«Mancu t'affrunti, vastasu?! Davanti a mia, davanti a na fimmina?!»
Il teatrino si ripete uguale ogni mattina seguente. In genere nelle prime ore della domenica, giusto perché i residenti, non dovendo andare al lavoro, hanno più tempo per sfogarsi e imprecare. Il copione è lo stesso per più giorni la settimana. Si va in replica ininterrottamente ormai da anni, come in Inghilterra la piece di Agatha Christie "Trappola per topi", eternamente in cartellone. Qui siamo a Palermo, quartiere Vucciria. Il mattino dopo le nottate festaiole che animano i vicoli per più sere la settimana. Le battute sono più o meno sempre quelle, di poco modificate nel canovaccio ormai canonizzato. La commedia dell'arte funzionava così, e da queste parti la farsa non segue dinamiche troppo diverse. Le maschere le conosciamo. Ci sono tutte. Il fiero padre di famiglia che lamenta l'infame spettacolo offerto ai figli ancora piccoli. L'attempata matriarca su tutte le furie. La giovane madre sfranta dalle poche ore di sonno. Inizia la performance. Le proteste, le cronache di scaramucce notturne consumate in quegli spazi scenici che stanno tra i balconi che danno sulla strada e i mattoni sfossati, umidi e puzzolenti di quel vicolo che ha la forma di una mezzaluna. Dove gli echi di strilli, tinniti, motori e vetri rotti si inseguono e ti inseguono, penetrando fin dentro le abitazioni cui donano un'atmosfera da magione infestata. E' inutile rintanarsi dietro le quinte. Sei parte dello spettacolo anche tu.
«Puru davanti a una fimmina, pezzo di vastasu!»
La signora del piano di sopra racconta l'ennesima piazzata notturna con un giovanotto troppo ubriaco per curarsi di stare pisciando contro un portone, giusto sotto lo sguardo della proprietaria affacciata. E' una delle pene accessorie di questa moderna movida cittadina. La fogna a cielo aperto. Là dove la musica assorda, le voci cianciano e la birra scorre senza sosta, tra quelle stradine buie irte di abitazioni private, ci si deve pur sfogare. E allora giù la cerniera e via. Un fiume in piena, di piscio, di noncuranza, di fiera impunità. La macchina umana, del resto, ha le sue debolezze. Aanche il sesso è indispensabile, specie in determinati momenti di euforia. Farlo sulle auto posteggiate non è poi così scomodo. Dopotutto è festa. Dopotutto è notte. Dopotutto è giusto così.
Il quartiere è uno dei pochi spazi liberati di Palermo. Così lo hanno definito. Così hanno scritto.
Mi chiedo liberato da chi? Da cosa? L'idea che mi ronza in mente è un parallelismo sinistro con i padri pellegrini d'America e i loro successori. Penso ai residenti del quartiere, chiusi nei loro appartamenti con mura sottili, assediati come pellerossa costretti nelle loro riserve, mentre l'uomo bianco stupra le vallate, decima i bisonti, saccheggia i campi, fa sostanzialmente come se fosse a casa sua senza limiti di sorta.
Perché? Probabilmente perché ha liberato quella terra. E gli spetta un premio. Che cosa vorresti dire ai coloni che ti portano libertà e progresso?
Cosa può contare il tuo riposo notturno contro la valenza liberatoria di una gioventù che non vede altro che se stessa? La notte come momento di svago e rivalsa. Questa culla di attività illegali, barchetta in un mare tempestoso cui s'aggrappano i disperati di un quartiere la cui malafama sembra tenere lontane la legge come il pentacolo in un sabba dovrebbe contenere i movimenti del demone impedendogli di superare gli argini. Così la logica del profitto e della prevaricazione alza un muro divisorio al di sopra del quale i residenti in ostaggio potranno contemplare la propria progressiva disfatta, a beneficio di un invasore che non arriva da oltre mare, come temono gli ignoranti, ma da una provincia intellettuale vicinissima eppure terribilmente aliena.
Questo meccanismo liberatorio che benedice acidamente (con un cerchio di strafottente piscio birroso) l'ambiguo concetto di legalità e di cultura della stessa. Là dove esercizi in regola subiscono controlli rigorosi, a volte ai limiti della sopportazione economica in questi tempi di crisi, mentre la vita nell'ombra dei vicoli - se si eccettuano rare, comode sortire dell'autorità) può a suo modo prosperare. Son cose diverse. Non si possono applicare le norme là dove i conflitti sociali si inasprirebbero, dice qualcuno del quartiere che dovrebbe avere un ruolo nell'amministrazione comunale. Del resto chi avremmo a gestirli?
Un messaggio pessimo che risuona nel cervello mentre l'ennesimo ragazzo o ragazza litiga al cellulare con il partner camminando avanti e indietro sotto la tua finestra (quel tratto di vicolo sembra essere il foyer della discoteca senza confini). S'insultano, si rinfacciano di tutto, in una grottesca caricatura de La voce umana di Jean Cocteau. Puttana! Stronzo! Scopi con tutti perché non ti senti bella e cerchi conferme... Sei un capolavoro! Un capolavoro di merda! Ti narrano vita, morte e miracoli della loro relazione... ma per qualche motivo, nessuno dei due interompe mai la telefonata. Nonostante i vaffanculo siano ormai arrivati a due cifre. E' un siparietto dello spettacolo che va in scena notte dopo notte. Senza freni, senza filtri. Senza regole. In casa tua.
E' una zona liberata della città, lo volete capire? E' una conquista! E' una cosa bella!
Nel chiuso della nostra riserva indiana, sentiamo i canti dei soldati blu ubriachi. Hanno vinto loro. Le nostre terre ora ospitano le loro fattorie, dove nuove generazioni di impavidi coloni cresceranno per portare avanti il grande sogno democratico. La storia, a volte, ha dei piccoli ricorsi. Basta guardare i dettagli. Sono lì.
Per questo non riesco a dimenticarmelo, quando l'ennesimo politico palermitano in campagna elettorale, per parlare di cultura della legalità, sceglie come teatro della propria epifania proprio il cuore dell'affollatissimo, festoso tratto che costeggia la riserva.
Io, vecchio indiano, nel chiuso del mio ormai ristretto territorio, rifletto sulla possibile redenzione di un popolo assediato. E fatico a vedere oltre quel filo spinato che mi urla che ormai sono una minoranza, e sul quale è stata crocifissa la parola libertà.
[La foto è di Sade]
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