fa comprendere che la povera Diana non ha mai goduto di particolare fortuna fuori delle tavole disegnate.


Il primo tentativo di portare Wonder Woman in televisione risale al lontano 1967, a opera di William Dozier, produttore della serie televisiva di Batman con Adam West, prodotto dal sapore parodistico che estremizzava i contenuti allora scanzonati e pop delle avventure dell’Uomo Pipistrello firmate in quegli anni dal disegnatore Carmine Infantino. Lo script per Wonder Woman fu commissionato a Stan Hart e Larry Siegel e in seguito revisionata da Stanley Ralph Ross, già sceneggiatore del Batman televisivo. Il risultato fu un antipasto inferiore ai cinque minuti di durata, un plot che avrebbe dovuto presentare Diana Prince e il suo alter ego amazzone in vista di un ciclo di avventure che non fu mai realizzato. Il plot, infatti, fu giudicato molto scadente e relegato nel dimenticatoio. Almeno fino all’avvento di Internet e alla sua riscoperta come curiosità vintage, per la gioia di tutti gli amanti dell’orrido e della profanazione dei miti fumettistici.

Il tono di questo Wonder Woman televisivo, il cui episodio pilota s’intitolava Chi ha paura di Diana Prince, si proponeva di ricalcare la chiave ironico-demenziale del Batman di Adam West. In quei pochi minuti, della principessa amazzone c’era davvero molto poco. Vi si faceva la conoscenza di Diana, una ragazza occhialuta e goffa, impegnata a dialogare con un’opprimente madre (non la regina Ippolita, ma una normalissima e pedante signora americana) che non fa altro che rimproverarla per la sua vita ritirata e la mancanza colpevole di un fidanzato. Diana però ha un segreto, e non appena la mamma gira gli occhi... ecco avvenire la trasformazione. Wonder Woman è apparsa... in tutto il suo splendore. O perlomeno lei ne è convinta.
E’ facile supporre che William Moulton Marston, creatore della principessa amazzone sulle pagine dei fumetti, psicologo e ideologo del femmminismo si sia rigirato nella tomba nel vedere la sua creatura così trasfigurata sulle note di Oh, You Doll Beautiful (Oh, tu bella bambolina). Scopriamo così, che la goffa Diana (trasformatasi in una strafiga in abiti eccentrici) ha molte cartucce da sparare, e ne è tanto, tanto consapevole. A restarci malissimo, stavolta, saranno tutti i suoi fans.

Una curiosità. Diana Prince è interpretata dall’attrice Ellie Wood Walker, ma una volta avvenuta la trasformazione, Wonder Woman ha l’aspetto di Linda Harrison, che ricordiamo soprattutto per essere stata la selvaggia Nova al fianco di Charlton Heston nel primo, classico Pianeta delle Scimmie (1968).
Un tuffo negli anni sessanta, nel ciarpame televisivo che tentava goffamente i primi approcci alle icone del fumetto, e un esempio (superato dai tempi?) di cos’era – almeno nella testa dei produttori dell’epoca – una Donna Meravigliosa.
Buona visione. ;)

martedì 14 giugno 2011

Wonder Woman - Odissea


Wonder Woman non è mai esistita. Non come la ricordiamo. Qualcuno avvolto nel mistero ha alterato la linea temporale, facendo strage delle Amazzoni, incendiando l’Isola Paradiso e modificando drasticamente il corso degli eventi. Poche cellule di Amazzoni sopravvissute si nascondono ora nella terra dei mortali, istruendo in segreto la principessa Diana, figlia della defunta regina Hyppolita, colei che è destinata a diventare Wonder Woman, e a portare sulle proprie spalle l’eredità morale di una civiltà scomparsa.

Wonder Woman, una delle icone fondamentali del cosmo DC insieme a Superman e Batman, ha sempre sofferto di cicliche crisi legate all’età. Bizzarro, considerato che parliamo di una guerriera immortale, anziana di secoli e sempre bella come Venere. Eppure, la principessa Amazzone sembra far fatica a radicarsi nell’immaginario delle nuove generazioni, e ancora una volta, in casa DC, si è deciso per l’ennesimo svecchiamento.

