lunedì 10 dicembre 2012

Supreme - the Story of the Year


Supreme è tornato. Dopo un lungo esilio nello spazio, il gigante di alabastro si dirige verso la terra. Ma qualcosa non va. Il pianeta, le persone, le cose, non sono come Supreme le ricordava. In effetti, ricorda veramente poco della sua vita passata. Come se qualcosa o qualcuno stesse riscrivendo la sua esistenza, definendone ex novo tutti i dettagli, fino al più piccolo, nascosto segreto...

 
Torna Supreme. Quello che aspettavamo, quello più vero, insomma. E torna Alan Moore, in uno dei suoi lavori revisionisti più riusciti e certosini, in un bel volume delle edizioni Renoir che presenta in un'unica soluzione l'intera saga The Story of the Year, che ridisegnò interamente il cosmo del personaggio creato da Rob Liefeld giovando a Moore il Premio Eisner nel 1997 per la migliore sceneggiatura. Più che di revisione, però, potremmo parlare di vera e propria rifondazione. Un nuovo inizio e una sostanza fumettistica affatto diversa da quella degli esordi. Senza provare a nascondersi dietro un dito, si può affermare che Supreme fosse nato per essere la versione Image dell'unico e solo Superman. Una delle tante controfigure che, nel corso della storia, svariati marchi editoriali hanno affiancato ad altrettanti personaggi iconici, nati e cresciuti agli albori della storia supereroistica. Superman e Batman avanti a tutti. Dell'Uomo d'Acciao si erano già viste una quantità di cloni più o meno dichiarati, ma tutti abbastanza riconoscibili (Capitan Marvel, Miracleman, Hyperion dello Squadrone Supremo) e molti altri ancora sarebbero seguiti. 


L'avventura editoriale della Image, iniziata nel 1992, aveva attinto a piene mani da più universi narrativi per popolare un cosmo appena nato che si preparava a sbancare soprattutto in forza delle spettacolari illustrazioni. Erano gli anni degli scontri senza una chiara causa, delle storie che terminavano con un puff, e di antieroi dalle personalità bidimensionali, violenti quanto appariscenti se non kitsch. Dopo aver creato la squadra degli Youngblood, il disegnatore Rob Liefeld (già destinato a diventare leggendario per le sue anatomie impossibili e grottesche) lanciò Supreme: sorta di Superman albino, glaciale e spietato. Per capire di che stoffa era fatto questo Uomo d'Acciaio di fine millennio, vale la pena ricordarne gli esordi. Supreme faceva la sua comparsa tornando sulla terra dopo un volontario esilio (lo stesso espediente che Moore userà per il suo reboot, ma anche – anni dopo – Bryan Singer nel cinematografico Superman Returns), e dava subito prova del suo ardore contro un gruppo di terroristi barricati in un aeroporto, riducendone alcuni a brandelli sanguinolenti e altri in cenere con la sua letale vista calorifica. Qualcosa di simile al Superman assassino che molto tempo dopo avremmo visto nell'Irredeemable di Mark Waid, ma con ben altri risultati. Un ulteriore sviluppo caratterizzò Supreme come un invasato religioso, portando avanti la versione di un Superman psicopatico e violento. Erano i primi anni novanta e lo slogan per vendere le storie degli eroi in tuta sembrava essere: feroce, perciò figo. In qualche modo, la serie funzionò dal punto di vista delle vendite, resistendo fino al numero 40. Frattanto, Liefeld lasciava la Image per fondare l'etichetta Extreme, ed è in questo momento che Alan Moore prende in mano il timone di Supreme e, semplicemente... todo cambia


Supreme torna (di nuovo) dallo spazio, ma non è più lui. Qualcosa è cambiato dal primo stile Image. In meglio. E Supreme è destinato a diventare una delle controfigure dell'unico Superman più riuscite e dettagliate di tutti i tempi. Complice la magia e la passione che caratterizza la scrittura di un Alan Moore particolarmente ispirato. La sete di sangue è stata azzerata, così ogni velleità da cattolico esaltato. Quello che adesso ci troviamo davanti, per indole e attitudini, è semplicemente Superman, ma noi – complici – lo chiameremo Supreme. Non è un mistero che la fase fumettistica relativa agli eroi in costume più amata dal Bardo di Northampton fosse la Silver Age. Quel periodo editoriale che si colloca tra il 1961 e i primi anni settanta, quando le avventure degli eroi con poteri erano più ingenue, ma anche dense di avventura, senso del fantastico e di invenzioni iconiche memorabili. Moore era rimasto deluso nel vedere che il suo lavoro di svecchiamento dei supereroi svolto su Watchmen aveva figliato soltanto rampolli degeneri, che dal suo capolavoro prendevano soltanto gli aspetti cupi ed efferati, ignorandone completamente la profondità e la riflessione esistenziale. E' probabile, pertanto, che abbia affrontato il rilancio di Supreme come una sfida personale. La fantasia e il piacere della meraviglia rialzavano la testa contro quell'industria che stava uccidendo le storie a favore dello spettacolo disegnato più superficiale, violento e alla lunga stucchevole. 
Supreme – The Story of the Year è un monumentale atto d'amore al Superman più classico, ai suoi comprimari storici e a tutti i suoi feticci e tormentoni, anche i più pazzi e desueti. L'invenzione metafumettistica di Moore pone il protagonista di fronte a un fenomeno di palingenesi generale. Tornato dal suo lungo viaggio nello spazio, Supreme scopre che l'intero universo è soggetto a ciclici assestamenti che ridisegnano tanto il passato quanto il presente (lavoro che nella realtà stava venendo svolto dallo stesso Moore), sostituendo di fatto la realtà conosciuta con una nuova e differente. Supreme, dunque, non uccide nessuno. Anzi, non lo ha mai fatto, non ci pensa neanche. I suoi vuoti di memoria sono riconducibili al ridisegnarsi della sua realtà personale, e nella Supremazia, limbo dove si rifugiano e prosperano come in un Valhalla tutte le sue versioni passate, avrà modo di incontrare le varianti più demodé e strampalate che siano state date dell'Uomo d'Acciaio (comprese le sue versioni parodistiche e zoomorfiche). 

