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mercoledì 7 dicembre 2011

Neonomicon



H.P. Lovecraft, un genio visionario per qualcuno. Un mediocre scribacchino per altri. In ogni caso una autore di grande rilievo, cui va riconosciuto il merito di aver plasmato un immaginario fantastico e orrorifico che ha germinato profondamente nella cultura popolare, tanto da produrre una schiera di imitatori e prosecutori, consegnando alla storia del perturbante un'etichetta mutuata dal nome stesso dell'artista: lovecraftiano.

Alan Moore, celebrato scrittore britannico, noto per aver firmato pietre miliari del fumetto sdoganandolo come espressione artistica matura (Watchmen, V for Vendetta, From Hell), affronta il cosmo di Lovecraft a modo suo, con rispetto filologico e quella punta di immancabile originalità che ha sempre fatto di Moore un vero alchimista dell'arte sequenziale. La personale rilettura dell'opera di H.P. Lovecraft, Moore l'aveva iniziata con la pubblicazione di un racconto in prosa, Il Cortile (edito in Italia da Einaudi-Stile Libero nel 1997), in seguito adattato a fumetti dallo sceneggiatore Anthony Johnston e il disegnatore Jacen Burrows per la Avatar Press. Il racconto è il monologo interiore di un agente federale impegnato nell’inchiesta su una serie di omicidi rituali apparentemente scollegati tra loro, ma accomunati da inquietanti elementi che sembrano seguire uno schema. L'indagine porterà il detective a indagare su una misteriosa droga chiamata Aklo, qualcosa capace di risvegliare nelle menti umane un'antica consapevolezza, e mostrare l'universo in una prospettiva inimmaginabile per i non iniziati. Senza le parole, senza il linguaggio, ricorda Alan Moore, certe cose non possono neppure essere pensate. La lingua è magia, fa esistere le cose e dona loro concretezza. Il linguaggio, dunque, è la più potente e sovversiva delle droghe. Una chiave in grado di aprire porte che non potranno più essere richiuse.


Nel 2011, Moore porta a termine il capitolo conclusivo della miniserie Neonomicon, il cui titolo è una dichiarata allusione al Necronomicon, il maledetto libro fittizio più volte citato da Lovecrat in molte delle sue opere. Incursione, pare definitiva, del bardo di Northampton, come è chiamato dai fans, nell'oscuro universo del sognatore di Providence: Lovecraft. La Bao Publishing propone l'intero ciclo, sceneggiato da Moore e sempre disegnato da Burrows, facendolo precedere dalla versione a fumetti de Il Cortile. Racconto che può a buon diritto considerarsi l’antefatto della raccapricciante vicenda raccontata in Neonomicon.

Il punto nevralgico dell'opera lovecraftiana di Alan Moore è proprio questo. Il Cortile è un prologo di Neonomicon o è piuttosto il secondo a essere un seguito del primo? Può sembrare una domanda pedante e inutile, ma è piuttosto un quesito sincero, che sorge una volta portata a termine la lettura del volume. Infatti, una risposta o l'altra potrebbe segnalare quanto questa recente fatica del bardo possa essere definita riuscita, o se preferiamo compiuta.

E' necessario ricordare che Alan Moore è sempre stato un autore di grande duttilità, tutt'altro che schizzinoso nei confronti di esercizi commerciali (vedi le incursioni sulla serie dedicata a Spawn) e capace di variare registro artistico e profondità concettuale con la grazia naturale di un camaleonte. Il mero intrattenimento non è qualcosa di blasfemo per il bardo, da sempre capace di offrire fumetti di qualità pur con una leggerezza che li rende molto distanti da opere corpose come From Hell. E' un po' la sensazione che si riceve da Neonomicon, come se la fine del racconto (comunque scioccante) sopravvenisse in modo un po' troppo rapido, limitandosi a scalfire la superficie di qualcosa che avrebbe potuto essere memorabile, ma che forse non era mai stato nelle reali intenzioni dell'autore.


