mercoledì 1 ottobre 2008

Imprevedibile - Racconto


[Illustrazione di Saverio Messina]

IMPREVEDIBILE
Racconto di
Filippo Messina

All'età di nove anni, quando servivo la funzione, il parroco mi disse:
«Simone, l'unica cosa di cui dovrai avere sempre paura, è di averne tanta da non riuscire neppure a pregare.»
Non avevo più pensato alle parole del buon vecchio, ma le ricordai quella notte d’ottobre, quando misi sotto un cane con il mio camion a pochi chilometri dall'abitato.
Non saprei dire perché, ma per un istante tremendo fui convinto di avere investito un bambino. Forse a causa del modo in cui la povera bestia gridò, o magari per la sua improvvisa impennata davanti ai fari. Frenai energicamente riuscendo a fermarmi soltanto cinque metri più avanti. Rimasi immobile, abbattuto sul volante, boccheggiando per parecchi minuti. Ero atterrito per quello che sarebbe potuto avvenire. Nella mia fantasia il dramma si era svolto vivido come in un luminoso teatrino. Mi ero visto ammanettato, a ricevere le invettive disperate di una delle tante famigliole residenti nella periferia. Il padre, un muratore dalle basette grigie, mi minacciava mostrandomi il pugno. Lo seguivano da vicino una moglie in lacrime e due figlie mutate in furie. Addosso mi piovevano maledizioni e sassi.
Ero in ritardo sulla consegna, e avevo superato il limite massimo di velocità previsto sulla strada. Come se non bastasse, ero distratto a sufficienza da scambiare un povero randagio per un essere umano. Stavo ascoltando un brano jazz alla radio e me ne infischiavo del mondo intero.
Mi ripresi dallo spavento solo dopo qualche minuto. Scesi dal camion per rimuovere la carcassa della bestia dall'asfalto. Non si vedeva arrivare nessun altro veicolo, ma mi sentivo ugualmente umiliato. Adagiai il cadavere del cane sull'erbetta corta oltre il ciglio della strada e sostai un attimo a contare le luci del sobborgo. Mi dispiaceva per l’animale, ma ringraziavo Dio per avere scansato il peggio. Quel tratto di strada era molto pericoloso, ed io ero stato dannatamente imprudente. Sapermi in galera era l’ultima cosa di cui mio padre aveva bisogno. Dopo tutti gli sforzi fatti per darmi un’istruzione, il mio lavoro di camionista bastava ad amareggiargli la vita.
Si faceva tardi. Tornai a mettermi al volante e stavolta guidai con cautela. La radio rimase spenta.
Giunsi al deposito alle ventuno. Sorbii rassegnato la lavata di capo per il ritardo e mi rimboccai le maniche per aiutare a scaricare le casse. Non conoscevo il ciccione che ispezionava la merce. Si trattava di un nuovo impiegato, assunto il giorno prima. Un tipo isterico, calvo e zelante. Probabilmente anche un po' sordo, visto che non riusciva ad aprire bocca senza strillare come un’aquila. Scoprì che un paio di bottiglie del mio carico si erano rotte. Doveva essere successo mentre frenavo con l'angoscia nel sangue. Inventai che un altro camion mi si era stretto a sinistra facendomi sbandare e che le bottiglie dovevano aver cozzato l'una contro l'altra. Non avevo nessuna responsabilità del modo sciatto in cui le casse erano state confezionate. Salutai tutti e andai via che erano già le ventidue.
Sulla via del ritorno pensavo ancora all'incidente.
Nell'abitacolo del camion, sebbene fossimo in ottobre, s'era messo un caldo che mi faceva sudare. Non si prospettava una bella notte. Mio padre era andato a trovare suo fratello in città, pertanto a casa non mi aspettava nessuno. Giulia non voleva più saperne di me, e il mio baracchino era ancora guasto. Cavolo, mi sentivo solo da matti! Provai ad accendere la radio, ma incontrai soltanto voci stridule, troppo simili a quella del nuovo impiegato del deposito. Cominciavo anche a patire una fame robusta. Se tutto fosse andato liscio avrei potuto mandare giù qualcosa di freddo soltanto intorno alla mezzanotte.
