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mercoledì 1 ottobre 2008

Imprevedibile - Racconto


[Illustrazione di Saverio Messina]

IMPREVEDIBILE
Racconto di
Filippo Messina

All'età di nove anni, quando servivo la funzione, il parroco mi disse:
«Simone, l'unica cosa di cui dovrai avere sempre paura, è di averne tanta da non riuscire neppure a pregare.»
Non avevo più pensato alle parole del buon vecchio, ma le ricordai quella notte d’ottobre, quando misi sotto un cane con il mio camion a pochi chilometri dall'abitato.
Non saprei dire perché, ma per un istante tremendo fui convinto di avere investito un bambino. Forse a causa del modo in cui la povera bestia gridò, o magari per la sua improvvisa impennata davanti ai fari. Frenai energicamente riuscendo a fermarmi soltanto cinque metri più avanti. Rimasi immobile, abbattuto sul volante, boccheggiando per parecchi minuti. Ero atterrito per quello che sarebbe potuto avvenire. Nella mia fantasia il dramma si era svolto vivido come in un luminoso teatrino. Mi ero visto ammanettato, a ricevere le invettive disperate di una delle tante famigliole residenti nella periferia. Il padre, un muratore dalle basette grigie, mi minacciava mostrandomi il pugno. Lo seguivano da vicino una moglie in lacrime e due figlie mutate in furie. Addosso mi piovevano maledizioni e sassi.
Ero in ritardo sulla consegna, e avevo superato il limite massimo di velocità previsto sulla strada. Come se non bastasse, ero distratto a sufficienza da scambiare un povero randagio per un essere umano. Stavo ascoltando un brano jazz alla radio e me ne infischiavo del mondo intero.
Mi ripresi dallo spavento solo dopo qualche minuto. Scesi dal camion per rimuovere la carcassa della bestia dall'asfalto. Non si vedeva arrivare nessun altro veicolo, ma mi sentivo ugualmente umiliato. Adagiai il cadavere del cane sull'erbetta corta oltre il ciglio della strada e sostai un attimo a contare le luci del sobborgo. Mi dispiaceva per l’animale, ma ringraziavo Dio per avere scansato il peggio. Quel tratto di strada era molto pericoloso, ed io ero stato dannatamente imprudente. Sapermi in galera era l’ultima cosa di cui mio padre aveva bisogno. Dopo tutti gli sforzi fatti per darmi un’istruzione, il mio lavoro di camionista bastava ad amareggiargli la vita.
Si faceva tardi. Tornai a mettermi al volante e stavolta guidai con cautela. La radio rimase spenta.
Giunsi al deposito alle ventuno. Sorbii rassegnato la lavata di capo per il ritardo e mi rimboccai le maniche per aiutare a scaricare le casse. Non conoscevo il ciccione che ispezionava la merce. Si trattava di un nuovo impiegato, assunto il giorno prima. Un tipo isterico, calvo e zelante. Probabilmente anche un po' sordo, visto che non riusciva ad aprire bocca senza strillare come un’aquila. Scoprì che un paio di bottiglie del mio carico si erano rotte. Doveva essere successo mentre frenavo con l'angoscia nel sangue. Inventai che un altro camion mi si era stretto a sinistra facendomi sbandare e che le bottiglie dovevano aver cozzato l'una contro l'altra. Non avevo nessuna responsabilità del modo sciatto in cui le casse erano state confezionate. Salutai tutti e andai via che erano già le ventidue.
Sulla via del ritorno pensavo ancora all'incidente.
Nell'abitacolo del camion, sebbene fossimo in ottobre, s'era messo un caldo che mi faceva sudare. Non si prospettava una bella notte. Mio padre era andato a trovare suo fratello in città, pertanto a casa non mi aspettava nessuno. Giulia non voleva più saperne di me, e il mio baracchino era ancora guasto. Cavolo, mi sentivo solo da matti! Provai ad accendere la radio, ma incontrai soltanto voci stridule, troppo simili a quella del nuovo impiegato del deposito. Cominciavo anche a patire una fame robusta. Se tutto fosse andato liscio avrei potuto mandare giù qualcosa di freddo soltanto intorno alla mezzanotte.
Decisi che ero troppo depresso per tornare in una casa vuota e mettermi a frugare nel frigorifero. Sterzai al primo bivio e rallentai appressandomi alla stazione di servizio.
Posteggiai nel solito spiazzo. Notai subito che il grill non era troppo affollato. Nel parcheggio, oltre al mio camion, contai una Ferrari e un paio di altre auto. Davanti all'ingresso un punk con i capelli verdi stava infastidendo una giovane coppia, credo per ottenere uno strappo fino in città. Vidi il ragazzo spingere da parte lo scocciatore e muoversi con la sua amica in direzione del piazzale. Il punk sputò sulla strada dietro di loro, borbottò qualcosa in una lingua straniera e rientrò nel locale sbattendo la porta. Attesi che i giovani giungessero a prendere l'auto. Ero curioso di scoprire se la Ferrari apparteneva a loro. Quando montarono su un maggiolino bianco, gettai il mazzo delle chiavi in una tasca del giaccone e m’incamminai spedito verso il grill.
Ma non vi entrai. Non subito. Rimasi ritto a guardare attraverso la porta a vetri mentre il cuore mi balzava in gola.
L’uomo sullo sgabello dall’altra parte del vetro aveva una faccia tonda, con degli occhi piccoli, semichiusi per il sonno. Una mano dalle dita corte sosteneva quel volto paffuto e pallido che sembrava il ritratto della stanchezza. La bocca aveva un’espressione imbronciata sotto i folti baffi neri. Era una strana faccia, difficile da dimenticare. Anche la luce al neon sembrava averla notata. Infatti la corteggiava, dipingendone i lineamenti di una limpida tristezza lunare. La sagoma era tozza, vestita di scuro. Blu il maglione, blu il cappotto con il bavero alzato.
Questo era l'uomo seduto al tavolino. Una fredda notte di luna, la cui unica stella era il luccicore sulla bottiglietta d'acqua tonica che aveva davanti. Una notte fredda e infreddolita. Sedeva vicinissimo al calorifero, ma il tepore di questo non doveva essergli di conforto perché ad ogni istante rabbrividiva stringendosi sempre più nel cappotto.
Avevo già veduto quella faccia altrove. Sì, me l'ero trovata di fronte una quantità di volte in passato. La conoscevo e mi era cara, per quanto adesso mi stesse riempendo di sgomento. Il mio primo impulso fu di voltare le spalle, correre al camion e ripartire veloce verso casa. Rintanarmi sotto le coperte con le luci accese e ripetere avemaria fino al mattino.
Invece rimasi lì. A guardare.
La faccia aveva un nome. Forse tentai di pronunziarlo, senza riuscire a emettere nient'altro che uno sconcio verso. Scandii nel mio intimo il nome di Martino, e ricordai.
Soltanto un anno prima, mi trovavo seduto sopra una roccia mentre Martino, poco più in là, gettava la lenza nel lago. Allora, il mio amico era in una forma più gagliarda. Sempre grasso, ma con le guance rubizze, animato da un buonumore incontenibile. Aveva la pelle cotta dal sole e portava uno striminzito cappello di paglia. Era una gran bella giornata. Domenica, credo. Sì, era domenica l'ultima volta che Martino ed io andammo insieme a pesca. Martino rise per tutta la mattina. Che risata, la sua! Come sentire agitare un salvadanaio pieno.
Quella sera, invece, la vista del suo viso attraverso la vetrina del grill mi riempì di paura. Ero atterrito e affascinato. Rimanevo immobile e mi domandavo che cosa stesse facendo Martino là, dove il buon senso mi diceva che non avrebbe mai potuto trovarsi.
Sì, perché Martino era morto. Da parecchi mesi, ormai.
Per quanto mi sforzassi non riuscivo a definire vaga la somiglianza dello sconosciuto con il mio amico. Anche lui aveva un mento piccolo, disegnato sopra una rotella di grasso che pendeva sotto la mandibola. Anche lui aveva una figuretta tarchiata, inconfondibile.
Improvvisamente, l’uomo alzò lo sguardo e mi fissò attraverso il vetro. Che si fosse accorto della mia attenzione indiscreta? Lo vidi scrutarmi, aprire le braccia e abbandonarsi sullo schienale della sedia con un'ombra di spavento sul volto. Mille supposizioni attraversarono il mio cervello. Forse era un poco di buono, reduce da un furto, che notando il mio interesse si sentiva in trappola. Oppure un mentecatto, malato a sua volta di timori incomprensibili.
Finalmente riuscii a scuotermi. Spinsi avanti la porta del grill ed entrai cercando di guardare altrove. Da dietro il bancone, Monica mi vide e mi salutò agitando un tovagliolo. Tolsi il berretto accomodandomi su uno sgabello.
«Hai fame o sete?» mi chiese Monica asciugando il piano del banco con la stessa salvietta con cui mi aveva dato la buonasera.
«Fame,» risposi. «Ma anche da bere non ci starebbe male. Che cosa prevede la carta?»
Mi porse il menù della serata. Lo scorsi velocemente.
«Prenderò il pollo,» dissi. Mi sembrava il piatto più sostanzioso.
«La solita porzione?»
Ci pensai su. Ero davvero affamato.
«Fammela doppia,» dissi «Puoi riscaldarlo?»
Monica lanciò un'occhiata al marito intento a lavare bicchieri all'altro capo del banco.
«Lascia stare,» disse piano. «Il pollo è di ieri.»
Si sfiorò le labbra con l'indice e tornò a occuparsi delle stoviglie. Suo marito ci stava osservando.
«Andrà bene un panino,» decisi. «Purché sia caldo. Con salsiccia. E mettici molta senape.»
Monica sorrise dandosi da fare. Presto mi trovai di fronte la mia cara birra e cominciai a sorseggiarla in attesa della cena. Da quando ero entrando nel grill, mi sforzavo di non guardare lo sconosciuto. Non era tanto facile. Inoltre stava succedendo qualcosa di nuovo. Adesso era lui che spiava me. Mi girai ripetutamente nella sua direzione, e tutte le volte fummo costretti a distogliere i nostri sguardi incrociati. Avevo notato un altro particolare. L'uomo teneva una valigetta di finta pelle ai piedi del tavolino. Ogni tanto allungava una mano e la avvicinava ulteriormente alla sedia. Pensai che avrebbe finito col mettersela sulle ginocchia.
Quando Monica mi portò il panino non potei fare a meno di afferrarle delicatamente il polso.
«Non ti ricorda qualcuno?» le chiesi sottovoce.
«Chi?»
«A quel tavolo...»
Mi voltai, rimanendo deluso. Lo sgabello era vuoto. Monica scrollò le spalle e si allontanò senza capire. Mi sentivo stupido. Non ero neppure sicuro che Monica avesse conosciuto il povero Martino. Iniziai a mangiare. Ero ancora turbato, ma una parte di me desiderava che lo sconosciuto rimanesse al suo tavolo fino al momento in cui avrei lasciato il grill. Mi ero quasi abituato alla sua presenza. Averlo vicino mi suscitava un’ondata di cari ricordi.
Martino non era una grande intelligenza. Rideva troppo e si arrabbiava facilmente. Era anche terribilmente sbadato. Camminava col naso per aria facendosi spesso male. L’energia del mio amico era pari alla sua imprudenza. Nessuno era in grado di correre tanto in fretta dietro a una palla nonostante le gambe corte e la pancia sporgente. Un’estate, calciò in rete e si afflosciò come un sacco di patate sotto gli occhi di tutti. Ci prendemmo una bella strizza, ma era solo un malore passeggero. Il medico gli parlò chiaro. Continuasse così. Uno di quei giorni, il cuore gli avrebbe detto ciao. Martino, però, aveva il dannato vizio di contraddire tutti per il semplice gusto di farlo. Una settimana dopo era venuto giù di schianto dalla scala a pioli, nella sua bottega di cartolaio. Era rimbalzato sul pavimento e s’era rotto l’osso del collo.
«Qualche moneta, signore. Per un bicchiere.»
A parlarmi era stato un uomo di media statura, con la barba mal rasata e una giacca unta sulle spalle. Non era vecchio, ma la sua faccia era ugualmente coperta di rughe. Frugai nelle tasche.
«Spiacente, amico. Non ho spiccioli,» dissi.
Non insistette, andò a mendicare più in là. Inghiottii l'ultimo boccone pensando di congedarmi subito. Il piccolo fantasma non c’era più, né vedevo nel grill qualcun altro con cui avessi voglia di conversare. Adesso volevo solo alleggerire la vescica, montare sul camion e tornare a casa per buttarmi sul materasso. Mi avviai con le mani in tasca verso la toilette, allontanai la porta con un colpo di pancia ed entrai nella stanza dalle pareti bianche.
Allora lo vidi. Si stava avvicinando all'uscita a piccoli passi, con la valigetta tra le braccia. Pensai che doveva averla portata con sé per paura di non trovarla più al suo ritorno. Mi passò accanto serrando la testa tra le spalle come un pulcino infreddolito. Lanciò una rapida occhiata al mio indirizzo e sgattaiolò fuori.