Moore stesso, in una recente intervista ha definito Neonomicon una sorta di sequel a fumetti de Il Cortile, un personale gioco tra narrativa e arte sequenziale, in cui l'obbiettivo dell'autore era portare una ventata di modernità nelle atmosfere malsane e pessimiste della mitologia lovecraftiana. Una storia cupa, disseminata di nomi e parole che rimandano a cose e personaggi che ogni appassionato di Lovecraft può riconoscere, ma trapiantati in una realtà metropolitana, dove Lovecraft stesso, sia pure assente, diventa personaggio. Il testimone, forse non del tutto consapevole, di una realtà strisciante, probabilmente non compresa a fondo neppure da alcuni dei suoi principali accoliti. Un incubo in cui l'orrore cosmico suggerito dallo scrittore di Providence emerge pian piano, attraverso citazioni calibrate, per poi mutare e trasformarsi in qualcosa d'altro. Per trasformarsi in Alan Moore, e come un esercizio di variazione strumentale su una partitura classica, diventare opera a sé stante, aperta all'interpretazione del lettore moderno.

Il punto è che Il Cortile, nella sua essenzialità di racconto breve, sfoggia una compiutezza orrorifica e strutturale che a Neonomicon in parte manca. Il legame di continuità con la vicenda del detective protagonista del prologo è dei più classici, ma il ritmo dell'esecuzione cambia in modo drastico, e la narrazione si fa più sporca, più fisica, ma anche più enigmatica nella sua concreta rappresentazione di un orrore fatto di carne, sangue e sesso. La miniserie in quattro parti che segue Il Cortile, dà quindi la sensazione di un intrigante postilla, che non manca di momenti emozionanti, ma che non graffia l'inconscio con la stessa forza del racconto breve che la precede. Alan Moore non risparmia colpi bassi, spesso riservando al lettore proprio il genere di raccapriccio che si attenderebbe, ma cui non vorrebbe assistere. Né rinnega del tutto l'ellissi tipica della scrittura di Lovecraft, avvezzo a suggerire più che a mostrare, attraverso un espediente di soggettiva cinematografica che riesce veramente a torcere le budella del lettore e a regalargli più di un brivido, prima di mutare ancora e lasciarlo del tutto spiazzato.


Rimane, però, un vago senso di incompiutezza, e di ambiguità concettuale che non si sa bene come interpretare. La personale lettura che Moore propone della mitologia lovecraftiana, i colpi di scena psichedelici e le dinamiche oscure degli avvenimenti, potrebbero indurre a vedere Neonomicon, nel suo complesso, come una personale riflessione sulla mistica e le religioni in generale, rese spesso violente e orripilanti dall'ignoranza degli umani che le applicano e non oscene di per sé. L'ambiguità finale, le domande senza risposta, sembrano alludere a qualcosa di addirittura rivoluzionario,  un'apocalisse che azzeri un mondo di bugie e depravazioni per ricondurre il cosmo a una primordialità tutto sommato più innocente e auspicabile. Sembra che per Moore il culto di Cthulhu possa avere persino qualcosa di seducente se sfrondato dalle nefandezze che l'uomo, nella sua congenita bestialità, le ha sovrapposto più per divertimento personale che per reale devozione.


Una sensazione disturbante, proprio perché indefinita. Incastrata tra le potenzialità di un autore dirompente e versatile e la fretta di quella che rimane un'opera minore, suggestiva ma che non si eleva al di sopra del mero esercizio di stile. Nonostante questo, Neonomicon è un titolo che non manca di interesse, suggestione e persino di uno strisciante, insolito orrore. Un Alan Moore che, dopo Promethea, torna a  parlare di magia, di sortilegio della parola e di possibili apocalissi. Forse di palingenesi, nascondendo un sospetto barlume di ottimismo tra i miti orridi e solitamente senza speranza del tetro H.P. Lovecraft.

 
[Articolo di Filippo Messina]


Questa recensione è stata pubblicata anche su FantasyMagazine.