Decisi che ero troppo depresso per tornare in una casa vuota e mettermi a frugare nel frigorifero. Sterzai al primo bivio e rallentai appressandomi alla stazione di servizio.
Posteggiai nel solito spiazzo. Notai subito che il grill non era troppo affollato. Nel parcheggio, oltre al mio camion, contai una Ferrari e un paio di altre auto. Davanti all'ingresso un punk con i capelli verdi stava infastidendo una giovane coppia, credo per ottenere uno strappo fino in città. Vidi il ragazzo spingere da parte lo scocciatore e muoversi con la sua amica in direzione del piazzale. Il punk sputò sulla strada dietro di loro, borbottò qualcosa in una lingua straniera e rientrò nel locale sbattendo la porta. Attesi che i giovani giungessero a prendere l'auto. Ero curioso di scoprire se la Ferrari apparteneva a loro. Quando montarono su un maggiolino bianco, gettai il mazzo delle chiavi in una tasca del giaccone e m’incamminai spedito verso il grill.
Ma non vi entrai. Non subito. Rimasi ritto a guardare attraverso la porta a vetri mentre il cuore mi balzava in gola.
L’uomo sullo sgabello dall’altra parte del vetro aveva una faccia tonda, con degli occhi piccoli, semichiusi per il sonno. Una mano dalle dita corte sosteneva quel volto paffuto e pallido che sembrava il ritratto della stanchezza. La bocca aveva un’espressione imbronciata sotto i folti baffi neri. Era una strana faccia, difficile da dimenticare. Anche la luce al neon sembrava averla notata. Infatti la corteggiava, dipingendone i lineamenti di una limpida tristezza lunare. La sagoma era tozza, vestita di scuro. Blu il maglione, blu il cappotto con il bavero alzato.
Questo era l'uomo seduto al tavolino. Una fredda notte di luna, la cui unica stella era il luccicore sulla bottiglietta d'acqua tonica che aveva davanti. Una notte fredda e infreddolita. Sedeva vicinissimo al calorifero, ma il tepore di questo non doveva essergli di conforto perché ad ogni istante rabbrividiva stringendosi sempre più nel cappotto.
Avevo già veduto quella faccia altrove. Sì, me l'ero trovata di fronte una quantità di volte in passato. La conoscevo e mi era cara, per quanto adesso mi stesse riempendo di sgomento. Il mio primo impulso fu di voltare le spalle, correre al camion e ripartire veloce verso casa. Rintanarmi sotto le coperte con le luci accese e ripetere avemaria fino al mattino.
Invece rimasi lì. A guardare.
La faccia aveva un nome. Forse tentai di pronunziarlo, senza riuscire a emettere nient'altro che uno sconcio verso. Scandii nel mio intimo il nome di Martino, e ricordai.
Soltanto un anno prima, mi trovavo seduto sopra una roccia mentre Martino, poco più in là, gettava la lenza nel lago. Allora, il mio amico era in una forma più gagliarda. Sempre grasso, ma con le guance rubizze, animato da un buonumore incontenibile. Aveva la pelle cotta dal sole e portava uno striminzito cappello di paglia. Era una gran bella giornata. Domenica, credo. Sì, era domenica l'ultima volta che Martino ed io andammo insieme a pesca. Martino rise per tutta la mattina. Che risata, la sua! Come sentire agitare un salvadanaio pieno.
Quella sera, invece, la vista del suo viso attraverso la vetrina del grill mi riempì di paura. Ero atterrito e affascinato. Rimanevo immobile e mi domandavo che cosa stesse facendo Martino là, dove il buon senso mi diceva che non avrebbe mai potuto trovarsi.
Sì, perché Martino era morto. Da parecchi mesi, ormai.