Imprecai dentro di me. Ardevo dalla curiosità di sentire se la sua voce mi fosse sonata familiare. Sarebbe bastato poco. Avrei potuto chiedergli senza parere che ora indicava il suo orologio. Avevo sprecato un'ottima occasione per rompere il ghiaccio.
Quando lasciai la ritirata, vidi che il suo sgabello era ancora libero. Adesso stava in piedi davanti alla vetrina e fissava con impazienza l’area di sosta della corriera. La sua testa ciondolava per la stanchezza.
Dovevo dare un taglio alla faccenda. Quell’uomo avrebbe avuto tutte le ragioni per fraintendere le mie occhiate insistenti. La cosa non mi garbava per niente. Basta così, dunque. Monica stava servendo un altro cliente. Le mostrai da lontano il pollice alzato. Lasciai una banconota vicino al mio piatto, misi in testa il berretto e infilai l'uscita.
M’incamminai in direzione del parcheggio, frugando nella tasca alla ricerca delle chiavi. Non appena fuori, avevo sentito che dietro di me la porta del grill si apriva di scatto e sbatteva un’altra volta. Uno scalpiccio sull'asfalto fece eco ai miei passi mentre una voce mi chiamava.
«Signore! Signore, aspetti!»
Mi girai pronto a dire che non avevo più un soldo. Ma non era stato il mendicante a chiamarmi. L'ometto baffuto mi aveva rincorso. Mi stava davanti ansante, sempre con la valigetta stretta tra le braccia. Notai che anche lui, come Martino, mi giungeva con la fronte all'altezza del petto.
«Bu... buonasera,» tartagliò. «Perdoni se la importuno. Vorrei soltanto liberarmi di un dubbio che mi tormenta da quando l'ho vista... po… poco fa. Ecco, io...»
Lo ascoltai in silenzio. Parlava velocissimo, impastando le parole. La sua voce era flebile, molto diversa da quella del mio amico.
«Per caso,» riprese, «il suo… il suo cognome è… Spurio?»
Lo guardai trasecolato. «No. Perché?»
Il viso dello sconosciuto s’illuminò di una luce bizzarra. Non riuscii a capire se si trattava di sollievo o di delusione. Sorrise debolmente passandosi una mano sul cuore.
«Oh mamma!» disse. «Mi perdoni. L'ho presa per... per qualcun altro, ecco! Le faccio una montagna di… di scuse.»
Fece per andarsene. Lo vidi indugiare davanti all'ingresso del grill senza risolversi a entrare. Tornò di corsa sui propri passi. Eravamo di nuovo l'uno di fronte all'altro.
«E' stupefacente!» esclamò «Davvero stupefacente!»
Non sapevo in che modo reagire. L’ometto mi esaminava da capo a piedi come se fossi stato una bella donna discinta o una rarissima opera d'arte.
«Avrebbe la bontà di togliersi il berretto?» mi chiese. «Solo per un momento. Per… per favore.»
Lo accontentai. L'uomo spalancò la bocca.
«Avevo visto bene,» disse. «Gli stessi lineamenti. La medesima età. La stessa forma della testa. E poi… la barba. Buon uomo, lei è addirittura un miracolo!»
Lasciò cadere la valigetta spalancando le braccia. Ebbi la sensazione che stesse per buttarmele al collo.
«Ha qualche problema?» riuscii finalmente a dire.
Si fece serio di colpo. Strinse di nuovo il manico della valigetta e si scostò da me tradendo un certo imbarazzo. «Mi scusi,» disse. «Non volevo in… infastidirla. Vada pure se deve. Non mi serve n… nulla.»
«Si direbbe, invece, che muoia dalla voglia di parlarmi,» affermai deciso a non lasciarmelo sfuggire.
L'uomo serrò le labbra e si mordicchiò la punta di un baffo tentando di spiegarsi.
«Ecco,» incominciò. «Volevo dirle che... assomiglia molto a… a qualcuno, sì. Ma...»
«Ma?» sollecitai.
«La prego,» disse un po’ più spedito. «La prego, non se la prenda. La persona che lei mi rammenta non è più tra noi da tempo e... Insomma! Non mi pareva bello dirle… così su due piedi… che quando l'ho vista... Lei capisce, ve… vero? Per favore, non si offenda.»
«Per carità,» dissi. Passai il mio braccio sotto il suo e m’avviai verso l'insegna luminosa del grill. Passeggiammo amichevolmente a braccetto lungo il piazzale.
«Qual era il suo nome?» gli chiesi.
«Lui?» disse svegliandosi dalla confusione nella quale era caduto. «Si chiamava Ciro. Oh, detestava quel nome. Non so perché, ma lo odiava. Così tutti lo chiamavano per cognome. Era un meccanico molto in gamba. Un brav'uomo, davvero. Lo conobbi durante la naia, la nostra fu una bella amicizia. Morì due anni or sono. Una trombosi, mi hanno detto. Allora mi trovavo in Austria. Al mio ritorno, ho saputo che non c’era più. Lo avevano già sepolto da un mese, poveretto.»
Stringevo il braccio dello sconosciuto tentando di contenere la mia emozione. Che strano, imprevedibile frangente! Avrei voluto parlargli di Martino, ma me ne mancò il coraggio. Avrebbe potuto pensare che intendevo deriderlo. Certo, era solo una meravigliosa fatalità. Eppure...
«E' suo quello?» chiese additando il mio camion.
«Lo guido,» risposi. «Gli automezzi sono proprietà della compagnia. Mi ha visto arrivare?»
«Oh, no,» disse. «L'ho dedotto dall'aria. Per la precisione, dall'odore che l'aria prende intorno alla sua persona. Odore di fumo, di benzina. Avrei scommesso tutto quello che ho di trovarmi davanti a un camionista. Come vede, non sbagliavo.»
«Naso fine,» commentai ridendo.
«Solo un certo intuito.»
Mi tese la mano aperta.
«Mi chiamo Leo,» si presentò. «Sono qui per un puro capriccio della sorte. Attendo la corriera.»
«Io sono Simone,» dissi. «Il mio fiuto, purtroppo, è scadente. Se vuol farsi conoscere, dovrà darmi qualche indizio. Di che cosa si occupa?»
Alzò la valigetta facendola oscillare.
«Rappresentanza,» svelò «Ma ancora per poco, mi creda.»
Indietreggiai di qualche passo appoggiandomi con la schiena contro uno dei quattro lampioni che illuminavano il piazzale. La conversazione si era fatta meno tesa, ed io non avevo più tanta fretta di andarmene.
«Padelle? Elettrodomestici, o altro?» domandai.
«Magari!» Si chinò a frugare nella valigetta. «Guardi.»
Mi trovai in mano un piccolo oggetto di forma cubica avvolto in una sottile pellicola rosa. Non riuscivo a decifrare la scritta stampata su una delle facce, ma qualunque cosa fosse emanava un nauseante odore dolciastro. Lo allontanai dal viso infastidito.
«Puzza, eh?» ridacchiò lui. «E' il peggiore sapone alle erbe prodotto negli ultimi anni. Se la sua ragazza le è venuta a noia, e non sa come dirglielo, faccia una doccia con quello. Le garantisco che non la vedrà mai più.»
Riprese il cubo dalle mie mani e lo lasciò ricadere tra gli altri campioni. Mi annusai il palmo della mano e non potei frenare un colpo di tosse.
«Mi creda,» disse. «Me ne sbarazzerei volentieri. E lo farò. Domani, nel congedarmi dalla ditta. Ha la curiosità di vedere un'altra porcheria?»
Tirò fuori un vasetto color senape. Agitai la mano per dirgli di lasciar perdere. Lo rimise al suo posto.
«Non fa per me,» disse tornando serio. «Troppe sciocchezze da strombazzare, troppi piedi nella porta. Non sono bravo a spiegare agli altri di cosa hanno bisogno. Mi si annoda la lingua anche quando chiedo un bicchiere d’acqua. Poi mi vergogno come un ladro. Non so cosa farò. Ma chi ha bisogno di questa roba?!»
Posò la valigetta sull'asfalto e la allontanò da sé con un leggero calcio. Quella ruzzolò con un cupo tintinnio. Strano! Per tutto il tempo m’era sembrato che nutrisse per quella valigetta una grande reverenza. Ad ogni modo la raccolse, la spolverò alla buona e tornò a stringerla al petto.
«Mi dica, la trattengo?» domandò. «Un momento fa stava andando via.»
Scossi il capo. Cercai nelle tasche la busta del tabacco e cominciai ad avvolgermi una sigaretta.
«E' passato da Villaggio dei Giusti?» gli domandai mentre leccavo l'orlo della cartina.
«Dove si trova?» chiese rispondendo indirettamente alla mia domanda. «Siamo stati in giro con il pullman per tutta la giornata, a presentare campioni nelle botteghe di barbiere e nelle sale di bellezza dei comuni vicini. Abbiamo attraversato un paio di frazioni. Ma ricorderei un nome come quello. E’ là che vive?»
«Già. E’ un posto simpatico.»
Bella sfiga! Se fosse passato per il paese, dove tutti rammentavano Martino, con ogni probabilità avrebbe fatto degli ottimi affari. Gli porsi la sigaretta confezionata. La rifiutò ringraziandomi. Allora la misi tra le labbra. Per tutta la durata della cicca ebbi la sensazione di stare fumando il maleodorante sapone che avevo toccato.
«Ha detto di aver viaggiato in pullman,» meditai ad alta voce. «Con un gruppo di lavoro, giusto? Però è qui tutto solo, se non sbaglio. Dove sono i suoi colleghi?»
Si strinse nelle spalle. «Mi hanno mollato qui,» disse.
Non compresi. Ma ugualmente sentii avvamparmi dentro un improvviso accesso di collera.
«Che significa "l'hanno mollata" ?»
«Non si agiti,» mi chetò lui. «Non è come può sembrare. Si è trattato certamente d'una semplice dimenticanza. Capita. Specie dopo una giornata faticosa come questa. Un po' di stanchezza, la fretta di rientrare, ed è possibile qualunque svista. Dovevamo sostare solo il tempo per fare benzina. Io ho indugiato nella toilette. Quando sono uscito, non li ho più trovati. Vede, è colpa mia. Non ne combino una giusta.»
«Ma potevano tornare a prenderla,» scattai irritato da quanto mi sentivo raccontare.
«Perché?» m’interruppe. «C'è una corriera che porta in città, no? Inoltre può essere un vero problema per l'autista di un pullman a noleggio fare marcia indietro quando incombe l'ora del rientro. Mi creda, non c'è ragione di prendersela. Domani, in ditta, mi chiederanno dove m’ero cacciato, e tutto sarà finito.»
Per qualche minuto restammo in silenzio a contemplare la strada. Io ascoltavo le cicale e riflettevo. Mi sarebbe piaciuto dire una parola ai responsabili di quell’assurdo incidente. Il mio amico si sforzava di non darlo a vedere, ma la disavventura lo aveva ferito. Ricordai che non molto prima mi aveva confidato che intendeva licenziarsi.
«Ci sono solo due corriere,» lo informai. «La prima partiva alle venti. La seconda non si fa vedere che a notte inoltrata. Possono sembrare orari bislacchi, ma vede... E’ molto poca la gente che fa la spola tra qui e la città.»
«Lo so,» rispose rauco. «La signora del grill me ne ha parlato. Comunque...» Batté le mani ridendo. «Non mi sembra di avere molta scelta, le pare?»
Scossi il capo spegnendo la cicca sotto una suola.
«Vado in città,» mentii. «Vuole tenermi compagnia?»
L’espressione con cui mi guardò era quella di chi ha vinto alla lotteria. Barcollò per un momento come se la mia offerta gli avesse rammentato che era sfinito.
«Dovrei... salire sul suo… sul suo camion?» balbettò. «E' sicuro di… di potermi sopportare?»
Risi, e nuovamente lo circondai con il mio braccio avviandomi con lui verso il parcheggio. Anche il punk che avevo visto prima era riuscito a rimediare un passaggio in città. Due attempati signori stavano lasciando l’autogrill. Lo straniero li seguiva conversando in un italiano stentato. La Ferrari non c'era più. Al suo posto era parcheggiato un furgone giallo.
Montai sul camion e tolsi la sicura allo sportello di destra. L'ometto si aggrappò alla maniglia, esitando. La tromba bitonale aveva appena fatto sentire il suo vocione. Subito dopo vedemmo spuntare la corriera con a bordo il solo conducente. La guardai passare sotto l'insegna del grill, fermarsi nello spiazzo riservato e attendere che qualcuno salisse. Finsi di non essermene accorto. Allontanai il berretto dalla fronte spingendolo su con l'indice e fissai il mio amico. Questi sembrava smarrito. Respirava pesantemente sbirciando sia me che la corriera.
«Le va di ascoltare la radio?» chiesi nel silenzio. «Se preferisce, ho delle cassette jazz.»
Si lasciò cadere sul sedile accanto al mio.
«Sa, suono la tromba,» disse chiudendo lo sportello.
Lasciai il parcheggio infinitamente più sereno di quando vi ero giunto. Mi sentivo vispo, e non m'importava di fare le ore piccole. L'ometto, ora non più sconosciuto, si era addormentato sul sedile due minuti dopo la partenza, e russava sonoramente. Spensi la radio e feci in modo di evitare le buche. Non somigliava più al mio vecchio amico. Mi ricordava molto più me stesso, che lo superavo in altezza ed ero ben diverso in tutta la figura. Assomigliavo forse più a lui che all'uomo defunto che non avevo conosciuto. Ben altra affinità ci avvicinava l'uno all'altro. Entrambi, quella sera, c’eravamo scontrati con i nostri limiti. Adesso, in qualche modo, li stavamo superando insieme.