mercoledì 21 luglio 2010

La Lega degli Straordinari Gentlemen - Secolo: 1910


Alan Moore è tornato, e con lui le sue alchimie. E’ il momento di alzare di nuovo il sipario sugli Strordinari Gentlemen, stavolta alle prese con intrighi che si svilupperanno, a partire dal 1910, lungo tutto il secolo scorso fino alla prima decade del nuovo millennio. La ricetta ermetica, almeno in apparenza, è quella di cui abbiamo già assaggiato i frutti. Citazionismo letterario. Esoterismo. Avventura e l’eterna sfida (costante nelle opere del Bardo di Northampton) tra fumetto e alta narrativa. Un duello mediatico mai audace come in questa terza stagione dedicata ai “supereroi” letterari adottati da Alan Moore. In realtà, sebbene Century (Secolo, in italiano) sia presentato ai lettori italiani come il terzo capitolo della saga, sarebbe di fatto il quarto, giacché segue l’episodio intitolato Black Dossier, tuttora inedito in Italia come nel resto di Europa. Ragioni di copyright irrisolte hanno spinto la DC a decidere di non pubblicare il volume al di fuori dei confini statunitensi, e un’edizione europea è ancora lontana. Black Dossier anticipava le origini di alcuni personaggi di Century e portava in scena precedenti incarnazioni del gruppo. Alan Moore, dal canto suo, ha detto di considerarlo una sorta di interludio che conduce direttamente a Century, da lui promosso a seguito ufficiale della seconda saga. E così dovremo considerarlo.
Nel primo volumetto di questo nuovo ciclo, intitolato La lega degli Straordinari Gentlemen – Secolo, Moore prende però una strada inaspettata. Più labirintica e intellettuale rispetto ai due già densi capitoli precedenti, e dove condurrà stavolta il lettore, attraverso i suoi sentieri arcani, è impossibile da prevedere.


Nel primo, ormai storico, ciclo dedicato agli straordinari gentiluomini, Moore giocava con un’intuizione geniale e semplice al tempo stesso. Raggruppare personaggi dei più popolari romanzi fantastici e avventurosi ottocenteschi (in qualche caso riportandoli in vita) e farli interagire con dinamiche di squadra che ricordavano molto da vicino i tanti gruppi degli universi fumettistici più commerciali. In effetti, parecchi personaggi potevano essere considerati come una sorta di supereroi ante litteram. La diade Jekyll/Hyde, cui deve non poco il personaggio di Hulk. L’Uomo Invisibile di Wells, dal quale ha inizio una discendenza interminabile. Il Capitano Nemo con il suo sommergibile Nautilus, prototipo dell’eroe geniale che si distingue grazie alle sue avveniristiche intuizioni tecnologiche. Allan Quatermain, esploratore abituato a fare i conti con le scoperte più improbabili. E il leader femminile, Mina Murray, la protagonista di Dracula. Donzella impavida che, una volta sopravvissuta al morso del principe dei vampiri, non teme niente e nessuno. Il tutto calato in un’atmosfera steampunk, dove il gioco di citazioni suscitava la delizia del lettore più avvertito e seduceva quello più ingenuo, dimostrandosi un desco interculturale ricco e fruibile a più livelli.

Dopo due lunghe avventure e molti anni (sulle pagine del fumetto come nella realtà), lo stile con cui Alan Moore riprende in mano gli Strordinari Gentlemen appare diverso. Più criptico, meno disponibile all’intrattenimento di massa. Una delle ragioni, forse, è incidentale. Dopo due volumi, alcuni personaggi tra i più celebri ci hanno salutato per sempre. Altri lo faranno presto, e l’olimpo letterario cui Moore attinge ora, per quanto variegato, è meno popolare e riconoscibile per il lettore di fumetti del nuovo millennio. Accanto a Mina (algida e inquietante come il vampiro che non è diventata) troviamo personaggi più oscuri per il vasto pubblico (sicuramente per quello italiano) come Thomas Carnacki, il detective dell’occulto creato da William Hope Hodgson, o presi in prestito da una letteratura per palati più fini, come l’androgino Orlando di Virginia Woolf. Facciamo la conoscenza di A. J. Raffles, archetipo del ladro gentiluomo da cui sarebbe nato più tardi in Francia il celebrato Arsène Lupin. Ismaele, il baleniere narratore di Moby Dick, qui trasfigurato in un anziano e fedele famiglio. Moore si diverte persino a contaminare il florilegio letterario con riferimenti alla golden age fumettistica ricorrendo a Capitan Universo, sorta di versione inglese del Capitan Marvel (Shazam) della Fawcett Comics. E alla dottrina della psicogeografia, con il personaggio di Andrew Norton, viaggiatore temporale creato dallo scrittore (e amico di Moore) Iain Sinclair.