Per quanto mi sforzassi non riuscivo a definire vaga la somiglianza dello sconosciuto con il mio amico. Anche lui aveva un mento piccolo, disegnato sopra una rotella di grasso che pendeva sotto la mandibola. Anche lui aveva una figuretta tarchiata, inconfondibile.
Improvvisamente, l’uomo alzò lo sguardo e mi fissò attraverso il vetro. Che si fosse accorto della mia attenzione indiscreta? Lo vidi scrutarmi, aprire le braccia e abbandonarsi sullo schienale della sedia con un'ombra di spavento sul volto. Mille supposizioni attraversarono il mio cervello. Forse era un poco di buono, reduce da un furto, che notando il mio interesse si sentiva in trappola. Oppure un mentecatto, malato a sua volta di timori incomprensibili.
Finalmente riuscii a scuotermi. Spinsi avanti la porta del grill ed entrai cercando di guardare altrove. Da dietro il bancone, Monica mi vide e mi salutò agitando un tovagliolo. Tolsi il berretto accomodandomi su uno sgabello.
«Hai fame o sete?» mi chiese Monica asciugando il piano del banco con la stessa salvietta con cui mi aveva dato la buonasera.
«Fame,» risposi. «Ma anche da bere non ci starebbe male. Che cosa prevede la carta?»
Mi porse il menù della serata. Lo scorsi velocemente.
«Prenderò il pollo,» dissi. Mi sembrava il piatto più sostanzioso.
«La solita porzione?»
Ci pensai su. Ero davvero affamato.
«Fammela doppia,» dissi «Puoi riscaldarlo?»
Monica lanciò un'occhiata al marito intento a lavare bicchieri all'altro capo del banco.
«Lascia stare,» disse piano. «Il pollo è di ieri.»
Si sfiorò le labbra con l'indice e tornò a occuparsi delle stoviglie. Suo marito ci stava osservando.
«Andrà bene un panino,» decisi. «Purché sia caldo. Con salsiccia. E mettici molta senape.»
Monica sorrise dandosi da fare. Presto mi trovai di fronte la mia cara birra e cominciai a sorseggiarla in attesa della cena. Da quando ero entrando nel grill, mi sforzavo di non guardare lo sconosciuto. Non era tanto facile. Inoltre stava succedendo qualcosa di nuovo. Adesso era lui che spiava me. Mi girai ripetutamente nella sua direzione, e tutte le volte fummo costretti a distogliere i nostri sguardi incrociati. Avevo notato un altro particolare. L'uomo teneva una valigetta di finta pelle ai piedi del tavolino. Ogni tanto allungava una mano e la avvicinava ulteriormente alla sedia. Pensai che avrebbe finito col mettersela sulle ginocchia.
Quando Monica mi portò il panino non potei fare a meno di afferrarle delicatamente il polso.
«Non ti ricorda qualcuno?» le chiesi sottovoce.
«Chi?»
«A quel tavolo...»
Mi voltai, rimanendo deluso. Lo sgabello era vuoto. Monica scrollò le spalle e si allontanò senza capire. Mi sentivo stupido. Non ero neppure sicuro che Monica avesse conosciuto il povero Martino. Iniziai a mangiare. Ero ancora turbato, ma una parte di me desiderava che lo sconosciuto rimanesse al suo tavolo fino al momento in cui avrei lasciato il grill. Mi ero quasi abituato alla sua presenza. Averlo vicino mi suscitava un’ondata di cari ricordi.