(1986)




martedì 5 giugno 2007

L'improbabile Gulp [Racconto]

L'IMPROBABILE GULP
Racconto di Filippo Messina

Il commissario Campana non smetteva di torchiarmi. Sulla scrivania qualcuno aveva lasciato una copia del giornale del mattino. Una foto indistinta mostrava una confusa massa simile a un gorilla sullo sfondo dei giardini comunali. Senza occhiali non riuscivo a leggere per intero il titolo dell’articolo, ma indovinavo abbastanza chiaramente la parola inglese GULP. In sei ore, il poliziotto aveva consumato quattro penne a sfera. Non l’avevo visto prendere appunti neppure una volta, si limitava a tenere le Bic tra i denti per rosicchiarne lentamente la canna. Seguivo quel rituale abbandonato su una sedia scomoda, inebetito dal sonno e dalla preoccupazione. La sera prima, un agente m’aveva prestato un vecchio cappotto macchiato di caffè, ultimo gesto gentile prima di quell’interminabile maratona. Nella stanza accanto, qualcuno batteva a macchina senza sosta.
«Riproviamo, professore! Vuole?»
«Per favore, no! Mi lasci dormire. Dieci minuti su questa sedia. E’ chiedere troppo?»
«Mi rincresce, ma dovrà rimandare il suo riposino. La interrogherò ancora, e stavolta registrerò ogni parola. Se farà il bravo, le fornirò una branda dove potrà dormire qualche ora sottochiave. Ma dovrà essere più loquace. Affare fatto?»
«Che cosa vuole sapere che già non le abbia detto?»
«Professore Bizzarro, lei non ha detto proprio un cazzo di niente. Stanotte alla periferia di Berzagallo è scoppiato l’inferno. Un edificio è stato raso al suolo. Un convento di monache profanato. Una donna uccisa, e una manica di imbecilli, tra cui un foruncoloso paparazzo in erba, sostiene di avere visto un essere inumano mettere a soqquadro il quartiere. Lei, professore, è stato ritrovato dai vigili del fuoco tra le macerie del convento di Santa Brigida da Cibeca. Completamente nudo e in stato confusionale. Si ostina a dire che è del tutto estraneo a questo bel casino?»
«Sì. Non ricordo nulla. Non è colpa mia, sono malato.»
«Può darsi,» grugnì lo sbirro addentando un altro pennino. «Ma il suo malore, ieri notte, potrebbe aver causato una caterva di guai. Se non ricorda che cosa ha fatto tra le 21 e la mezzanotte, forse la dottoressa Gulisano potrà darle una rinfrescata alla memoria. L’ho fatta chiamare, sta arrivando.»
Scattai in piedi in preda al panico. «Perché ha convocato Renata? Non aveva alcun motivo di coinvolgerla. La richiami subito! Le dica di non venire.»
«Si rimetta a sedere, professore! La dottoressa Gulisano è già invischiata in questa brutta storia, le piaccia o no. Mi dica: che cosa stava facendo ieri sera intorno alle 21?»
«Avevo appena staccato dal lavoro. Il laboratorio era stato chiuso con un’ora di anticipo. Mi trovavo a casa, credo. Forse ero ancora per strada. Vado al lavoro in bicicletta, ma devo attraversare una provinciale molto frequentata. Procedo in modo prudente. Posso metterci anche mezz’ora.»
«Glielo dico io. Si trovava a casa. Era al telefono con la dottoressa Gulisano.»
«Dio! Non ricordo! Non ricordo!»
«La dottoressa Gulisano l’aveva chiamata per una comunicazione di lavoro. Poi vi siete intrattenuti per qualche minuto parlando del più e del meno. Ed è allora che la sua amica l’ha sentita farneticare...»
«Farneticare?»
«Sì. Avrebbe balbettato qualcosa riguardo alla luna. Una luna quadrata! Più altre parole incomprensibili. La quadratura della luna, per lei, sarebbe stata completa alle 12 di oggi. Quindi la linea è caduta. La dottoressa Gulisano ha provato più volte a richiamarla, ma lei non rispondeva più. Allora la sua collega ha pensato di venire a vedere se stava bene. E ha trovato il suo appartamento sottosopra come se una mandria di bufali l’avesse attraversato. Ci ha subito avvisati. Nel frattempo, al convento scoppiavano i casini.»
Mi presi la testa tra le mani.
«Che cosa posso fare? Che cosa posso dirvi?»
«Semplicemente la verità, professore Bizzarro. Il profilo che la dottoressa Gulisano ha fatto di lei è piuttosto lusinghiero. Vi conoscete dai tempi dell’università. E’ un tipo tranquillo, tutto casa e lavoro. Moderatamente ambizioso, educato e senza grilli per la testa. Mai una parolaccia, mai una lite. Eppure ci risulta che lei non è nuovo a episodi come quello di stanotte.»
Mi mostrò la fotocopia di un ritaglio di giornale. Nella foto c’ero io con qualche capello in più. «Ferruccio Bizzarro, biochimico. Giusto, no? Tre anni fa, lei si trovava in Svizzera. Lavorava al medesimo progetto che la impegna oggi. A proposito, di che si tratta?»
«Sa benissimo di che si tratta. Il progetto è noto a tutti. I giornali ne hanno parlato diffusamente.»
«D’accordo, ma voglio sentirlo da lei.»
Mi raschiai la gola. «E’ un progetto sperimentale sovvenzionato personalmente da dieci premi Nobel con la supervisione del Ministero della Sanità. L’intento è di elaborare in provetta un ormone sintetico che sia in grado di rallentare l’invecchiamento delle cellule. I lavori procedono lentamente. Ogni nostro progresso è documentato da un bollettino semestrale. Subiamo continue ispezioni… Ma che cosa c’entra questo con me?»
«C’entra eccome, professore! Non è forse vero che tre anni fa, a Lucerna, nel suo laboratorio si verificò uno scoppio? Una negligenza mai accertata provocò l’incidente, e lei fu esposto a esalazioni chimiche di dubbia natura.»
Mi corse un brivido lungo la schiena.
«Sì. Sì, è vero. Ma ebbi fortuna. La quarantena dimostrò che stavo bene.»
«Ma una settimana dopo essere stato dimesso, lei scomparve. Esattamente come ieri sera, lasciando come uniche tracce il suo camice da lavoro e una rivista pornografica dalla quale era stata ritagliata un’immagine. Nelle ore che seguirono, un maniaco energumeno mai identificato irruppe in una casa di riposo delle vicinanze. Una dozzina di vecchiette furono costrette a pratiche festaiole non adeguate alla loro bella età. Per non parlare del trauma subito dagli anziani di sesso maschile. Il mattino dopo, lei ricomparve in un piccolo bar. Malfermo sulle gambe e vestito soltanto di una casacca rubata da un filo per il bucato.»
«Non ho mai rubato niente, io! Ho soltanto preso in prestito quella casacca. Non potevo andare in giro per Lucerna con le palle al vento.»
«Va bene, non è un ladro. Ma queste sue sparizioni sono alquanto strane.»
«Ho un disturbo neurologico piuttosto raro. Non capita di frequente, ma quando succede non ricordo nulla delle ultime dodici ore.»
Il commento del commissario Campana fu preceduto dal rumore stridente dei suoi incisivi intorno alla penna. «Per altri è più difficile dimenticare! In questo caso, per quaranta giovani suore. Per il padre confessore e la madre superiora. Sono tutti in ospedale. Eccetto la badessa. Quel che ne è rimasto è attualmente in viaggio per la dimora del suo sposo celeste. Tutti i testimoni oculari sostengono che lo sfacelo sia stato opera di una creatura mostruosa. Un mastodonte dalla pelle color porpora che un giornalista coglione ha battezzato Gulp. Dalle prime ore del mattino i nostri telefoni squillano raccogliendo nuove segnalazioni di questo essere improbabile. Secondo le chiamate, nell’ultima ora, il nostro amico avrebbe fatto irruzione in un fast food, divorato tutti gli hamburger, sbancato la slot machine e rapito un’intera scolaresca riunita sopra un pullman. Io non ho voglia di scherzare! Non sono credente, professore Bizzarro, ma mi viene acido allo stomaco quando qualcuno tocca le suore. La Sorellanza del Sacro Cuore Infranto esige che il colpevole sia fermato al più presto. Tutta la cittadinanza scalpita, ed io intendo fare il mio dovere. In parole povere, lei è nella merda. Se desidera un altro termos di tè glielo farò portare. Ma non ho intenzione di lasciarla dormire neppure per un minuto se prima non mi avrà detto che cavolo faceva al convento.»
«Cristo! Come faccio a spiegarle che non ricordo?! Mi hanno trovato là, dice? Io fino a stamattina non sapevo neppure che esistesse quel maledetto convento!»
«Stamattina era lì! Svenuto e a culo scoperto! E lo è ancora, professore! Quanto è vero Iddio!»
Mi piegai in avanti di colpo. La sola idea che Renata stesse per arrivare mi riempiva di terrore.
«Devo vomitare!» strillai. «Mi lascia andare in bagno prima che le allaghi la scrivania…»
Campana non si scompose per niente. Mi guardò annoiato continuando a succhiare il pennino.
«Non attacca, professore! Nelle ultime due ore ha già avuto due scariche di diarrea. Tre conati, un deliquio e dei falsi crampi. Non conti di vedermi mollare. Se andrà al cesso ci verrò pure io. Vivo immerso nella puzza tutto il santo giorno e non mi lascio intimidire.»
«Ricordo soltanto la voce della mia collega al telefono,» singhiozzai. «Un ronzio nelle orecchie. Molto forte. Poi mi sono svegliato su dei rottami. I suoi uomini mi stavano gettando addosso una coperta. Ignoro dove ho passato la notte. Non ho avuto modo di leggere i giornali. Non mi è chiaro neppure di che cosa sono accusato. Lo capisce, questo?»
«Allora dovrò farle un riassunto!» fece lo sbirro spazientito afferrando alcuni fogli dal piano della scrivania. «Le poche monache in grado di raccontare i fatti hanno avuto molte difficoltà a esprimersi. Il sacerdote è il più traumatizzato, ma anche lui ha pasticciato qualcosa che assomiglia a una testimonianza. Il risultato è una valanga di cazzate che mi ha sepolto fin sopra i capelli. Io penso che ieri sera, insieme a lei, ci fosse un’intera ciurma di pazzoidi. Magari un manipolo di ricercatori abbrutiti che avevano fiutato la provetta sbagliata. Non ci sono ancora pervenuti i risultati delle analisi, ma sono certo che quelle povere suore in ospedale siano state tutte drogate. In che modo, Bizzarro? Chi ha architettato questo raid abominevole?»
«Lei non sa quello che dice. Il nostro è un personale molto ben selezionato. Tutti soggetti serissimi.»
«Ma davvero? Ascolti! Il primo ad avvistare quell’essere è stato il gestore della tabaccheria dirimpetto al suo appartamento. Verso le 21 e 30 di ieri sera stava chiudendo la sua bottega quando ha sentito un fragore tremendo provenire dall’edificio di fronte. E’ corso in strada e ha fatto in tempo a vedere il portone del numero 36 (dove lei vive) andare in mille pezzi. Subito dopo una massa enorme di colore viola è balzata fuori ringhiando. L’uomo sostiene che in quell’istante la strada si è riempita di un insopportabile tanfo di gatto in calore. Il gigante si è fatto una passeggiata sopra una fila di auto parcheggiate riducendole a un mucchio di rottami e il testimone si è pisciato nelle mutande per la fifa. Il colosso però non gli ha torto un capello. Lo ha guardato per un istante, deglutendo forte. Quindi è corso a tutta birra in direzione del convento di Santa Brigida da Cibeca.»
«Per pietà, la smetta! Non voglio sentire!»
«Ascolterà tutto, invece! Le povere ancelle del Sacro Cuore Infranto erano convinte di poter dormire sonni tranquilli. Dopo alcuni piccoli furti nel frutteto del convento, Madre Osvalda Mogogon, loro badessa, era corsa ai ripari. I muri di cinta erano alti cinque metri, disseminati sui bordi di cocci taglienti. Il convento era stato fornito di porte blindate molto solide e anche di un efficace dispositivo antifurto. Un intero commando di teppisti non avrebbe potuto espugnare il loro fortino benedetto. Perché così, fino a ieri sera, lo chiamavano quelle malcapitate monache. Sicuramente non si aspettavano un ospite che bussasse alla loro porta con la forza di un uragano. Suor Marcella Astragalo ha testimoniato che la comunità era riunita per la recita del rosario quando la novizia Teresina Cucù ha fiutato per prima quella tremenda puzza.»
«Che Cristo di puzza?»
«Ancora di gatti! Piscio fetido di bestia eccitata. La prima cosa che le sorelle hanno pensato è stata che qualche ragazzaccio, non riuscendo più a scavalcare il muro, si fosse vendicato lanciando all’interno un gatto morto. Solo che il fetore era tale che di gatti dovevano essercene cento. La novizia si è offerta di andare a vedere in cortile. Sulle prime, le ancelle non hanno dato troppo peso all’inconveniente, sia pure fastidioso. Hanno ringraziato Teresina e continuato a pregare con il naso turato. Devo andare avanti?»
«Mi dica soltanto di che cosa sono accusato!»
«Ma la novizia non è tornata per finire il vespro. La ragazza era appena uscita quando la sirena dell’antifurto ha cominciato a strepitare. Di lì a poco le sorelle hanno udito uno schianto terribile, un grido di terrore e un ruggito animalesco. Sono subito corse nel patio e hanno trovato... Vuole continuare lei, professore?»
«Non saprei che cosa dire.»
«...una breccia enorme nel muro. Il portone esterno sfondato, un cumulo di detriti e una gran puzza. Teresina Cucù giaceva in mezzo al cortile, pietosamente priva di sensi, con la veste strappata. Su di lei si curvava qualcosa che Sorella Marcella, con fede irriducibile, ha definito “un demone impudico”. Una creatura orripilante, alta quasi tre metri, gonfia di muscoli come chi ha ciucciato anabolizzanti dalla tetta di mamma. La suora descrive i suoi lineamenti come un grugno da cinghiale adornato da una barbaccia da satiro. Il cranio schiacciato, in parte calvo, ma anche irto di lunghi ciuffi neri che ricadevano sulle spalle come fasci di serpi. Le rammenta qualcuno che conosce?»
«La faccia finita!»
«Suor Marcella riferisce che il mostro era nudo e che la sua pelle aveva un immondo colorito porporino. Ma la cosa che maggiormente ha riempito di orrore quelle menti caste, è stata la raccapricciante esibizione dell’attrezzatura creapopolo dell’essere. Una bocca da fuoco di cinquanta centimetri, grossa come un cocomero, incazzata marcia! La creatura s’era impadronita della novizia e stava tentando di introdurre la sua arma tra le cosce della poveretta. Mi schifa il solo pensare che c’è riuscito. Le sorelle non hanno potuto impedire il mostruoso stupro. Ritenevano, in verità, che con quel siluro nella pancia, la loro amica fosse già finita in braccio al creatore. Con un concerto di strilli, sono corse a rifugiarsi dentro il convento. Sprangate tutte le porte, hanno provato a chiamare soccorso telefonicamente. Oh, non che fosse necessario! Il fracasso d’inferno dell’effrazione aveva già allertato tutto il quartiere. Stavano comunque per comporre il numero del pronto intervento quando le pareti dell’edificio hanno cominciato a tremare...»
«Perché mi racconta questo? In nome di Dio! Perché?»
«Perché sono un chiacchierone, professore. Mi piace parlare. Lei ha recitato la parte della mummia per tutta la notte. Se non parla lei, lo farò io, e starò a vedere quali sono le sue reazioni!»
  «Butta via il suo tempo!»
«Non credo proprio. Le mura del convento si sono letteralmente sbriciolate. La cosa là fuori aveva fatto due buchi nel cemento, agguantato un pilastro e strappato il telaio dell’ingresso come si apre un pacchetto di sigarette. Io penso che in realtà sia stato usato dell’esplosivo al plastico. Ci sono anche un paio di testimoni che confermano di avere udito l’esplosione. Il risultato resta comunque lo stesso. Pietre e polvere sono piovute sulle monache, e il mostro ha fatto irruzione nel convento. Lì ha cominciato la sua orribile caccia. Unico intento: scopare quante più suore possibile. E’ probabile che aspirasse a un primato, e se davvero si fosse trattato di un solo individuo, sarei quasi tentato di complimentarmi con lui prima di sparargli in fronte. Non appena dentro, ha acciuffato la monaca più vicina, le ha strappato il velo, la gonna, tutti i suoi paludamenti, e zaffete! Su e giù come una molla impazzita. Le copule della creatura erano molto brevi, trenta secondi o giù di lì. Ma dopo ogni fottuta il maledetto dimostrava un’ineffabile capacità di ricarica. Da quando è piombato nel convento le suore non hanno visto il suo cazzone ammosciarsi neppure per un istante. Qualche bella spinta con la pancia in fuori. Una spruzzata puzzolente e via! Addosso a un’altra. E intorno era terrore, urla, disperazione...»
«La finisca! Mi sta distruggendo!»
«Perché, Bizzarro? Che cosa sa lei di questa tristissima storia? Che cosa ci faceva nel convento?»
Un agente c’interruppe. Mostrò al commissario alcune carte da firmare. Finalmente lo sbirro poté usare la penna rosicchiata per il suo scopo originale. Quando fummo di nuovo soli, la sostituì tra le labbra con una penna a scatto.
«Quaranta, professore! Quaranta suore selvaggiamente violentate. Le poche che sono riuscite a fuggire sono ancora sotto shock. Per quanto rassicurate, si ostinano a credere di essere state violate come le altre. Deve essere stato un vero inferno, lì dentro. Sorella Pucci racconta che Suor Marcella è stata ghermita nel refettorio. Il mostro ha giocato con lei né più né meno fosse una bambolina. L’ha impastata fino a ridurla una polpetta e l’ha infilzata sul suo spiedo fetente. Le povere disgraziate hanno tentato di raggiungere le uscite di sicurezza. Ben poche ci sono riuscite. Al sacripante bastava percuotere il pavimento con un piede perché le suore cascassero a terra come birilli. Dopodiché andava per funghi. Il suo fulmineo (ma devastante) sistema di accoppiamento non ha lasciato tregua alle prede. Ne scopava una e già agguantava la prossima per il velo. Lungi dal placarsi, l’eccitazione di quel bastardo cresceva. Sorella Pucci dice che il terribile tanfo emanato dal mostro aveva finito con lo stordirle tutte. Giravano come impazzite senza riuscire a trovare l’uscita. Credevano di fuggire, invece si gettavano in pasto al leone. Pucci è stata deflorata in biblioteca, sopra un montarozzo di volumi di teologia. Ha testimoniato che il Golia di porpora s’è intrattenuto con lei per tre sessioni consecutive. Un minuto e mezzo per un charleston indimenticabile. Quando le è stato chiesto se disponeva di un cronometro, ha perso i sensi e non ha parlato più. Sospetto che si tratti della vanità di una monachella ancora giovane. Ma è conciata piuttosto male.»
«Come osa parlare così? Quella poverina potrebbe essere rovinata per tutta la vita!»
«Com’è sensibile tutto a un tratto! Ascolti questa. Padre Giovanni Scempio, il confessore delle ancelle, si trovava al convento. Un uomo di sessant’anni, piuttosto duro d’orecchi. Pare fosse in bagno quando l’attacco è iniziato. Dapprincipio ha pensato a un terremoto. Ha alzato l’orlo del talare ed è corso a perdifiato verso l’uscita principale per mettersi in salvo. Là si è trovato davanti a una scena raccapricciante. Una dozzina di suore seminude, ammucchiate per terra come fette di pane tostato sul vassoio della prima colazione. Il mastodonte ne tirava su due per volta spruzzandole di senape a più non posso. Terrificato, il prete ha tentato la fuga, ma il mostro non l’ha lasciato andare via indisturbato. Lo ha inseguito lungo il corridoio delle camera da letto percuotendo più volte il pavimento. Il padre confessore è stramazzato privo di sensi sul linoleum a pochi metri da un’uscita di sicurezza. Al suo risveglio s’è ritrovato defraudato dell’unica verginità che ogni vero uomo conserva per tutta la vita. E’ anch’egli ricoverato con prognosi riservata. Da stanotte si trova steso a pancia in giù sul suo letto d’ospedale. Fissa il muro e ripete incessantemente l’atto di dolore.»