Il ruolo di nuovo demiurgo della principessa Diana è andato a J.M. Straczynski (Spider-Man, Supreme Power) che ha assunto il difficile compito di aggiornare un archetipo già ridisegnato da George Perez in un acclamato ciclo di fine anni ottanta. Dopo la saga Crisi sulle Terre Infinite, che azzerava decenni di continuity DC, George Perez aveva restituito Diana alle sue radici mitologiche, orchestrando una gustosa rivisitazione delle divinità olimpiche e proponendo un’intrigante ibrido tra avventura epica e racconto supereroistico. Oggi, la Wonder Woman di Straczynski si staglia contro uno scenario metropolitano dove prevalgono toni dark e il buio si tinge spesso di sangue. Straczynski cita dichiaratamente Neil Gaiman, portando in scena personaggi mitologici in una veste urbana e crepuscolare, in certi casi vagamente emo, che ricorda molto la caratterizzazione di Death, Morfeo e degli altri eterni della saga di Sandman. Né mancano ammiccamenti metafumettistici che in qualche modo citano Grant Morrison e il suo storico intervento sul personaggio di Animal Man.

«Gli dei suonano i nostri corpi, le nostre vite... E ogni tanto cambiano il ritmo. Perché? Per il loro interesse... per il loro divertimento...»
Con queste parole, l’Oracolo consultato da Diana allude in modo manifesto ai mutevoli gusti dei lettori, e alle logiche commerciali che regolano esistenza e stile dei personaggi a fumetti. Il restyling di Wonder Woman ha avuto in America una discreta eco mediatica, centrata soprattutto sul look moderno dell’Amazzone, ideato da Jim Lee. Una curiosità è relativa alla vecchia tenuta di Diana, quella discinta, che pare sollevasse perplessità da parte di molte lettrici. Come farebbe Diana a combattere in quella tenuta succinta senza rimanere nuda praticamente tutte le volte? Osservazione legittima, ma comunque peregrina. Quasi tutti gli eroi in costume esibiscono look improbabili. Si pensi alla sventolante cappa di Batman, che nella realtà sarebbe un grave impiccio. Ma tant’è. “Diana è troppo sottovalutata,” recita misticamente una voce fuori campo nelle prime tavole.  “E’ il momento di cambiare”. Ed ecco che per rilanciare Wonder Woman nel nuovo millennio, la DC copre pudicamente le sue primordiali nudità, conferendole un look da agente segreto, le cui pose e curve la rendono molto simile alla marvelliana Vedova Nera.


J.M. Straczynski conosce il mestiere e offre come sempre una discreta prova narrativa. L’inizio è convulso e violento. Vedere Hyppolita morire tra le fiamme come una strega sottolinea la forza eversiva dell’identità femminile, da sempre temuta e demonizzata dal maschio. L’idea di un popolo Amazzone ormai ridotto al lumicino che vive in clandestinità disperso su tutta la terra sarebbe interessante, ma la caratterizzazione di Diana (qui più giovane della sua versione precedente) non convince del tutto. L’ispirazione mutuata da Neil Gaiman resta in superficie e il tono predominante del racconto ricorda di più registri televisivi, come quello della serie TV Charmed (in Italia, Streghe), con tanto di gatto guardiano parlante.

La nuova Diana, più che alla DC, sembra appartenere al trend marvelliano dell’etichetta Ultimate. Stesso appeal giovanilistico e un approccio simile alla violenza (raramente si è vista Diana combattere in modo così feroce). La lettura scorre, e le matite di Don Kramer sono piacevoli, ma la vera emozione latita, lasciando prevalere un vago senso di disorientamento per un personaggio che, sia pure riconoscibile, ha perso alcuni degli elementi che lo rendevano caro ai lettori più maturi. La sua innocente saggezza, la sagoma statuaria da divinità greca e l’aura di forza primigenia della natura. Tutto andato, per lasciare posto a una flessuosa ninja in calzamaglia. Paradossalmente, la Wonder Woman del nuovo corso appare più algida e conformista dell’icona che si voleva svecchiare. Il volume è completato da una manciata di storie brevi, firmate – tra gli altri – da Geoff Johns, George Perez e Ivan Reis. Quasi un dovuto confronto tra la Wonder Woman tradizionale e quella “vestita” da Straczynski. La corsa della nuova Diana è appena incominciata, e soltanto il tempo potrà dirci se e quanto durerà prima di un ulteriore mutamento o di un altrettanto prevedibile ritorno alle origini. Resta la consapevolezza che gli dei, a qualunque pantheon appartengano, potranno anche cambiare ritmo. Ma nessuno è al riparo dalla stonatura, e per quanto il concerto non sia proprio da fischiare, la sperimentazione non incanta i melomani della vecchia guardia.


Questa recensione è stata pubblicata anche su Fumettidicarta.