Martino non era una grande intelligenza. Rideva troppo e si arrabbiava facilmente. Era anche terribilmente sbadato. Camminava col naso per aria facendosi spesso male. L’energia del mio amico era pari alla sua imprudenza. Nessuno era in grado di correre tanto in fretta dietro a una palla nonostante le gambe corte e la pancia sporgente. Un’estate, calciò in rete e si afflosciò come un sacco di patate sotto gli occhi di tutti. Ci prendemmo una bella strizza, ma era solo un malore passeggero. Il medico gli parlò chiaro. Continuasse così. Uno di quei giorni, il cuore gli avrebbe detto ciao. Martino, però, aveva il dannato vizio di contraddire tutti per il semplice gusto di farlo. Una settimana dopo era venuto giù di schianto dalla scala a pioli, nella sua bottega di cartolaio. Era rimbalzato sul pavimento e s’era rotto l’osso del collo.
«Qualche moneta, signore. Per un bicchiere.»
A parlarmi era stato un uomo di media statura, con la barba mal rasata e una giacca unta sulle spalle. Non era vecchio, ma la sua faccia era ugualmente coperta di rughe. Frugai nelle tasche.
«Spiacente, amico. Non ho spiccioli,» dissi.
Non insistette, andò a mendicare più in là. Inghiottii l'ultimo boccone pensando di congedarmi subito. Il piccolo fantasma non c’era più, né vedevo nel grill qualcun altro con cui avessi voglia di conversare. Adesso volevo solo alleggerire la vescica, montare sul camion e tornare a casa per buttarmi sul materasso. Mi avviai con le mani in tasca verso la toilette, allontanai la porta con un colpo di pancia ed entrai nella stanza dalle pareti bianche.
Allora lo vidi. Si stava avvicinando all'uscita a piccoli passi, con la valigetta tra le braccia. Pensai che doveva averla portata con sé per paura di non trovarla più al suo ritorno. Mi passò accanto serrando la testa tra le spalle come un pulcino infreddolito. Lanciò una rapida occhiata al mio indirizzo e sgattaiolò fuori.
Imprecai dentro di me. Ardevo dalla curiosità di sentire se la sua voce mi fosse sonata familiare. Sarebbe bastato poco. Avrei potuto chiedergli senza parere che ora indicava il suo orologio. Avevo sprecato un'ottima occasione per rompere il ghiaccio.
Quando lasciai la ritirata, vidi che il suo sgabello era ancora libero. Adesso stava in piedi davanti alla vetrina e fissava con impazienza l’area di sosta della corriera. La sua testa ciondolava per la stanchezza.
Dovevo dare un taglio alla faccenda. Quell’uomo avrebbe avuto tutte le ragioni per fraintendere le mie occhiate insistenti. La cosa non mi garbava per niente. Basta così, dunque. Monica stava servendo un altro cliente. Le mostrai da lontano il pollice alzato. Lasciai una banconota vicino al mio piatto, misi in testa il berretto e infilai l'uscita.
M’incamminai in direzione del parcheggio, frugando nella tasca alla ricerca delle chiavi. Non appena fuori, avevo sentito che dietro di me la porta del grill si apriva di scatto e sbatteva un’altra volta. Uno scalpiccio sull'asfalto fece eco ai miei passi mentre una voce mi chiamava.
«Signore! Signore, aspetti!»
Mi girai pronto a dire che non avevo più un soldo. Ma non era stato il mendicante a chiamarmi. L'ometto baffuto mi aveva rincorso. Mi stava davanti ansante, sempre con la valigetta stretta tra le braccia. Notai che anche lui, come Martino, mi giungeva con la fronte all'altezza del petto.
«Bu... buonasera,» tartagliò. «Perdoni se la importuno. Vorrei soltanto liberarmi di un dubbio che mi tormenta da quando l'ho vista... po… poco fa. Ecco, io...»
Lo ascoltai in silenzio. Parlava velocissimo, impastando le parole. La sua voce era flebile, molto diversa da quella del mio amico.
«Per caso,» riprese, «il suo… il suo cognome è… Spurio?»
Lo guardai trasecolato. «No. Perché?»
Il viso dello sconosciuto s’illuminò di una luce bizzarra. Non riuscii a capire se si trattava di sollievo o di delusione. Sorrise debolmente passandosi una mano sul cuore.