«Basta! Non sono obbligato a starla a sentire!»
«Sbagliato! Ora viene il meglio. Dopo i primi minuti di terrore, l’energica Madre Osvalda è tornata padrona di sé, ed è passata al contrattacco. Il mostro si spostava tanto velocemente che raggiungere l’uscita senza incontrarlo era praticamente impossibile. Così, la superiora ha deciso di ricorrere a una risorsa imprevedibile. Sorella Muzio afferma che la corpulenta badessa ha tirato fuori un mazzo di chiavi dalla sottana, si è precipitata nello scantinato e n’è uscita pochi istanti dopo armata fino ai denti come un autentico marine. Madre Osvalda è stata vista correre incontro al mostro e girare l’angolo del refettorio. Subito dopo sono iniziate le detonazioni. Anche questo particolare della vicenda è decisamente oscuro, e richiede tutta la nostra attenzione. Che le ancelle del Sacro Cuore Infranto disponessero di un arsenale da guerra, è un fatto certo. Sorella Muzio (una delle pochissime a essersi salvate dalle attenzioni del bruto) ha testimoniato che né lei né le sue consorelle erano a conoscenza della presenza di armi nel convento di Santa Brigida. Le autorità ecclesiali non si sono ancora sbottonate, ma qualche indiscrezione fa supporre che l’arsenale facesse parte di un piano fanatico per fronteggiare le offensive dell’anticristo al momento dell’Apocalisse. Uno stronzo di giornalista investigativo ha tirato fuori dal cappello il “progetto delle Sette Trombe”. Un piano di guerra che la chiesa starebbe preparando contro la Bestia 666 dall’inizio del ventesimo secolo. Tutti gli enti religiosi si sono chiusi a riccio, ma se ci sono altri conventi militarmente attrezzati, lo scopriremo presto. Dicono che Madre Osvalda Mogogon fosse l’unica custode delle armi. Io ci credo poco. Fucili e bazooka necessitano di una manutenzione costante per funzionare al momento del bisogno, la superiora non poteva essere l’unica a occuparsene. Quel che sappiamo con discreta certezza, è che la badessa ha imbracciato una carabina da guerra ed ha affrontato il mostro nella sala ricreazione. La Muzio, che ha seguito la superiora in quest’impresa disperata, dice di aver visto la creatura ricevere in pieno petto una raffica che avrebbe steso King Kong. A quanto pare, le ferite dell’essere sembravano espellere spontaneamente le pallottole e cicatrizzarsi nel giro di pochi secondi. L’essere non ha gradito affatto quel diversivo, e ha ripreso a demolire il convento. Madre Osvalda (più furiosa di lui, me lo lasci dire) ha consumato due interi caricatori. Visto che la purga non sortiva alcun effetto, ha urlato alle sorelle ancora in piedi di trascinare in salvo quelle a terra, e s’è lanciata in un corpo a corpo con la creatura.»
«Ammirevole! Veramente ammirevole!»
«No. Semplicemente imbecille. La badessa ha dimostrato di conoscere varie forme di arti marziali. E’ stata vista saltare ripetutamente colpendo la creatura agli occhi e ai coglioni. E’ anche riuscita a fargli piuttosto male. Madre Osvalda pesava quasi duecento chili e aveva il cuore di un leone. Ma era anche pericolosamente pazza. L’ultima volta che Sorella Muzio l’ha vista, prima di abbandonare il convento con le donne ferite, la badessa era abbracciata al mostro e ballava con lui un tango delirante. La creatura le stava strappando il braccio dalla spalla e lei gli schiacciava l’uccello sotto il calcagno. Dunque quella fanatica ha tirato fuori dai mutandoni una granata, e ha strappato la sicura con i denti facendo saltare in aria quel che restava dell’edificio.»
«Santo cielo! E’ così che è andata?»
«Due suore affermano di aver visto la badessa con la granata in bocca mentre a gesti le esortava a fuggire. Per me è un bel pastrocchio! Il Santa Brigida da Cibeca, per tutti in città, era un pio convento. Scopriamo ora che era un fortilizio che preparava la resistenza alle forze delle tenebre. Il mondo della politica è in subbuglio. La curia dovrà rispondere a molte domande riguardo ordigni esplosivi e soldatesse col velo. Se questa è una religione di pace, capisco i recenti successi del misticismo orientale.»
«E sì!»
«Ma non è finita! Quando il polverone si è diradato, il mostro era ancora lì. Accucciato tra le macerie. Senza neanche un graffio. C’è chi afferma di averlo visto banchettare con i resti di Madre Osvalda. Leccarsi i baffi mandando giù le trippe e spolpare per bene una coscia come se fosse stata quella di un tacchino.»
«No! E’ troppo! A questo non crederò mai!»
«E perché, dopotutto? Finito il pasto, la creatura si è alzata. Invece del ruttino ha emesso un sonoro rumore di deglutizione che ha fatto tremare il quartiere una seconda volta. Per questo, un cronista imbecille ha deciso di chiamarlo Gulp. Dunque si è rifugiata lentamente tra i pochi ruderi ancora in piedi. I nostri sono arrivati poco dopo. Non c’era traccia di mostri porpora, ma hanno trovato lei, Bizzarro. Lei con il pisello di fuori, svenuto tra le macerie.»
«Se le cose sono andate così... Potrebbe spiegarmi come mai non mi trovo anch’io all’ospedale con tutte le altre vittime?»
«In primo luogo perché sta benissimo. E soprattutto perché non aveva alcun motivo di trovarsi al convento. Lei sa qualcosa, Bizzarro. E adesso me la dirà! Dovessi svitarle le braccia dal tronco.»
«Stia attento a quello che fa. Non esiterei a denunciarla.»
«Faccia pure. Quaranta suore! Che schifo! Sa che cosa penso, professore? Che lei, in compagnia di qualche altro pervertito laureato in biologia, abbiate introdotto un allucinogeno nelle riserve d’acqua del convento di Santa Brigida. Quindi, siate riusciti a introdurvi tra le suore terrorizzandole a morte con i vostri giochini depravati. Quello che non potevate aspettarvi era la reazione guerresca della badessa.»
«E tutte le persone che hanno visto quella creatura attraversare la città? Qualcuno ha scattato una foto, no?»
«Non dica cazzate. Le foto si possono truccare, e la gente ha sempre sparato stronzate esplosive. Non provi a scaricare le sue responsabilità su quell’improbabile babau. Quello che mi preme sapere, professore, è quanti eravate ieri notte! Che cazzo vi siete bevuti per fare un simile macello?»
«Giù le mani! La avverto!»
«Sono io che avverto te, stronzo! Se me li fai girare, ti riempio di botte!»
Un poliziotto in borghese interruppe provvidenzialmente l’interrogatorio. Campana mollò il bavero del cappotto ed io ricaddi a sedere. Tutto a un tratto non avevo più sonno.
«La signora Gulisano è arrivata,» disse lanciandomi un’occhiata assassina. «E’ molto preoccupata per il suo collega. Insiste per vederlo. Che cosa devo fare?»
Il commissario Campana sputò la penna rosicchiata. Le sue mani corsero d’istinto a ravviare il nodo alla cravatta. Per un attimo colsi un accento civettuolo nel granitico piedipiatti, ma fu soltanto una scintilla nella notte.
«Accompagnala qui. Non c’è ragione per farla aspettare. Anche lei vuole vederla, vero?»
Si sbagliava. Le mie mani tremavano come pure le ginocchia. Campana non poteva immaginare il pericolo. La presenza di Renata nella stanza poteva avere un esito semplicemente disastroso.
«Non desidero incontrarla!» dissi di getto. «Tenga la dottoressa Gulisano fuori da questa storia. Mi metta pure in cella! Se la fa entrare qui, io non dirò più una parola.»
«Sono proprio curioso di mettervi a confronto, invece. Stia seduto, “professore”. La lezione sta per incominciare.»
Renata entrò. Io mi sentivo morire. Che Dio mi aiutasse! Nonostante il leggero sovrappeso, Renata è il tipo di donna che migliora con gli anni. Persino l’espressione angustiata di quella mattina le conferiva un’avvenenza non comune. Anche lei aveva trascorso una notte insonne. I riccioli biondi, un po’ arruffati, sparsi sul viso pienotto la rendevano dolcemente selvatica. Non appena mi vide, i suoi occhi si riempirono di sollievo.
«Stai bene?» mi chiese subito. «Mi sono tanto preoccupata.»
Il commissario Campana si schiarì la gola.
«Dottoressa Gulisano, le auguro una buona giornata. Devo pregarla di sedersi. Ho qualche domanda anche per lei.»
«Prima di tutto vorrei capire!» Squillò Renata. «Mi è stato detto che avete trattenuto il professore per tutta la notte. Quando vi ho chiamati ero spaventata a morte. Ma nessuno si è degnato di avvisarmi che era stato trovato se non stamattina. Voglio sapere che cosa succede. Di che cosa è accusato il mio collega? Ha avuto modo di consultare un legale?»
Non potei fare a meno di sorridere. Conoscevo bene il carattere eroico di Renata. Eravamo una squadra già nei campus universitari, e non avevo mai avuto problemi ad ammettere chi tra noi fosse il capo. Pensavo a Renata come all’unica donna della mia vita. Contava poco il fatto che ci scambiassimo solo formali baci sulla guancia. Ero consapevole che le mie brevi relazioni amorose non erano state che il pallido riflesso di un sentimento più profondo. La generosa rotondità dei seni di Renata sotto la blusa celeste era un balsamo per il mio spirito fiaccato. Nel medesimo tempo mi riempiva di un terrore devastante.
«E’ tutto perfettamente in regola, dottoressa. Si accomodi, ora. E mi dica: ha rammentato qualche altro dettaglio riguardo ieri sera?»
«Che cosa intende dire?»
«Ha sentito il suo collega dare i numeri per telefono. Non ha notato se tirava su con il naso? Aveva la voce impastata, o roba del genere?»
Renata mostrò i denti simile a una leonessa che difende il cucciolo.
«La pianti con le stronzate! Tutti i componenti del nostro staff sono sottoposti a regolari check-up all’inizio di ogni anno. Sono previsti anche dei test per verificare eventuali presenze tossiche nei loro organismi. Qualunque soggetto non in grado di svolgere lucidamente il suo incarico sarebbe immediatamente allontanato. Il professore Bizzarro è astemio. Tanto meno fa uso di stupefacenti.»
«Il professore afferma di avere un generico disturbo neurologico. Suppongo che questo risulti anche dai vostri controlli.»
Mi morsi il labbro. Quel figlio di puttana mi stava inchiodando. Renata mi guardò e per un istante la sua maschera di sicurezza scivolò rivelando il volto sgradevole dell’incertezza.
«No, non esattamente. Il professore è stato vittima di un incidente sul lavoro circa tre anni fa. Dei contenitori di liquidi sperimentali sono esplosi e il suo corpo ha assorbito una parte dei vapori. L’unica anomalia segnalata dalla quarantena è stato un lieve scompenso ormonale che gli provoca occasionali vertigini. Un problema che si può facilmente tenere a bada con i farmaci.»
«Il suo collega ha parlata di un problema a livello cerebrale.»
«Deve averlo sicuramente frainteso.»
«Dottoressa Gulisano, vorrei che mi parlasse di quanto è successo in Svizzera tre anni or sono. Lei c’era, no? Il professore Bizzarro scomparve anche allora. Negli spogliatoi fu rinvenuto il suo camice lacero e un magazine per soli uomini.»
«Ah, quello! Non me ne parli.»
«Perché?»
«Allora spopolava una ragazza copertina. Come diavolo si chiamava? Una bionda tettosa, un quarto di manzo assolutamente indigesto. Mi capitò di sentir dire tra i colleghi maschi che quella specie di bambola mi assomigliava. In quei giorni feci un occhio nero a un paio di sporcaccioni. Sa, circolava un servizio fotografico disgustoso. Quella donna, nuda e unta di maionese, che faceva giochi strani con una coscia di pollo. Non so dire se quella cretina mi somigliasse per davvero, ma certo non è piacevole sapere che tutti gli uomini nei paraggi ti immaginano mentre ti rotoli a chiappe nude tra lenzuola di lattuga.»
«Mimì Fucsia. Durò solo una stagione. Poi si diede alla politica con un piccolo partito di destra.»
«Prego?»
«Mimì... Il nome di quella spogliarellista. Sì. In effetti, le somiglia molto.»
«Se lo dice lei. Ma tutto questo che c’entra?»
«Non molto. Comunque il professore Bizzarro scomparve.»
Renata si mise più comoda sulla sedia assumendo un’espressione di sfida. Accavallò le sue belle gambe con la consueta eleganza. I miei peggiori terrori stavano diventando realtà. Per l’amor di Dio! Purché non le saltasse in mente di parlare di cibo...
«Non ho nulla da dire a questo proposito. Il giorno in cui accadde avevo lasciato Lucerna per degli affari personali. So comunque che il collega aveva avuto un malore. Probabilmente i postumi dello stress subito nelle settimane seguenti all’incidente. So anche che si riprese in modo perfetto.»
«Forse... fino a ieri sera. Stavate parlando quando ha sentito il suo amico perdere il controllo.»
«Ho detto di aver sentito il mio collega stare male. Ed ora basta! Non intendo aggiungere altro.»
Renata si alzò. Mi fu vicina prima che potessi accorgermene. Il tocco della sua mano sul mio viso mi rincuorò un poco. Nello stesso tempo mi sconvolse come uno scolaretto. C’era qualcosa di nuovo nel suo sguardo. La paura per la mia sorte aveva messo a nudo un elemento che non ero mai riuscito a cogliere. Per la prima volta pensavo che l’affetto di Renata nei miei confronti andasse al di là di quanto non avessi osato sperare.
«Ora ti porto via,» disse a labbra socchiuse. «Dammi il tempo di chiamare l’avvocato Malatasca.»
«Spiacente, dottoressa,» gracchiò il commissario Campana. «Ma non finisce qui. Può rivolgersi a chi vuole, ma non potrà portare via il suo amico ancora per un bel po’. Rappresenta il principale indiziato di una tristissima storia.»
«Ci crederò quando lo dirà il mio legale. Provvedo subito a chiamarlo.» Tornò a rivolgersi a me. Il suo tono era dolce. «Hai mangiato qualcosa? Posso portarti delle ciambelle, se vuoi. Più tardi, a casa... (perché ti riporto a casa, ci puoi giurare!) potrei farti delle lasagne. Mia madre mi ha appena dato la ricetta di un ragù di carne veramente ottimo. Vedrai, ti rimetterò in piedi in un baleno. Il tuo appartamento è ridotto a un campo di battaglia. Ma non devi sforzarti di ricordare cos’è successo. Non ora, almeno...»
Il respiro di Renata sul mio viso era caldo. Le sue labbra rosse, tanto vicine alle mie, erano una minaccia. Dio, ti prego, no! Non ora, non qui! Renata non conosceva il suo potere su di me. Un potere esclusivo, devastante. Non c’era mai stata un’altra donna in grado di portare la mia passione a livelli tanto elevati. Per un lungo periodo ero riuscito a imbrigliare la mia sensualità tuffandomi a capofitto nel lavoro, ma adesso cedevo. Cedevo come già la sera prima. Il seno di Renata era poca cosa in confronto alle seduzioni della sua voce, così musicale e insinuante. Anche quando giungeva attraverso il filtro impersonale del telefono. Cristo santo, aiuto! Renata, non ripeterlo! Taci. Taci, adesso!
«Se preferisci, potremmo recuperare il programma di ieri sera,» snocciolava il mio sole personale. «Potremmo andare in centro a mangiare una pizza. Ma sì! Birra, patatine... Una bella Napoli! Pomodoro, tante acciughe e poca mozzarella. Così ti svagherai. Se ti va, dopo potremmo prendere delle crêpes. Al cioccolato. Sono le tue preferite, no?»
Non sapeva che cosa stava facendo. Intendeva rincuorarmi, invece mi straziava. Potevo sentire il mio inguine pulsare in modo innaturale. Perché, Renata? Quale mistero ti rende così sexy ogni volta che progetti i piaceri della tavola? Non m’inganno, è vero! La prospettiva di mordere una salsiccia ti rende vacca più di cento carezze in mezzo alle cosce. Il tuo respiro si fa pesante, la tua voce di velluto. Allora anche in me si accende un appetito delirante...
«Oh Dio! Ferruccio, ti senti bene?»
L’ultima cosa che vidi prima di perdermi nelle nebbie fu l’orologio a muro che segnava mezzogiorno. Il mio sguardo si perse fuori della finestra. Nel cielo avrebbe dovuto sorridermi il bel sole di maggio, invece vedevo un largo quadrato argenteo scintillare pallido contro uno sfondo blu. Intanto un ronzio opprimente mi invadeva le orecchie soffocando i richiami preoccupati di Renata e le imprecazioni del commissario Campana. Inutile opporsi, ormai lo avevo irrimediabilmente duro. Il mio ultimo pensiero razionale fu il timore che Renata potesse vedere l’erezione sbucare tra i bottoni del cappotto. La sua voce continuava a solleticarmi da capo a piedi come una tiepida doccia afrodisiaca. La coltre purpurea calò davanti ai miei occhi e Ferruccio Bizzarro abbandonò la scena.
C’era qualcosa di diverso, stavolta. La metamorfosi fu rapida, ma in qualche modo conservai un barlume di coscienza. La bestia generata dalla passione e dai vapori sperimentali del laboratorio, emerse dalle mie carni lacerando il cappotto e riempiendomi in pochi istanti di muscoli possenti. Renata mi guardava con occhi dilatati, ma senza un filo di paura. Credo che avesse sempre sospettato un mio legame con il mostro di Lucerna. La creatura che adesso era chiamata Gulp. Quando il membro si alzò dal mio inguine, immenso come l’albero maestro di un veliero, nei suoi occhi di scienziata vidi danzare abbracciate la curiosità e la concupiscenza.
Il commissario Campana, strillava come un ossesso. Non ero più in grado di capire che cosa stesse dicendo. Vidi che si turava il naso con una smorfia disgustata e impugnava la pistola d’ordinanza. Arrivò di corsa altra gente e iniziò la sparatoria. Sentivo frizzare addosso i proiettili come piccole punture, fastidiose ma sopportabili. Sbattei il tallone con forza. I vetri delle finestre andarono in pezzi e gli omuncoli caddero frastornati sul pavimento. Con due sole dita, sollevai la scrivania del commissario e gliela scaraventai addosso. Quindi sentii il bisogno di deglutire.
Campana mi puntava ancora contro la pistola squittendo in una lingua incomprensibile. Esplose due colpi, forse tre. Non dovetti far altro che allungare una mano e agguantare quel dispettoso ranocchio per i capelli. Scalciò come un forsennato mentre lo sollevavo dal pavimento. Il cranio del microbo era molle come una focaccina. Meditavo di dare una nuova forma alla sua testa, ma la donna bionda protese disperatamente le mani verso di me. Capii che non lo avrebbe trovato carino. Scagliai il piedipiatti urlante attraverso la stanza. Atterrò contro il distributore d’acqua con un tonfo fragoroso. Giacque per terra privo di sensi in un caos di carte, di liquidi e bicchieri di plastica.
Renata ripeteva implorante una sola parola. Non riuscivo a decifrarla, ma certamente si trattava del mio nome. Sollevai tra le braccia quella creatura impavida ricevendo estasiato le sue carezze. Ricordavo confusamente di avere cercato a lungo quell’essere adorabile, e di avere ripiegato, in sua assenza, su alcuni scialbi surrogati. Essa mi parlò dolcemente sfiorandomi con le dita il petto e le cosce, indugiando sulla tumescenza maestosa del pene. Pur senza capire ogni parola, potevo percepire nel suo tono tutta la musica dell’amore, ma anche una fervida esortazione a fuggire. Suoni stridenti che giungevano dalla strada preannunciavano l’arrivo di nuovi insetti molesti.
Sfondai la parete con una testata. Decine di pidocchi urlanti si sparpagliarono in tutte le direzioni mentre saltavo sopra l’isolato. Un secondo balzo mi portò fuori dell’abitato. Allora sfrecciai verso il confine e quindi alla volta delle montagne. Vedevo ancora davanti a me la bella finestra argentata. Il quadrato lunare di mezzodì che mi attirava verso un destino d’amore infinito. Lo inseguii per parecchie leghe stringendo al petto il mio tesoro. Le rocce e l’odore degli animali annunciavano a gran voce il trionfo della libertà. Presto avrei trovato una grotta. Là, io e la mia donna, avremmo dimorato felici negli anni a venire.
La natura ci apriva benevola le sue braccia. Nel nostro futuro vedevo fiumi di diletto e un’allegra nidiata di scoppiettanti gulpini.