 
Dopo la definizione filosofica del concetto di riavvio come nuova genesi e della Supremazia come memoria storica del personaggio, il Bardo si scatena e consegna ai posteri il più divertente e ben scritto compendio sulla mitologia di Superman che sia mai stato realizzato. Nel mondo di Moore, Supreme ha un'identità umana, si chiama Ethan Crane e disegna fumetti per la Dazzle Comics dove lavora come sceneggiatrice la donna dei suoi sogni: Diana Dane. Ogni singola icona è recuperata da Alan Moore e forgiata in un fuoco che la rende diversa eppure identica al suo omologo DC Comics. Incontriamo così Radar, il corrispettivo di Kripto il supercane, Supergirl-Suprema (cugina per Superman, sorella per Supreme). Esploriamo la sua Cittadella-Fortezza della Solitudine, un vero e proprio museo del fantastico, pronto in alcune occasioni a trasformarsi in un pericolosissimo Luna Park. Lo stesso vale per luoghi (come Smalville che diventa Littlehaven) e concetti (la città in bottiglia Kandor, qui invece trasformata in un cristallo). La Justice League – immancabile – si trasforma negli Alleati, e il contributo di molti disegnatori (ognuno con il suo stile peculiare) consegna all'immortalità ogni dettaglio del mondo e dei tempi storici di Supreme-Superman, con una sarabanda di storie che spaziano dal nostalgico al parodistico, alternando anche gustose riflessioni metafumettistiche e dichiarate frecciatine all'Image style che dopo l'iniziale successo aveva già intrapreso la sua fase calante. 


Unico punto debole (se così si può dire) di Supreme – The Story of the Year, è forse che può essere goduto appieno da veterani che conoscono bene il mito di Superman e le sue declinazioni decennali. Il divertimento è tanto quanto più è possibile riconoscere l'humus fumettistico con cui Alan Moore ha realizzato le proprie alchimie, cogliendo variazioni, citazioni e affascinanti trasfigurazioni concettuali. Un pubblico molto giovane potrebbe magari apprezzare la coerenza fantasiosa del tutto, ma senza coglierne gli aspetti ironici e critici. Rappresentativa la trilogia di episodi realizzata nello stile dei Racconti della Cripta della EC Comics, che negli anni 50 strappò lo scettro di fumetto più seguito agli eroi in costume e segnò l'inizio della loro crisi dopo i fasti del periodo bellico. Già allora – rammenta Moore – le ansie sociali erano ben al di sopra delle capacità di un supereroe, anche del più potente. Neppure Supreme può nulla contro il mutare dei costumi, come gli ricorda (allusione al magazine satirico Mad) l'improvvida trasformazione in una versione distorta e ridicola di se stesso. Da questo punto di vista, la giostra del gioco fumettistico innescato da Moore con la sua ciurma di artisti al seguito è strepitosa, e riesce a presentare dei veri salti nel tempo, mutando stile a seconda delle epoche e dei contesti che va a toccare.


Ma il Supreme di Alan Moore non è soltanto un delizioso e interessante mosaico che cuce insieme pezzi di storia del fumetto. C'è ampio spazio per l'avventura nel più incantevole stile del Bardo. Anzi, per un'avventura circolare che semina indizi e trappole di cui non ci renderemo conto se non alla fine, quando la grande festa deflagra ed è tempo, dopo i fuochi colorati, della mascoliata finale. Un'avventura che chiude il cerchio con grande stile, e che avrebbe dovuto preludere a una seconda, longeva vita del Supreme definitivo. Non fu così, purtroppo. Quando la collaborazione di Rob Liefeld con la Extreme si esaurì (causando la chiusura anticipata di Supreme: The Return, successivo ciclo firmato da Moore) il Bardo lo seguì presso la nuova etichetta Maximum, per la quale realizzò Judgment Day, un crossover che avrebbe dovuto estendere il suo lavoro di riscrittura all'intero cosmo fumettistico fondato da Liefeld. Ormai, però, le finanze scarseggiavano, e la Maximum (subito trasformatasi in Awsome Comics) naufragò trascinando con sé quel che restava dei progetti del Bardo, tra cui il rilancio degli Youngblood. Quel che seguì e segue tuttora è solo routine commerciale. Per quanto ci riguarda, Supreme ha fatto ritorno nella Supremazia, portando con sé tutta la folla di eroi felicemente riscritti da Moore (praticamente l'intero cosmo DC). Ma ormai abbiamo imparato che ci sarà sempre un Supreme che vola da qualche parte. Magari ammantato da colori differenti, forse sotto altri nomi. A volte ci ostiniamo a chiamarlo Superman, ogni tanto gli affibbiamo nuovi appellativi. In certi casi è l'eterno boy scout fisicamente sviluppato che conoscevano i nostri nonni, in altri un folle e inarrestabile mostro. Comunque sia, ci sarà sempre un Supreme nell'immaginario fumettistico di tutti noi. Per quanto trasformato, per quanto tradito, tornerà sempre a esigere il suo ruolo nei nostri sogni. E questo, Alan Moore lo aveva capito tanto tempo fa.


 Questa recensione è stata pubblicata anche su FantasyMagazine.

[Articolo di Filippo Messina]


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