«Oh mamma!» disse. «Mi perdoni. L'ho presa per... per qualcun altro, ecco! Le faccio una montagna di… di scuse.»
Fece per andarsene. Lo vidi indugiare davanti all'ingresso del grill senza risolversi a entrare. Tornò di corsa sui propri passi. Eravamo di nuovo l'uno di fronte all'altro.
«E' stupefacente!» esclamò «Davvero stupefacente!»
Non sapevo in che modo reagire. L’ometto mi esaminava da capo a piedi come se fossi stato una bella donna discinta o una rarissima opera d'arte.
«Avrebbe la bontà di togliersi il berretto?» mi chiese. «Solo per un momento. Per… per favore.»
Lo accontentai. L'uomo spalancò la bocca.
«Avevo visto bene,» disse. «Gli stessi lineamenti. La medesima età. La stessa forma della testa. E poi… la barba. Buon uomo, lei è addirittura un miracolo!»
Lasciò cadere la valigetta spalancando le braccia. Ebbi la sensazione che stesse per buttarmele al collo.
«Ha qualche problema?» riuscii finalmente a dire.
Si fece serio di colpo. Strinse di nuovo il manico della valigetta e si scostò da me tradendo un certo imbarazzo. «Mi scusi,» disse. «Non volevo in… infastidirla. Vada pure se deve. Non mi serve n… nulla.»
«Si direbbe, invece, che muoia dalla voglia di parlarmi,» affermai deciso a non lasciarmelo sfuggire.
L'uomo serrò le labbra e si mordicchiò la punta di un baffo tentando di spiegarsi.
«Ecco,» incominciò. «Volevo dirle che... assomiglia molto a… a qualcuno, sì. Ma...»
«Ma?» sollecitai.
«La prego,» disse un po’ più spedito. «La prego, non se la prenda. La persona che lei mi rammenta non è più tra noi da tempo e... Insomma! Non mi pareva bello dirle… così su due piedi… che quando l'ho vista... Lei capisce, ve… vero? Per favore, non si offenda.»
«Per carità,» dissi. Passai il mio braccio sotto il suo e m’avviai verso l'insegna luminosa del grill. Passeggiammo amichevolmente a braccetto lungo il piazzale.
«Qual era il suo nome?» gli chiesi.
«Lui?» disse svegliandosi dalla confusione nella quale era caduto. «Si chiamava Ciro. Oh, detestava quel nome. Non so perché, ma lo odiava. Così tutti lo chiamavano per cognome. Era un meccanico molto in gamba. Un brav'uomo, davvero. Lo conobbi durante la naia, la nostra fu una bella amicizia. Morì due anni or sono. Una trombosi, mi hanno detto. Allora mi trovavo in Austria. Al mio ritorno, ho saputo che non c’era più. Lo avevano già sepolto da un mese, poveretto.»
Stringevo il braccio dello sconosciuto tentando di contenere la mia emozione. Che strano, imprevedibile frangente! Avrei voluto parlargli di Martino, ma me ne mancò il coraggio. Avrebbe potuto pensare che intendevo deriderlo. Certo, era solo una meravigliosa fatalità. Eppure...
«E' suo quello?» chiese additando il mio camion.
«Lo guido,» risposi. «Gli automezzi sono proprietà della compagnia. Mi ha visto arrivare?»
«Oh, no,» disse. «L'ho dedotto dall'aria. Per la precisione, dall'odore che l'aria prende intorno alla sua persona. Odore di fumo, di benzina. Avrei scommesso tutto quello che ho di trovarmi davanti a un camionista. Come vede, non sbagliavo.»
«Naso fine,» commentai ridendo.
«Solo un certo intuito.»
Mi tese la mano aperta.
«Mi chiamo Leo,» si presentò. «Sono qui per un puro capriccio della sorte. Attendo la corriera.»
«Io sono Simone,» dissi. «Il mio fiuto, purtroppo, è scadente. Se vuol farsi conoscere, dovrà darmi qualche indizio. Di che cosa si occupa?»