[1999]


sabato 16 dicembre 2006

Docet - Racconto


DOCET
Racconto di Filippo Messina


La notte del 16 agosto 1987, alla vigilia del suo settantacinquesimo compleanno, Ambrogio Grattenna, rizzatosi improvvisamente a sedere sul materasso, gridò con quanto fiato aveva in gola che le locuste avrebbero invaso il paese.
Purtroppo, era solo l'inizio di una febbre che avrebbe continuato ad ardere per più di un anno prima di ridurre definitivamente in cenere quella che era stata la mente più brillante del villaggio. Lo sconcerto dei paesani fu grande, giacché Ambrogio era considerato una quercia saggia e spesso i giovani lo additavano quale esempio di vigore e lucidità. Le cose, ahimè, stavano cambiando per sempre. Quell'intelletto sopraffino era tragicamente cagliato e al posto del vecchio maestro restava uno stolido energumeno che presto sarebbe sceso nella fossa.
In un breve elogio, scritto dal notaio Antonio B in occasione dei funerali, il maestro Grattenna fu definito con toni lirici: "Arca spaziosa traboccante dottrina e sagacia, nella quale erudizione e bontà d'animo vivevano concordi a dispetto degli anni grami e dell'ambiente arido in cui vennero a sbocciare."
Parole sincere, che molti vecchi allievi del compianto Ambrogio sottoscrissero con una mano sul cuore. Oggi, nella scuola di Villaggio dei Giusti, tra la carta dell'Europa e l'ingresso allo schedario, un ritratto ingiallito rammenta a tutti il volto austero del maestro. E ogni mattina, al cospetto di quelle basette venerande, scoprono il capo insegnanti e bidelli, tributando un istante di silenzio alla memoria dell'illustre fondatore.