A questi si aggiungono figure apocrife come l’enigmatica figlia del Capitano Nemo, creatura acquatica destinata a percorrere – sia pure con motivazioni differenti – lo stesso cammino insanguinato del padre. Ma qui il gioco letterario si fa duro. Nel senso che offre spunti da decifrare con attenzione e si concede ritmi letterari che potrebbero risultare impervi a qualche fan dei due cicli precedenti. I riferimenti storici e magici non si contano. La figura di Jack lo Squartatore (già sviscerata da Moore nel basilare From Hell) torna prepotentemente in scena. Ma in una versione diversa, più alchemica, ambigua. Così come il personaggio della figlia di Nemo, che lungo questo primo capitolo subirà un processo di ibridazione con un’altra nota figura del novecento. E questo attraverso un curioso meccanismo da “musical di carta”, visto che in questa avventura dei Gentlemen, i personaggi cantano spesso, declamando versi che adombrano più o meno esplicitamente fonti illustri. Gran parte del primo capitolo è scandito da una truce rielaborazione di Jenny dei Pirati, celebre song di Bertolt Brecht e Kurt Weill dall’Opera da Tre Soldi. 



La vicenda principale che riguarda l’avvento di un misterioso “figlio della Luna” e una potenziale apocalisse progettata da una losca setta, sembra fare da pretesto per un’ambiziosa alchimia di codici narrativi. Se nelle prime due avventure dei Gentlemen, Alan Moore aveva dimostrato di saper fondere letteratura e fumetto, con la saga Secolo (Century) va addirittura oltre, e mette mano agli alambicchi per creare una nuova e
strabiliante pietra filosofale. Un collasso dell’immaginario in cui più figure si confondono tra loro dando vita a qualcosa di diverso eppure sempre uguale. Un labirinto degli specchi in cui l’origine di un archetipo rimanda a un altro e così via. Significativo, in questo, è Orlando. Uomo e donna nel medesimo tempo (come il Rebis degli alchimisti), ma anche sintesi di più figure mitologiche e letterarie che hanno attraversato la storia. La sottotrama che coinvolge personaggi ispirati all’occultista Aleister Crowley risulta un ricamo operato dal Bardo per chiamare in causa il caos da cui tutto nasce e in cui tutto torna in un ineffabile, epico, ciclo di vita e morte. Tutte le storie, tutti i personaggi e i loro derivati, sono da sempre dentro di noi. Si può cambiare loro i nomi, ci spiega Moore. Aggiornare il loro aspetto o il contesto che li ha partoriti. Ma essi vivono nella storia personale di ogni uomo e appartengono a ciascuno di noi. E in ogni uomo e donna si trasfigurano, rivelandosi a volte in modo luminoso come un nume iconico e riconoscibile. Ma quel che resta è la consapevolezza dell’immaginario collettivo. Materia viva e ribollente che ha bisogno solo della fantasia per diventare Forma e riprendere a camminare sulle proprie gambe. A correre, a nuotare. Forse a volare.

La Lega degli Straordinari Gentlemen – Secolo, è il livello successivo negli studi esoterici del mago britannico che ci ha regalato opere come Whatchmen e V for Vendetta. Stavolta sembra voler giocare interamente alle sue regole. Senza sconti, senza facili concessioni. Ci stordisce e confonde, ma nello stesso tempo ci affascina. Come tutte le volte. E sarà comunque interessante attendere di vedere che aspetto avrà l’homunculus completo una volta che Alan Moore avrà schiuso l’alambicco in cui sta ancora crescendo.


Questa recensione è stata pubblicata anche su Fumettidicarta.


[Articolo di Filippo Messina]

 