Alzò la valigetta facendola oscillare.
«Rappresentanza,» svelò «Ma ancora per poco, mi creda.»
Indietreggiai di qualche passo appoggiandomi con la schiena contro uno dei quattro lampioni che illuminavano il piazzale. La conversazione si era fatta meno tesa, ed io non avevo più tanta fretta di andarmene.
«Padelle? Elettrodomestici, o altro?» domandai.
«Magari!» Si chinò a frugare nella valigetta. «Guardi.»
Mi trovai in mano un piccolo oggetto di forma cubica avvolto in una sottile pellicola rosa. Non riuscivo a decifrare la scritta stampata su una delle facce, ma qualunque cosa fosse emanava un nauseante odore dolciastro. Lo allontanai dal viso infastidito.
«Puzza, eh?» ridacchiò lui. «E' il peggiore sapone alle erbe prodotto negli ultimi anni. Se la sua ragazza le è venuta a noia, e non sa come dirglielo, faccia una doccia con quello. Le garantisco che non la vedrà mai più.»
Riprese il cubo dalle mie mani e lo lasciò ricadere tra gli altri campioni. Mi annusai il palmo della mano e non potei frenare un colpo di tosse.
«Mi creda,» disse. «Me ne sbarazzerei volentieri. E lo farò. Domani, nel congedarmi dalla ditta. Ha la curiosità di vedere un'altra porcheria?»
Tirò fuori un vasetto color senape. Agitai la mano per dirgli di lasciar perdere. Lo rimise al suo posto.
«Non fa per me,» disse tornando serio. «Troppe sciocchezze da strombazzare, troppi piedi nella porta. Non sono bravo a spiegare agli altri di cosa hanno bisogno. Mi si annoda la lingua anche quando chiedo un bicchiere d’acqua. Poi mi vergogno come un ladro. Non so cosa farò. Ma chi ha bisogno di questa roba?!»
Posò la valigetta sull'asfalto e la allontanò da sé con un leggero calcio. Quella ruzzolò con un cupo tintinnio. Strano! Per tutto il tempo m’era sembrato che nutrisse per quella valigetta una grande reverenza. Ad ogni modo la raccolse, la spolverò alla buona e tornò a stringerla al petto.
«Mi dica, la trattengo?» domandò. «Un momento fa stava andando via.»
Scossi il capo. Cercai nelle tasche la busta del tabacco e cominciai ad avvolgermi una sigaretta.
«E' passato da Villaggio dei Giusti?» gli domandai mentre leccavo l'orlo della cartina.
«Dove si trova?» chiese rispondendo indirettamente alla mia domanda. «Siamo stati in giro con il pullman per tutta la giornata, a presentare campioni nelle botteghe di barbiere e nelle sale di bellezza dei comuni vicini. Abbiamo attraversato un paio di frazioni. Ma ricorderei un nome come quello. E’ là che vive?»
«Già. E’ un posto simpatico.»
Bella sfiga! Se fosse passato per il paese, dove tutti rammentavano Martino, con ogni probabilità avrebbe fatto degli ottimi affari. Gli porsi la sigaretta confezionata. La rifiutò ringraziandomi. Allora la misi tra le labbra. Per tutta la durata della cicca ebbi la sensazione di stare fumando il maleodorante sapone che avevo toccato.
«Ha detto di aver viaggiato in pullman,» meditai ad alta voce. «Con un gruppo di lavoro, giusto? Però è qui tutto solo, se non sbaglio. Dove sono i suoi colleghi?»
Si strinse nelle spalle. «Mi hanno mollato qui,» disse.
Non compresi. Ma ugualmente sentii avvamparmi dentro un improvviso accesso di collera.
«Che significa "l'hanno mollata" ?»