«Io fui il primo dei suoi allievi» dice lo spazzino Ugo P torcendosi un tantino imbarazzato nella tuta sudicia. «Credeteci o no, è con me che iniziò il suo lavoro d'insegnante. In paese incontrerete una caterva di bugiardi che dicono d'essere stati il suo primo scolaro. Sfido! C'è da leccarsi le dita nel poterlo raccontare. Ma io conservo ancora una vecchia prova di scrittura corretta da Ambrogio, con tanto di data e la sua firma. E quella, porcocane, è vera come il Vangelo!
Alla fine della guerra, Ambrogio tornò in paese senza neppure un graffio e si rimboccò subito le maniche. Una sera, rientrai in casa passando per l'orticello e sentii i miei parlare con un estraneo nella cucina. Non riconoscevo la voce, ma mia mamma lo chiamava per nome. Ambrogio. L'uomo stava dicendo di avere studiato lettere, di avere molte idee e di voler provare a trasmettere qualcosa. Diceva anche che i tempi stavano cambiando e che era il momento di ricostruire Villaggio dei Giusti a partire dai paesani. Allora non capivo bene, ma i miei genitori sembravano molto interessati alle sue chiacchiere. Papà non aveva mai imparato a leggere e mia mamma sapeva fare appena qualche conto elementare. Ambrogio era molto persuasivo. Le bombe avevano ridotto il nostro paese uno straccio, diceva, ma ci saremmo rimessi in piedi. E il primo mattone dovevano essere i ragazzi. Alla fine, la mamma baciò Ambrogio su una guancia e papà tirò fuori la bottiglia di vino che teneva nascosta nella stalla. Brindarono. Non so a che cosa, ma lo posso immaginare. Fui affidato alle cure di Ambrogio già l'indomani. Per gli adulti la guerra era finita, ma per me, piccolo somaro, stava per iniziarne un'altra.
Ambrogio mi aspettava ogni giorno alle quattro del pomeriggio. Io avevo sette anni ed ero un cinghialetto ribelle. Me ne sbattevo di leggere, di scrivere, del più, del meno, della storia e di quella lavagna color merda di capra. Quindi me la davo a gambe ogni volta che potevo, ma Ambrogio… Caspita! Era un vero cagnaccio. Potevo correre fin sul lago, accovacciarmi nell'erba alta della campagna o nascondermi tra le fascine nel capanno di mio zio. Giungeva sempre ad acciuffarmi per un orecchio. Si spostava su un calessino in legno d'abete, veloce come il vento e puntuale come il raffreddore. Le lezioni le teneva in casa sua. La stessa vecchia, grande casa che oggi è la scuola dei nostri figli. Si può dire che Ambrogio mi ficcò in testa l'ABC a viva forza, riempendomi di concetti e pizzicotti. Intanto prendeva al laccio altri marmocchi. Giovannino, il figlio del fornaio, mio cugino Melchiorre, Silvestro il pidocchioso. Le lezioni di Ambrogio non duravano meno di quattro ore. Poi ci conduceva nel giardinetto attiguo per farci fare un po' di moto. Per un'altra ora d'inferno ci imponeva una serie di esercizi, flessioni e roba del genere. Sul finire della mattina, ci dava una palla mezza sgonfia e si allontanava un tantino per lasciarci giocare…»

Il maestro è ricordato altrettanto bene dal notaio Antonio B, autore del suo elogio funebre. Il notaio è al centro di un episodio pittoresco. In paese si racconta che Ambrogio, per prima cosa, gli insegnò a riconoscere le stelle. Nel sentirlo ricordare, Antonio ride di gusto. Poi commenta:
«L'astronomia? Che sciocchezza! Ancora gira quella vecchia storia? Beh, il paese è pieno di contafrottole. Ne sentirete raccontare tante, ma fui io il primo fanciullo che imparò a scrivere per merito di Ambrogio. Il maestro Grattenna aveva creato un personalissimo abbecedario. Non si fidava a sufficienza dei testi didattici reperibili in città. Né col senno di oggi potrei dire che si sbagliava. Soleva dare inizio ai propri corsi esortando innanzi tutto l'allievo a disegnare. Ma in verità, pochissimo era lasciato alla fantasia dei bambini. Ogni animale che ci ordinava di ritrarre doveva riprodurre un modello ben preciso che egli stesso disegnava su una lavagnetta. L'orso aveva una grande testa tonda come la O con la quale iniziava il suo nome. La mosca due larghe ali che ricordavano una M, e via su questa traccia con grande inventiva. In questo modo, lettere dell'alfabeto e immagini rimanevano facilmente impresse nella mente dello scolaro e la memoria non faticava ad associare le une alle altre. Diverse contorsioni di una serpe messe in successione davano origine alle lettere della parola S-C-U-O-L-A. Fu la prima parola che imparai a scrivere mediante il sistema dell'alfabeto figurativo ideato da Ambrogio. Quell'uomo aveva l'insegnamento nel sangue.
Conobbi Ambrogio a capodanno. Il nostro incontro fu indimenticabile. Rammento che nel varcare la soglia del suo studio, tremante al fianco di mio padre, non riuscii subito a distinguerne le fattezze. Sedeva a braccia conserte su una modesta poltrona, dando le spalle a un'ampia finestra con le tendine scostate. Sul momento, la luce che inondava la stanza mi abbacinò e pertanto di Ambrogio potei vedere solo la sagoma imponente. Da quell'ombra, ancora senza volto, proveniva la voce che ci invitava a entrare. Restai sorpreso nell'accorgermi che sul suo scrittoio non si trovava neppure un libro o un qualsiasi manuale di grammatica. Solo qualche foglio scarabocchiato, una tabacchiera e una grossa ampolla di scolorina che, per quanto ne so, non fu mai usata. Ambrogio scambiò un rapido saluto con mio padre. Quindi mi fece cenno di avvicinarmi. Nel sentire per la prima volta la sua voce ebbi la sensazione di stare ascoltando il rimbombo di un gigantesco gong. Un vocione che a ritmo quasi regolare si strozzava in una serie di piccoli colpi di tosse secca, tipica di un fumatore incallito. Anche in quel momento, Ambrogio teneva la pipa tra i denti, ma non l'accese mai in presenza dei suoi allievi. Mi strinse la mano in modo energico. Poi mi chiese di scandire per esteso il mio nome e cognome. Rimasi muto per la soggezione. Quando capì che non gli avrei risposto mi pizzicò la guancia talmente forte che vidi le stelle in pieno giorno. Quella sera raccontai l'avventura ad altri bimbi e così ebbe inizio la leggenda sulla lezione di astronomia. Ambrogio riteneva fondamentale che i suoi allievi imparassero a pronunziare correttamente ogni sillaba. Gli accenti tonici segnati in rosso sui quaderni dal suo implacabile pennino non si potevano contare. Fu sempre intransigente a questo proposito. Presto, inserì nella sua didattica anche qualche parola in inglese. Ambrogio affermava che le distanze si stavano accorciando e che un'infarinatura di quella lingua ci sarebbe servita tantissimo. Si era appena usciti dall'ostracismo fascista dei vocaboli stranieri, così per qualche tempo certi vegliardi in paese brontolarono dicendo che Ambrogio ci insegnava le parolacce. Inutile dire che si sbagliavano di grosso.
Ambrogio era un giovane possente, con il naso ingombrante e schiacciato come quello di un pugile. Già allora sfoggiava le sue leggendarie basette rosse. Non poteva dirsi una bellezza, e non è neppure vero che fosse tanto dolce con i suoi alunni. Era assai rigido, invece. Sprizzava da ogni poro l'entusiasmo di insegnare e accarezzava il progetto di trasformare la propria casa in una vera scuola per il nostro piccolo paese. In quel tempo a Villaggio dei Giusti non esisteva niente del genere. I pochi ragazzi che avevano la fortuna di studiare, affrontavano ogni mattina un viaggio in treno fino alla più vicina scuola elementare, alla periferia di Bambera. A sera, tornavano esausti e raramente proseguivano gli studi. Considerando la diffusa indolenza, penso che il nostro paese non avrebbe mai avuto una scuola tutta sua senza l'impegno di quell'omone rude e manesco. Correva il 1946 e Ambrogio aveva trentaquattro anni. Il padre gli aveva lasciato in eredità una dimora spaziosa, a due piani, con un cortile adiacente. Era l'abitazione più grande del paese, un po' trascurata, ma sontuosa a confronto delle nostre catapecchie. La casa era miracolosamente scampata alle incursioni delle fortezze volanti, segno che il progetto di Ambrogio era gradito al buon Dio. La scuola sarebbe stata riconosciuta e aperta a tutti un paio di calendari più tardi, lo stesso anno in cui Ambrogio si sposò. La casa era molto grande, quindi non gli fu difficile rinunziare a qualche stanza per adibirle ad aula, biblioteca e dormitorio. Ambrogio e la signora Clara vivevano al piano superiore, dove oggi si trova la direzione. All'inizio, i bambini delle prime classi trascorsero in casa loro dei mesi, quasi fosse stato un vero e proprio collegio. Ambrogio rispettava le norme disciplinari che imponeva ai ragazzi e a se stesso con spaventevole solerzia e non senza un pizzico di compiacimento. Di frequente, agli albori della giornata, ordinava ai ragazzi di seguirlo nel boschetto, e lì si intratteneva con loro affrontando più temi d'interesse. Dalla botanica generale alle modalità d'uso di specifiche erbe mediche, ottime per curare cefalee e costipazione. Una volta aperta la scuola, Ambrogio portò le lezioni da quattro ore a sei. La signora Clara, infaticabile massaia, cucinava per tutti. Il suo apporto venne meno solo brevemente, quando nacque la piccola Monica. Amici cari, credetemi… Ancora oggi, a pensarci, mi commuovo. Per noi paesani, quello scricciolo di bimba diventò il simbolo dell'ardore di Ambrogio e della rinascita che tutti auspicavamo. Il maestro poteva già contare molti figli ideali, ma questa era la prima a non essere nata mentre intorno scoppiavano le bombe.»

«Quando il babbo mi disse che avrei dovuto passare un intero mese nella casa di quell'uomo, piansi tutta la notte» riprende lo spazzino Ugo. «Ambrogio (venni a sapere dopo) aveva affrontato lunghe imprese legali perché il suo sogno scolastico si realizzasse. Sogno del quale noi piccoli paesani occupavamo una parte importante. Come ho già detto, pretendeva di tenere sotto controllo anche la nostra forma fisica. Di polvere, in quel dannato cortile, ne dovemmo digerire a quintali. I pasti cotti dalla moglie, poi, erano un vero supplizio. Ambrogio era rigorosamente vegetariano e la brava donna faceva del suo meglio per non contrariarlo. Nell'assecondare i gusti del marito, però, finiva spesso col perdere di vista le esigenze alimentari di noi ragazzi. Tanto che anche i nostri sogni erano popolati da legumi, freschi e secchi. La colazione consisteva in un misto di verdure crude e latte freddo. Pasto che Ambrogio ingoiava con vera delizia. A pranzo ci toccava insalata di carciofi e per cena barbe in brodo o cavolfiore bollito. Naturalmente nessuno di noi osava protestare per il vitto. Troppo era il timore che Ambrogio ci incuteva. Questo per non dire che se era irritato menava. E forte! Capitava, alle volte, che la signora Clara decidesse di proporci una bistecca, un cappone o del pesce, ma se non sbaglio questo si verificava soltanto la domenica, giornata che Ambrogio era solito trascorrere nei boschi alla ricerca di uccelli da spiare...»