venerdì 16 gennaio 2009

Promethea vol. 5

L'Apocalisse.
Da sempre, questa parola ci fa pensare a qualcosa di definitivo e terribile. La fine del mondo. Anzi, la fine di tutto, per antonomasia. L'Armageddon, la lotta finale tra bene e male. Ma anche il giorno del giudizio secondo molte fedi. Un punto d'arrivo dal quale non si potrà tornare indietro. Ed è anche il deflagrante finale di "Promethea", la saga del grande Alan Moore conclusasi anche in Italia con il quinto volume edito da Magic Press.
Ormai è scontato. Alan Moore è un dannato camaleonte. Muta stile, genere e approccio narrativo con una disinvoltura (e con una classe!) sconcertante. In grado di compiere voli pindarici tra un fumetto dal piglio letterario, profondo e impegnato ("V for Vendetta"), e un intrattenimento di qualità altissima ("La Lega degli Straordinari Gentlemen"). Ma sempre in grado di centrare il suo obbiettivo: sorprendere il lettore, suscitare la sua ammirazione e imporgli di non dimenticare quanto ha letto non appena chiuso il libro.
"Promethea" inizia come un prodotto ibrido e stranissimo. La definizione, data da qualcuno al tempo delle prime uscite, di incrocio tra "Sandman" e "Wonder Woman" non è del tutto peregrina. Come la principessa amazzone, Promethea è l'emblema di una forza femminile primordiale. Madre, sposa, guerriera e sacerdotessa, portatrice di un irriducibile messaggio di speranza. Come Morfeo nella saga di Neil Gaiman, Promethea è anche l'incarnazione della fantasia umana e del suo stretto rapporto con l'esistenza terrena. Se "Sandman" era una storia sulle storie e sull'influenza che queste hanno sulle nostre vite, "Promethea" (che ricordiamo, in questo caso, è l'anagramma di "Metaphore") è una riflessione sul potere dell'immaginazione. Immaginazione intesa come fonte di forza e bellezza. Quella bellezza che, scriveva Dostoevskij, salverà il mondo.

Tra esoterismo, divagazioni New Age e giocosità supereroistica, Moore segue così l'avventura di Sophie, l'attuale incarnazione di Promethea. Una figura femminile magica ed enciclopedica, che attraversa tutte le espressioni della comunicazione e dell'arte umana. Dai testi alchemici alla mitologia, passando anche per la letteratura popolare e i fumetti. Promethea è il tutto. Il grande utero da cui proviene ogni cosa, e dove ogni cosa è probabilmente destinata a tornare. Un pensiero gentile e spaventoso nello stesso tempo. Iside, la Madonna, la Grande Madre Terra. E il termine del suo percorso è quello di scatenare l'Apocalisse sulla terra. Normale che molti supereroi terrestri si allarmino e tentino di fermarla. Il racconto finale è spiazzante, in grado di stravolgere le aspettative del lettore più smaliziato. Sarebbe un peccato rivelare qui (o provare a riassumere) l'affascinante rondò finale tessuto da Moore in questo volume conclusivo. Diremo soltanto che spesso ci si scorda l'autentico significato della parola Apocalisse. E cioè che significa: Rivelazione.
Il disegnatore J.H. Williams III, qui in puro stato di grazia (o sotto acido?!) supera veramente se stesso. Una tecnica sorprendente, fatta di computer grafica, illustrazione a mano, pittura e collage, ci trascina nel trip delirante dell'Apocalisse scatenata da Promethea. Uno sconvolgente risvolto pirandelliano ci mette direttamente davanti all'eroina, sorridente e rassicurante. E quando finalmente ci accorgiamo che sta parlando proprio a noi, la commozione è dietro l'angolo.
L'esperimento era già stato svolto, ma Alan Moore ne dà una versione aggiornata e assolutamente personale. Con il suo volume conclusivo, "Promethea" giunge a compimento e si colloca senza riserve tra i capolavori del grande bardo del fumetto moderno.
In "Promethea" troverete echi di "Sandman", dell' "Animal Man" di Grant Morrison, e anche qualcosa degli
"Invisibles" di quest'ultimo. Ma filtrate attraverso la prosa e la genialità del "mago" Alan Moore, come di recente si è definito egli stesso.
Ed è proprio vero. L'immaginazione è magia. L'immaginazione è una cosa reale. Scrive le
nostre storie al pari degli accadimenti quotidiani. E può essere veicolo di verità imbrigliate dalla troppa razionalità.
Promethea è qui, e non può più essere fermata. La sua Apocalisse potrebbe salvare il mondo.
E il suo messaggio, mistico e pacifista, travolge gli animi se non i corpi, generando una
nuova speranza, un nuovo modo di guardare il mondo.
O almeno lo suggerisce. E scusate se è poco.



Questa recensione è stata pubblicata anche su Fantasymagazine.

[Articolo di Filippo Messina]