[Articolo di Filippo Messina]

giovedì 10 luglio 2008

Pari opportunità? E' un lavoro per Wonder Woman

Wonder Woman non è una supereroina qualunque. E’ l’idealizzazione inconsapevole del ministro per le pari opportunità. E – credetemi – non sarebbe facile per nessuno reggere il confronto. Soprattutto di questi tempi.
Se la boutade vi sembra azzardata, provate a leggere “Classici DC – Wonder Woman”, ciclo di quattro volumetti recentemente pubblicato da Planeta DeAgostini. Vi ricrederete. Potreste anche innamorarvi del personaggio, ma soprattutto vi divertirete.
Una piacevole riscoperta, questo Wonder Woman di George Perez. O una rivelazione, se l’età o gli interessi non vi avevano ancora fatto incontrare Diana di Temischira. Personalmente, gli unici contatti che avevo avuto finora con la principessa amazzone erano dovuti al telefilm anni settanta con Lynda Carter. Un prodotto simpatico, ma oggi assai datato e comunque discretamente kitsch. Terzo pilastro fondamentale (insieme a Superman e Batman) della generazione di supereroi nati sotto il marchio DC, Wonder Woman è molto più di una versione al femminile dell’Uomo d’Acciaio, al quale è spesso associata in modo semplicistico. E se oggi il personaggio gode di una rinnovata popolarità, è soprattuto grazie a George Perez, che nel 1987 ne ridefinì le linee di base, sviluppando la sua versione dell’amazzone lungo un ciclo memorabile di storie durato fino al 1991. Dopo la celebre saga “Crisi sulle terre infinite”, in cui la DC Comics ricorse all’espediente narrativo di un cataclisma cosmico per cancellare l’ingombrante passato dei suoi personaggi, molte serie furono fatte ripartire da zero. Le origini degli eroi furono attualizzate, e un pugno di autori rampanti legarono i loro nomi alle versioni moderne di alcune icone del fumetto mondiale. John Byrne ricostruì il mito di Superman nella miniserie “Man of Steel”. Frank Miller avrebbe consacrato definitivamente l'Uomo Pipistrello come un personaggio noir nel fondamentale “Batman: Anno Uno”. E sarebbe toccato al portoricano George Perez “resuscitare” Wonder Woman secondo nuove sensibilità.
I primi numeri della saga erano disegnati da Perez, che firmava i testi a quattro mani con lo sceneggiatore Greg Potter. Molto presto, però, il buon George si trovò a governare da solo la nave, dimostrando una statura di autore completo davvero degna di nota. Il pregio della sua Wonder Woman è quello di prendere quasi del tutto le distanze dal panorama supereroistico, e di restituire il personaggio di Diana alla sua dimensione mitologica. Il ciclo iniziale di storie, che vede come protagonista la regina delle amazzoni Hyppolita, e che racconta la bizzarra nascita di sua figlia Diana, è un intrigante mix di fedeltà ai miti greci e di divertite licenze. Diana è l’icona della moderna strega, intesa come figura primordiale di donna ribelle al controllo maschile, e di conseguenza più incline a pensieri di pace e alla difesa della natura. Nella versione di Perez le amazzoni sono sì donne guerriere, ma in quanto custodi di ideali di parità e giustizia. La missione di Diana nel mondo governato dagli uomini (suo primo compito è contrastare i piani del dio della guerra Ares) è quella di ambasciatrice di Temischira, paradisiaca isola delle amazzoni. Dopo un secolare isolamento, le sagge (e immortali) protofemministe, inviano la loro campionessa affinché il mondo possa apprendere i loro valori pacifisti. In questo modo, Diana, acquista anche il ruolo di un messia politeista, di ispirazione pagana ma dalle forti connotazioni cristiane. La nuova Wonder Woman è una candida fanciulla dalla forza straordinaria e dalla fede incrollabile, personificazione dei principi di tolleranza appresi nel mondo di sole donne in cui è cresciuta. Agli avversari mitologici, Perez affianca un’ispirata riscrittura dei nemici classici dell’amazzone. La ferina antropologa Barba Minerva alias Cheetah, la tragica Cigno d’Argento, e soprattutto la nemesi di Diana per eccellenza: la maga Circe.
La sorpresa più strana (e piacevole) di “Classici DC – Wonder Woman” è la modernità che traspira da ogni pagina. Si tratta di fumetti realizzati alla fine degli anni 80, ma che conservano una freschezza e una qualità latitante, a mio avviso, da molte produzioni a stelle e strisce attuali. “Classici DC – Wonder Woman” è una lettura piacevolissima, un’avventura scritta con garbo e disegnata in stato di grazia. Un fumetto lontano anni luce dalle volgarità pseudo-cool attualmente di moda. Come recita l’etichetta stessa di questa edizione: un classico. Da recuperare per tutti coloro che amano leggere buoni fumetti, al di là del trend commerciale. E sì! Tutti, nessuno escluso, avremmo bisogno di un ministro per le pari opportunità che si avvicini alla statura morale della nostra amata principessa amazzone.