Le testimonianze in merito non si esaurirebbero mai. Voluminosi libri potrebbero essere riempiti con le rimembranze degli anni in cui Ambrogio trasse alla vita intellettuale dozzine di giovinetti.
Frattanto il tempo passava. Lento, ma inesorabile.
Nel 1979, ormai vedovo e decisamente stanco, Ambrogio si sarebbe visto costretto all'inevitabile resa. Cedute le briglie dell'insegnamento a mani più giovani, abbandonò definitivamente la scuola per trasferirsi in casa della figlia Monica. Il maestro del villaggio adesso si sarebbe riposato. Tuttavia non fu così che la leggenda ebbe termine.

«Mi chiese di diventare sua moglie circa tre mesi dopo la morte della signora Clara» rivela Maddalena G, una simpatica vecchietta che conserva graziosi vezzi da fanciulla. «Capite? Stavo tornando da una commissione e lo vidi ritto davanti la porta di casa, tirato a lucido e impettito come un tacchino. Fino a quel pomeriggio c'eravamo parlati solo poche volte. Di solito, lo incontravo alla messa della Domenica o in casa di certi conoscenti. Non potevo dire di conoscerlo veramente. Quindi fu una grossa sorpresa, per me, la sua improvvisa proposta di matrimonio.
Non mi era mai piaciuto. Fisicamente, intendo. Ma confesserò che quel giorno mi parve ancora più brutto. Solitamente vestiva in maniera sciatta. Non prestava molta cura alla propria immagine. Per diversi anni l'avevo visto portare sempre la medesima giacca di tela, e sentivo dire che odiava i cappelli come un gatto odia l'acqua. Per questo quando lo vidi sotto casa ad aspettarmi, impalato in quel vestito color sabbia, capii immediatamente che qualcosa bolliva in pentola...»

La signora Sofia Z insiste per dire la sua. E' un donnone dalla capigliatura corvina, di una bellezza selvaggia, un po' arrogante. Vive del proprio lavoro di sarta in compagnia del figlioletto e del marito invalido. In paese si dice sia una persona scontrosa e taciturna, ma stavolta scalpita per parlare. Racconta senza nascondere un discreto sprezzo.
«Era successo già molte altre volte» afferma. «Solo una settimana prima, Ambrogio aveva chiesto a mia madre di andare a vivere con lui. Ve lo immaginate? Non voglio negarne i meriti, ma il vecchio Grattenna non era il santo che si racconta in giro. Al contrario, era un uomo molto egoista. Piuttosto ottuso, sia pure intraprendente e colto. Per di più era brutto da far schifo. Una testa di rospo sopra un corpo da scimmione. Non che la cosa lo frenasse. Oh, no. Infatti, si diede da fare pur durante il matrimonio con la remissiva e stupidissima Clara, sempre pronta a compiacerlo quando si degnava di rivolgerle una parola meno brusca del solito. Credo fosse a caccia di un'altra donna che si dimostrasse pronta ad accudirlo. Contava poco il suo nome, la sua età, purché questa gli facesse da serva. Il fatto è che per tutti quegli anni Ambrogio fu attivo solo in funzione della scuola. Non so se sia più corretto parlare di devozione o di mania. Qualunque operazione estranea all'insegnamento, contesto nel quale Ambrogio era avvezzo a muoversi come un re nel suo regno, lo lasciava disorientato. A occuparsi delle faccende domestiche, a procurare il cibo, a riordinare era stata sempre Clara. Ed egli non aveva mai mosso un dito per aiutarla.
Una volta ottenuta la pensione, era andato a vivere in casa della figlia. Però Monica era già sposata. Aveva appena messo al mondo due gemelli. Vivere presso quel focolare doveva pesargli un po'. Quindi prese a infastidire le donne nubili del paese con le sue sciocche profferte. Gli andò sempre male, ma dovette passare un anno prima che si rassegnasse a gravare sulla figlia.»

Maddalena continua:
«Fu molto garbato, e se il mio rifiuto lo addolorò non me lo fece pesare. Negli anni precedenti la pensione, aveva fatto costruire uno chalet fuori del paese dove di tanto in tanto trascorreva il fine settimana con la figlia e il genero. L'autostrada non c'era ancora, e vivere vicino al boschetto doveva piacergli tantissimo. Mi chiese di sposarlo e di trasferirmi con lui là, tra gli alberi. Fui costretta a rifiutare. Che cosa potevo fare...? Non era il mio tipo…»

Giunse il crepuscolo.
Ambrogio visse gli anni della pensione in compagnia della figlia e dei nipotini. Visse in salute, onorando di tanto in tanto la scuola con qualche visita e facendo frequenti e sempre più lunghe passeggiate nella vicina campagna. Era arrivato ai settantaquattro anni in ottima forma. Non era più tanto brutto. Gli anni avevano sparso un po' di miele su quei lineamenti un tempo così rozzi. S'era acchetato anche nel modo di conversare. Non tuonava più con suono grave da trombone. Ora sussurrava gentilmente come un flauto rurale, e se provocato manifestava la sua stizza a bassa voce, scandendo appena le usate imprecazioni. Smise di citare Ovidio e Petrarca, e con il deteriorarsi della sua vista anche di divorare libri. Trascorreva invece una quantità di tempo nei boschi. Sfuggiva la compagnia degli altri anziani e dormiva molto. Anche questo senza più russare, in perfetto silenzio.
Quindi smise di parlare del tutto.

«In principio non ci feci molto caso» ammette Monica, che non si fa mai pregare quando si tratta di ricordare il padre. «In casa era maturata la consuetudine che ogni mattina io entrassi nella camera per destarlo con un bicchiere di latte tiepido e allargare le persiane. Bussavo due volte. Dunque entravo e ci auguravamo la buona giornata. Lui sorbiva il latte e si alzava per recarsi in bagno. Era un vecchio rito.
Sarò più precisa: non è che mio padre parlasse puntualmente ogni volta che entravo nella stanza. C'erano state un'infinità di circostanze in cui mi lasciò capire d'essere desto con un breve grugnito assonnato. Ma fu proprio da quel giorno di luglio, e non prima, che rimase immerso nel più completo e impressionante silenzio. Da diverso tempo in casa eravamo rassegnati a non sentirlo parlare che di rado. Per questo quando ci sedemmo a tavola ed egli non spiccicò parola, né io né mio marito ci preoccupammo. Solo qualche giorno dopo cominciai a notare che in mio padre qualcosa non funzionava più. Era diventato muto come una tomba centenaria.
Ricordo che il suono più udibile proveniente dalla sua persona era il respiro. E anche quello era molto leggero. Non si lamentava più per i reumatismi, non sbuffava e neppure tossiva. Mesi prima il medico gli aveva tassativamente proibito di fumare. Io stessa avevo provveduto a nascondere la sua pipa, ma questa precauzione si rivelò inutile. Non la cercò mai, e il giovamento che ricavò dall'astinenza lo portò a sfoggiare un respiro limpido che rese il suo silenzio ancora più inquietante. Se interrogato non rispondeva che a cenni. Diniego o assenso, e nient'altro. Capitò un certo numero di volte che lasciasse sul tavolo del tinello un biglietto con su scritto dove stava andando o in cui mi chiedeva di cucinare per il pranzo questa o quella pietanza. In seguito perse anche questa abitudine e prevedere le sue mosse diventò impossibile.
Allora feci in modo che non uscisse più di casa senza il mio diretto controllo. Badiamo bene: si mostrava ancora abbastanza tranquillo perché non dovessi temere per la sua incolumità, ma a quell'innaturale silenzio aveva aggiunto una nuova, preoccupante, stramberia.
Fissava i muri del paese per delle ore. Da molto vicino, neppure volesse baciarli. Rubava una seggiola dal tinello, si sedeva in strada e rimaneva lì, la faccia al muro come un bimbo in castigo. Oggi era la parete macchiata all'ingresso del vicolo, domani il muretto bianco della pescheria. Passava così interi pomeriggi. Se provavo a spostarlo, si ribellava pestando i piedi. Ma anche questo nel più completo silenzio.
Lasciai il mio impiego alla merceria appositamente per stargli vicina il più possibile. Ma non era sempre facile. Troppe volte, affacciandomi sulla strada, vidi che la sua sedia era rimasta vuota.»

«Non mi liberai del vecchio fino all'ultimo» riprende Ugo, deciso a vuotare il sacco. «La signora Monica viveva con il marito, i bambini e il padre ad appena una ventina di metri da casa mia, e questo faceva di me la persona alla quale era più comodo rivolgersi nei momenti di allarme. Quasi tutti i loro vicini erano pendolari, impegnati in città. Alberto, il marito di Monica, aveva appena ottenuto un posto di usciere al municipio di Berzagallo e non tornava prima di sera. Io, invece, sbrigavo il mio lavoro nella mattinata ed ero sempre a portata di voce. Per di più ero l'unico negli immediati dintorni ad essere fornito di un mezzo di trasporto. Insomma: Ambrogio mi aveva proprio incastrato.
In paese eravamo già in molti a sapere dello strano silenzio in cui il vecchio si era chiuso. Solo più tardi, invece, si seppe delle sue abituali fughe. Monica correva a chiedermi aiuto almeno due volte la settimana, implorandomi di far presto e di non dire a un'anima dove stessi andando. Ambrogio scompariva, e il suo calesse con lui. Monica non voleva vendere i cavalli, e tenere il padre sottochiave le ripugnava. Frugavamo la campagna a bordo del mio furgoncino. La caccia al maestro fuggiasco, a volte, durava delle ore. Il vecchio non restava mai in paese. Montato sul calesse, spronava le bestie finché non si sentiva esausto. Ma il bastardo era ancora forte e poteva arrivare molto lontano. Al termine della prima ricerca lo trovammo nel bosco. Aveva abbracciato il tronco di un pioppo e piangeva in silenzio senza emettere il più piccolo singhiozzo. Doveva essere rimasto immobile in quella posizione per parecchio tempo perché la resina aveva letteralmente incollato la sua camicia alla corteccia. Monica lo sgridò per essere scappato in quel modo. Gli disse che per colpa sua non aveva fatto da mangiare per i bambini, che Alberto l'avrebbe certamente rimproverata, e tante altre menate. Ambrogio la guardava senza muovere un muscolo e piangeva. Gesù! Era come vedere lacrimare una statua.
La stessa storia si ripeté un fottìo di volte. Monica finì col fidarsi completamente di me. Allora mi toccava rovistare nei dintorni da solo alla ricerca del vecchio deficiente. Poi iniziarono i lavori per l'autostrada. Monica incatenò le ruote del calesse e legò alla cavezza dei cavalli un paio di grossi campanacci. Sarebbe stato davvero imbarazzante se il padre, in una delle sue silenziose febbri, fosse giunto a dare spettacolo di sé davanti agli operai.
Il vecchio citrullo non scappò più. Ma… porcocane se fece di peggio!»

Venne l'ora delle locuste.
Il pescivendolo Rocco M, se interrogato, ne parla volentieri. Lo incontriamo al bar della piazzetta, ciarliero e giocondo come lo descrivono gli amici.
«Quell'estate fu senza dubbio la più calda e fetente che il paese abbia sofferto negli ultimi decenni. L'aria bruciava come in un forno a legna. Tenere il pesce in fresco era un'impresa. Poche ore e già mandava una puzza sospetta. Ci spupazzammo un merdoso scirocco per settimane, roba che ti faceva sentire in Africa. Cazzo, persino le mosche cadevano svenute. In bottega, tenevo la borsa del ghiaccio tra la zucca e la paglietta. La notte dormivo nella vasca da bagno e mettevo la testa sotto il rubinetto ogni mezzora. Ma non c'era scampo. L'afa uccideva.
Personalmente, credo che il caldo bastardo di quell'anno abbia avuto un ruolo importante nella coglioneria del vecchio Ambrogio. Passava giornate intere seduto davanti casa a far nulla. Là, sotto il sole che picchiava, con la canizie che diventava gialla come il piscio. Solo a vederlo c'era da sentirsi male. Una volta pensai di offrirgli un copricapo, ma poi mi sfuggì di mente. Poveretto!
Ambrogio gridò che erano da poco passate le due. Non ero riuscito a prendere sonno quella notte. Il caldo rompeva da pazzi. Quando iniziarono gli strepiti ero immerso in una tinozza d'acqua fredda con la finestrella della stanza da bagno aperta. Così udii tutto forte e chiaro.
All'inizio sentii un lungo lamento. Sembrava il belare di un caprone con la diarrea. Poi arrivò l'urlo. Sul momento non seppi che cosa pensare. Non capii subito che a gridare era il vecchio Grattenna. Stava succedendo qualcosa di terribile e io avevo una strizza boia. Perché non si trattò di un urlo isolato, ma di un vero e proprio quarantotto. Ambrogio ululava come se lo stessero spellando vivo e tra le grida sputacchiava frasi senza senso e certe bestemmie che mammamia!
Saltai fuori dalla tinozza, infilai le mutande senza neppure asciugarmi e corsi fuori a piedi nudi. La luce in casa di Monica era accesa. Dalla strada riuscivo a vedere sulle pareti un putiferio di ombre che giravano impazzite come falene intorno a una lampada. Ci fu un rumore di vetri rotti e altre voci urlanti. Quindi presero a rischiararsi anche le case vicine. Ugo, lo spazzino, saltò fuori armato della sua scopa e mi chiese se alla fine qualcuno stava ammazzando il vecchio. Ambrogio non accennava a chetarsi. Ogni tanto il suo strepito era soffocato, come se stessero tentando di chiudergli la bocca a viva forza. Ma subito riprendeva con maggiore lena. I versacci sonavano all'incirca così: Uuuuuusss... ssssttttttteeeeee! Ghblblbl... blhhhhhh... engonoooooo! Y-alalalalalalalalah... sssssssteeeeeee!!! E giù con una valanga di parolacce.
Anche donna Sofia si unì a noi di corsa, in camicia da notte e con un lume in mano. Bussammo, ma senza ottenere risposta. Quando giunse Argisto, il fabbro, buttammo giù l'uscio ed entrammo. Tutte le luci della casa erano accese. I gemelli sedevano sul pavimento abbracciati e frignanti, mezzi morti di paura. Monica e suo marito, invece, stavano lottando con un toro infuriato. Ambrogio si dimenava sul letto e gridava, ormai rauco, che a Villaggio dei Giusti stavano per arrivare le locuste, che avrebbero divorato tutto, che tutto quello che conoscevamo sarebbe stato ridotto in segatura. La mano di Alberto sanguinava. Era stato morsicato.
Infine il vecchio perse i sensi.»

