Non è semplice parlare di "The Lighthouse", opera seconda di Robert Eggers, regista statunitense che nel 2015 aveva aperto nuovi orizzonti alla concezione dell'horror cinematografico con il bel "The Witch", storia di stregoneria, ma anche di pregiudizio, sospetto, frustrazione, liberazione. Non è semplice perché con "The Lighthouse" Eggers fa un ulteriore passo avanti. Insomma, osa - da un lato -, allontanandosi ancora di più dalle dinamiche commerciali cui siamo abituati. Da un altro, ingrana la marcia per farsi definitivamente autore, facendo delle scelte inconsuete e dichiaratamente controtendenza. Il rischio (grosso) è quello di considerare le scelte estetiche di "The Lighthouse" pretenziose, e la sua forma un esercizio di stile forse un po' arrogante. Diciamo subito che Robert Eggers dimostra egregiamente di potersi permettere queste "trasgressioni", e il suo dichiarato rifuggire dalla contemporaneità. La scelta del bianco e nero, l'uso di una strumentazione tecnica desueta, e un quadro cinematografico in 4:3, quadrato come vecchie produzioni hollywoodiane. C'è qualche pretesa, d'accordo, ma anche del coraggio. Il quadro ridotto dello schermo non rimanda semplicemente a un cinema che fu, così come la scelta cromatica. La scelta estetica sottolinea un intento concettuale, dove a contare sono i dettagli, i sottintesi, in cui il campo visivo compatto evidenzia il senso di claustrofobia, di spazio limitato tra i corpi, dove non c'è via di fuga se non un oceano ostile pronto a ingoiare tutto.
Non è semplice parlarne perché Il racconto di "The Lighthouse" vive soprattutto di suggestioni e suggerimenti. E analizzarne i simboli, fornire le proprie interpretazioni di determinati risvolti, potrebbe avere il sapore dello spoiler non richiesto. I due uomini su quello scoglio striminzito, un anziano guardiano del faro e un giovane assistente, cui è vietato l'accesso alla lanterna, vista qui come una sorta di divinità lovecraftiana in grado di fornire risposte scomode e aprire porte sull'orrore, reggono l'intero film con la forza dei loro dialoghi. Dialoghi non realistici, scritti in un inglese letterario che echeggia e richiama precedenti illustri. Tra tutti, il palese riferimento alla "Ballata del vecchio marinario" di Samule Taylor Coleridge. Si dice che lo script del film di Eggers sia ispirato a un racconto incompiuto di Edgar Allan Poe. In realtà soltanto in parte, considerato che nel racconto di Poe ad abitare lo scoglio e a occuparsi del faro è un uomo solo con le sue ossessioni. Ma le voci del mare, la natura inquietante del faro come idolo enigmatico e temibile, permangono nel film di Eggers. In quel microcosmo marinaro, nel rapporto tra i due e nelle loro routine, sembra di vedere un possibile inferno. Oppure una possibile metafora dell'umanità e delle sue (orrende) prospettive di esistenza, fatte di prevaricazione, caos e incapacità di redimersi. “
The Lighthouse” trova nei suoi interpreti un ingranaggio perfettamente oliato. Chi si ostina a dire che Robert Pattinson non è un attore completo o ha visto soltanto “Twilight” o continua a ripeterlo in malafede per puro puntiglio. Willem Dafoe appare immenso in un ruolo sgradevolissimo, tra echi di Herman Melville e il profilo di un nocchiero infernale. In definitiva, “The Lighthouse” è un film complesso, forse non del tutto compiuto, ma sicuramente da vedere. Un'esperienza visiva, sensoriale e concettuale che non fa sconti allo spettatore. Una visione che fa anche stare male a tratti. E la presenza dei gabbiani, il cui verso (lo sa bene chi ha vissuto per un po' vicino al mare) sembra tanto una risata beffarda, è un altro segnale di sporcizia, degrado e morte. Una morte e un degrado che la luce del faro può soltanto far risaltare di più. In un modo oscenamente rivelatore.
Nessun commento:
Posta un commento