«Non si agiti,» mi chetò lui. «Non è come può sembrare. Si è trattato certamente d'una semplice dimenticanza. Capita. Specie dopo una giornata faticosa come questa. Un po' di stanchezza, la fretta di rientrare, ed è possibile qualunque svista. Dovevamo sostare solo il tempo per fare benzina. Io ho indugiato nella toilette. Quando sono uscito, non li ho più trovati. Vede, è colpa mia. Non ne combino una giusta.»
«Ma potevano tornare a prenderla,» scattai irritato da quanto mi sentivo raccontare.
«Perché?» m’interruppe. «C'è una corriera che porta in città, no? Inoltre può essere un vero problema per l'autista di un pullman a noleggio fare marcia indietro quando incombe l'ora del rientro. Mi creda, non c'è ragione di prendersela. Domani, in ditta, mi chiederanno dove m’ero cacciato, e tutto sarà finito.»
Per qualche minuto restammo in silenzio a contemplare la strada. Io ascoltavo le cicale e riflettevo. Mi sarebbe piaciuto dire una parola ai responsabili di quell’assurdo incidente. Il mio amico si sforzava di non darlo a vedere, ma la disavventura lo aveva ferito. Ricordai che non molto prima mi aveva confidato che intendeva licenziarsi.
«Ci sono solo due corriere,» lo informai. «La prima partiva alle venti. La seconda non si fa vedere che a notte inoltrata. Possono sembrare orari bislacchi, ma vede... E’ molto poca la gente che fa la spola tra qui e la città.»
«Lo so,» rispose rauco. «La signora del grill me ne ha parlato. Comunque...» Batté le mani ridendo. «Non mi sembra di avere molta scelta, le pare?»
Scossi il capo spegnendo la cicca sotto una suola.
«Vado in città,» mentii. «Vuole tenermi compagnia?»
L’espressione con cui mi guardò era quella di chi ha vinto alla lotteria. Barcollò per un momento come se la mia offerta gli avesse rammentato che era sfinito.
«Dovrei... salire sul suo… sul suo camion?» balbettò. «E' sicuro di… di potermi sopportare?»
Risi, e nuovamente lo circondai con il mio braccio avviandomi con lui verso il parcheggio. Anche il punk che avevo visto prima era riuscito a rimediare un passaggio in città. Due attempati signori stavano lasciando l’autogrill. Lo straniero li seguiva conversando in un italiano stentato. La Ferrari non c'era più. Al suo posto era parcheggiato un furgone giallo.
Montai sul camion e tolsi la sicura allo sportello di destra. L'ometto si aggrappò alla maniglia, esitando. La tromba bitonale aveva appena fatto sentire il suo vocione. Subito dopo vedemmo spuntare la corriera con a bordo il solo conducente. La guardai passare sotto l'insegna del grill, fermarsi nello spiazzo riservato e attendere che qualcuno salisse. Finsi di non essermene accorto. Allontanai il berretto dalla fronte spingendolo su con l'indice e fissai il mio amico. Questi sembrava smarrito. Respirava pesantemente sbirciando sia me che la corriera.
«Le va di ascoltare la radio?» chiesi nel silenzio. «Se preferisce, ho delle cassette jazz.»
Si lasciò cadere sul sedile accanto al mio.
«Sa, suono la tromba,» disse chiudendo lo sportello.
Lasciai il parcheggio infinitamente più sereno di quando vi ero giunto. Mi sentivo vispo, e non m'importava di fare le ore piccole. L'ometto, ora non più sconosciuto, si era addormentato sul sedile due minuti dopo la partenza, e russava sonoramente. Spensi la radio e feci in modo di evitare le buche. Non somigliava più al mio vecchio amico. Mi ricordava molto più me stesso, che lo superavo in altezza ed ero ben diverso in tutta la figura. Assomigliavo forse più a lui che all'uomo defunto che non avevo conosciuto. Ben altra affinità ci avvicinava l'uno all'altro. Entrambi, quella sera, c’eravamo scontrati con i nostri limiti. Adesso, in qualche modo, li stavamo superando insieme.

(1986)




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