«Mi accorsi solo l'indomani che si era troncato con i denti la punta della lingua» racconta Monica. «Doveva essere successo all'inizio delle convulsioni. Aveva mandato giù il sangue e anche il pezzettino mancante. Infatti, non riuscii a trovarlo tra le lenzuola.
Il medico ci chiese se mio padre avesse abusato di farmaci antidepressivi o se fosse sua abitudine bere smodatamente. Ma era semplicemente assurdo. Mio padre non aveva mai fatto uso di farmaci del genere ed era sempre stato astemio. Non poteva certo aver preso a bere di nascosto negli anni della vecchiaia, quando lo vigilavo con la massima attenzione.
Gli fu prescritto un sedativo che gli somministravo giornalmente. Non credo, però, che riuscisse a sentirne i benefici. Capitò ancora che si mettesse a urlare nel cuore della notte, e rimase fino alla fine inquieto e imprevedibile. Dalla notte del 16 agosto sentivamo di nuovo la sua voce, ma questo non si poteva definire un miglioramento. Adesso non faceva che parlare degli enormi sciami di locuste che secondo i suoi misteriosi intuiti erano in viaggio per abbattersi su di noi. Previsione, ovviamente, del tutto infondata. Mai dalle nostre parti si è vista una sola di quelle bestie, e comunque c'è ben poco nella zona per attirarle in gran numero.
Papà ricominciò a scappare di casa. Stavolta per aggirarsi in seno allo stesso villaggio. Camminava spettinato e sporco per la piazzetta, bussava a tutti gli usci, fermava la gente per la via e a tutti ordinava di guardarsi: perché le locuste sarebbero giunte molto presto. Non fu mai pericoloso, sebbene l'aspetto che aveva assunto incutesse un certo timore.
Quando si arrampicò sul campanile e per poco non saltò giù, pensai fosse meglio per tutti che ci trasferissimo nello chalet. Ormai in paese non si parlava che della sua malattia, e per me e mio marito la situazione si faceva di giorno in giorno più penosa. In campagna sembrò calmarsi un pochino. Stette in silenzio per due giorni. Poi ripresero le escandescenze.
Nel frattempo i lavori per l'autostrada erano giunti a buon punto. Avevo saputo da una fonte attendibile che nel giro di qualche mese sarebbe stato aperto uno svincolo proprio davanti alla nostra abitazione. La malattia di papà mi aveva costretta a lasciare il lavoro e a trascurare troppo a lungo gli interessi della mia famiglia. L'autostrada, dunque, rappresentò per me una specie d'insperata ancora. Fu allora che decisi di dar fondo ai miei risparmi per trasformare lo chalet in un autogrill…»

Ascoltiamo nuovamente la voce di Rocco, il pescivendolo, che non sta più nella pelle per raccontare gli sviluppi successivi.
«Ambrogio quella volta sembrò davvero essere sparito nel nulla. I lavori allo chalet avevano avuto inizio qualche giorno prima e Monica non aveva potuto fare a meno di ricondurre il padre in paese. Il vecchio uscì di casa verso le undici approfittando di una distrazione della figlia impegnata con i bambini e non fece più ritorno. Lo cercammo per ore senza trovare la più piccola traccia. Era una cosa abbastanza insolita, dato che nell'ultimo periodo Ambrogio aveva fatto ogni sorta di schiamazzo per attirare su di sé l'attenzione dei paesani e annunciare l'arrivo degli animalacci. Il tempo passava. S'erano fatte le tre del pomeriggio e di lui non si vedeva un pelo. Monica si spaventò molto. Il calesse non era stato toccato, nessuno sembrava aver visto suo padre neppure di sfuggita.
Sì, la faccenda era proprio preoccupante.
Allora sonarono le campane. Erano assolutamente fuori orario e facevano un casino della miseria. Padre Albino corse in maniche di camicia, trafelato e bianco come un cencio mentre i cani nella piazzetta giravano latrando tutt'intorno alla chiesa. Sembrava l'apocalisse. Non mi sarei sorpreso se in quel frangente le locuste fossero arrivate per davvero.
Don Albino non fece in tempo ad aprire il portone che già Ambrogio si affacciava dal campanile. Nudo, urlante e incazzatissimo. Resterà sempre un mistero come, alla sua età, fosse riuscito ad arrampicarsi su per quella scaletta ripida che faceva girare la testa al sagrestano. Fu comunque spiegato l'enigma della sua ultima sparizione. Allontanatosi da casa, doveva essersi recato in chiesa per assistere alla funzione di mezzogiorno e con molta probabilità s'era assopito tra i banchi. Padre Albino non s'era accorto di lui e al momento di chiudere l'aveva fatto prigioniero. Da giù lo vedemmo sventolare quel che restava della sua camicia e spenzolarsi nel vuoto con una temerarietà che faceva tremare i polsi. Farneticava come di consueto. Non potevamo sentirlo, ma senza ombra di dubbio stava ancora avvisando tutti dell'imminente arrivo delle locuste.
Quando quattro giovani lo riportarono giù, discutemmo a lungo sul da farsi. La bravata del vecchio, stavolta, aveva incasinato l'intero villaggio. Non che fossimo una massa di stronzi ingrati. Ambrogio era sempre nei nostri cuori, ma la sua malattia faceva al paese l'effetto di un tafano sul dorso di un mulo. La notte, i bambini si spaventavano alle sue urla e i pendolari reclamavano le giuste ore di sonno. Monica decise di portarlo via dal villaggio per qualche tempo. Affittò un appartamento in città dove sperava di riuscire a tenere Ambrogio lontano da tutte le sue ossessioni. Ma durò poco. I lavori per l'autogrill procedevano veloci, e Monica fu costretta a tornare per occuparsi di varie faccende. Naturalmente, con lei rientrò anche Ambrogio, e il casino ricominciò...»

Un attimo di silenzio, prego. Rocco sa che quanto sta per raccontare adesso non sarà affatto allegro. Si raccoglie e continua a narrare con voce commossa.
«Ambrogio morì il primo di novembre. Se ne andò con grande strepito, figliando mille chiacchiere come aveva sempre fatto. I suoi ultimi giorni li passò urlando ai quattro venti la sua profezia, battendo con un legno su una pentolaccia arrugginita. A sentire lui, le locuste erano ormai vicinissime e questo lo rendeva più inquieto del solito. Aveva frequenti crisi di pianto e chiedeva di essere accompagnato nella casetta al limite del bosco, il suo antico rifugio. Povero vecchio! Nessuno aveva il coraggio di dirgli che lo chalet era stato smantellato. Il grill di sua figlia era quasi finito, ma Ambrogio non lo vide mai. Dubito, comunque, che l'avrebbe apprezzato.
Monica in quei giorni era particolarmente impegnata. Adesso era lei che si dileguava sul calessino del padre. Spesso si recava a ispezionare di persona il cantiere e diventava sempre più difficile incontrarla in paese. Ambrogio restava chiuso in casa, accudito frettolosamente dal genero che, dati i suoi impegni lavorativi, non poteva dedicargli che poche ore. Tuttavia, Ambrogio non restò mai solo. Dietro preghiera di Monica, alcune donne andavano e venivano dalla casa durante la sua assenza. Per lo più antiche allieve del vecchio che avevano accettato di prendersene cura. A turno si occupavano dei suoi bisogni e tutti i giorni gli apparecchiavano la tavola. Allora filavo con una di quelle gonnelle, così ebbi modo di vedere da vicino con quanto zelo fosse adoperata la cucina. Era un viavai di massaie esperte riunitesi in un gruppo affiatato. Lavoravano in squadra, chi pelando patate e pomodori, chi mettendo l'acqua sul fuoco. Grazie a quelle sante, il vecchio poteva contare su un lauto pasto a pranzo e a cena, ma anche su un amorevole aiuto a espletare quelle funzioni corporali che non riusciva più a gestire per proprio conto. Faceva bene al cuore vedere che, a dispetto dei recenti guai, Ambrogio godeva ancora di un affetto sufficiente a far di lui un grosso bebè viziato dalla comunità. Lo vidi aumentare di peso mangiando manicaretti d'ogni specie, vezzeggiato e confortato al punto che quasi lo invidiavo. Lo stesso non potrei dire per le sue caritatevoli infermiere, disposte ad accudirlo incuranti delle continue urla, dei piatti rotti, delle mani sul culo e del diluvio di bestialità che zampillavano dal vecchio come da una generosa fontana. Mi capitò di udire qualcuna borbottare che se il grill non fosse stato ultimato presto, avrebbe finito con l'ammattire pure lei. Ma niente più di tanto. Ambrogio era trattato con esemplare dolcezza da quelle pie donne, neppure fosse stato loro padre.
Il giorno in cui venne a mancare, Monica non era in casa.
Lo trovarono che si torceva sul pavimento imprecando e schiumando come un serpente a sonagli. Aveva fatto a brandelli il tappeto della sua camera, fracassato una sedia e mandato in frantumi il vetro della finestra. Si rotolava premendosi lo stomaco e ringhiava come non aveva mai fatto prima. Doveva accusare dei dolori molto forti, ma chi lo soccorse, purtroppo, non distinse questi sintomi dalle solite crisi. Ambrogio moriva, avvelenato da funghi colti con poca attenzione e a lui serviti nel suo ultimo pranzo. Il medico arrivò che già l'infermo si spegneva e non poté fare altro che constatarne la morte.
Prima di evaporare per sempre, Ambrogio lanciò un'occhiata circolare che gelò i presenti. Si sarebbe detto che stesse cercando intorno a sé qualcosa che gli premeva molto. Rimanemmo pietrificati. Tutti avevamo notato che sul suo viso era tornata l'espressione severa del maestro. Ambrogio s'inumidì le labbra e disse:
- …siamo fottuti! -
Roteò gli occhi e… Adieu

Così Ambrogio se ne andò.
La vestizione della salma fu eseguita lo stesso giorno della morte dalla figlia e dalle donne che per ultime avevano assistito il vecchio maestro. Ci si accorse che sotto le unghie dei piedi l'estinto conservava alcuni residui di terra scura e muschio come se di recente avesse corso scalzo per la campagna. Solo che i suoi ultimi giorni li aveva trascorsi chiuso tra le quattro mura di casa, sotto lo sguardo vigile di un'intera squadra di matrone. Nessuno riuscì mai a spiegare il fatto. L'omelia di padre Albino lo ricordò soprattutto come insegnante, l'uomo che aveva donato una scuola al villaggio. I fiori piovvero numerosi sulla bara. Ambrogio: maestro, vecchio saggio e profeta di sventura, si dileguava lasciando una larga impronta sulla storia del paese. L'inchiesta sul decesso durò poco. I rimanenti funghi, una volta esaminati, furono definiti assolutamente innocui. Si giunse presto alla conclusione che l'unico esemplare velenoso fosse finito tra gli altri per pura fatalità. Un mese dopo, la scuola di Villaggio dei Giusti fu battezzata Scuola Ambrogio Grattenna.

L'autostrada fu terminata quell'inverno. Monica aprì il grill e dimostrò di essere una grande lavoratrice. In capo a un anno, l'attività si rivelò molto redditizia. Alberto si licenziò dal suo impiego a Berzagallo e iniziò a lavorare al fianco della moglie. Adesso l'asfalto era percorso da auto e camion, pullman e veicoli d'ogni genere. Chi viveva ai margini del paese sarebbe stato tormentato dai motori rombanti nelle ore notturne, dal discontinuo e allucinante lampeggiare dei fari, dall'insistente squillare dei clacson. Spessissimo furono rinvenuti i cadaveri martoriati di ricci imprudenti che avevano osato avventurarsi sul cemento. Molto presto vi fu un tremendo incidente proprio nei pressi dello svincolo. Due auto e un camion si schiantarono tra loro. Si udirono sirene e grida. Vennero le ambulanze, la polizia, un caos di luci, di strepiti, di fischi. Sull'asfalto c'era un lago sangue.
I primi di giugno ci fu un incendio nella campagna che bruciò un casolare e distrusse una larga fetta di bosco. Bruciarono i pioppi e un bel po' d'erba non sarebbe più ricresciuta. Una perizia stabilì che il fuoco aveva avuto origine dal mozzicone ancora acceso di un sigaro gettato dal finestrino di un'auto in corsa. Di lì a poco iniziarono i lavori per un residence di lusso. Monica, dal canto suo, distribuiva da bere e da mangiare ai viandanti, riforniva di carburante le auto di passaggio e faceva sonare la cassa. Faticava, sudava, guadagnava, dimagriva.
La sera del 12 luglio, Monica e suo marito vennero minacciati e malmenati da un pugno di uomini sconosciuti che li derubarono dell'incasso di un mese. Qualche tempo dopo, una rissa esplosa per un nonnulla produsse gravi danni all'interno dell'autogrill. Ci furono dei feriti. Un avventore si fece molto male, tanto da perdere un occhio.

Ambrogio, fai buon viaggio.