Supreme è tornato. Dopo un
lungo esilio nello spazio, il gigante di alabastro si dirige verso la
terra. Ma qualcosa non va. Il pianeta, le persone, le cose, non sono
come Supreme le ricordava. In effetti, ricorda veramente poco della
sua vita passata. Come se qualcosa o qualcuno stesse riscrivendo la
sua esistenza, definendone ex novo tutti i dettagli, fino al più
piccolo, nascosto segreto...
Torna Supreme. Quello che
aspettavamo, quello più vero, insomma. E torna Alan Moore, in
uno dei suoi lavori revisionisti più riusciti e certosini, in
un bel volume delle edizioni Renoir che presenta in un'unica
soluzione l'intera saga The Story of the Year, che ridisegnò
interamente il cosmo del personaggio creato da Rob Liefeld giovando a
Moore il Premio Eisner nel 1997 per la migliore sceneggiatura. Più
che di revisione, però, potremmo parlare di vera e propria
rifondazione. Un nuovo inizio e una sostanza fumettistica affatto
diversa da quella degli esordi. Senza provare a nascondersi dietro un
dito, si può affermare che Supreme fosse nato per
essere la versione Image dell'unico e solo Superman. Una delle
tante controfigure che, nel corso della storia, svariati
marchi editoriali hanno affiancato ad altrettanti personaggi iconici,
nati e cresciuti agli albori della storia supereroistica. Superman e
Batman avanti a tutti. Dell'Uomo d'Acciao si erano già viste
una quantità di cloni più o meno dichiarati, ma tutti
abbastanza riconoscibili (Capitan Marvel, Miracleman,
Hyperion dello Squadrone Supremo) e molti altri ancora
sarebbero seguiti.
L'avventura editoriale della Image,
iniziata nel 1992, aveva attinto a piene mani da più universi
narrativi per popolare un cosmo appena nato che si preparava a
sbancare soprattutto in forza delle spettacolari illustrazioni. Erano
gli anni degli scontri senza una chiara causa, delle storie che
terminavano con un puff, e di antieroi dalle personalità
bidimensionali, violenti quanto appariscenti se non kitsch. Dopo aver
creato la squadra degli Youngblood, il disegnatore Rob Liefeld
(già destinato a diventare leggendario per le sue anatomie
impossibili e grottesche) lanciò Supreme: sorta di
Superman albino, glaciale e spietato. Per capire di che stoffa era
fatto questo Uomo d'Acciaio di fine millennio, vale la pena
ricordarne gli esordi. Supreme faceva la sua comparsa tornando sulla
terra dopo un volontario esilio (lo stesso espediente che Moore userà
per il suo reboot, ma anche – anni dopo – Bryan Singer nel
cinematografico Superman Returns), e dava subito prova del suo
ardore contro un gruppo di terroristi barricati in un aeroporto,
riducendone alcuni a brandelli sanguinolenti e altri in cenere con la
sua letale vista calorifica. Qualcosa di simile al Superman assassino
che molto tempo dopo avremmo visto nell'Irredeemable di Mark
Waid, ma con ben altri risultati. Un ulteriore sviluppo caratterizzò
Supreme come un invasato religioso, portando avanti la
versione di un Superman psicopatico e violento. Erano i primi anni
novanta e lo slogan per vendere le storie degli eroi in tuta sembrava
essere: feroce, perciò figo. In qualche modo, la serie
funzionò dal punto di vista delle vendite, resistendo fino al
numero 40. Frattanto, Liefeld lasciava la Image per fondare
l'etichetta Extreme, ed è in questo momento che Alan Moore
prende in mano il timone di Supreme e, semplicemente... todo
cambia.
Supreme
torna (di nuovo) dallo spazio,
ma non è più lui. Qualcosa è cambiato dal primo
stile Image. In meglio. E Supreme è destinato a diventare una
delle controfigure dell'unico Superman più riuscite e
dettagliate di tutti i tempi. Complice la magia e la passione che
caratterizza la scrittura di un Alan Moore particolarmente ispirato.
La sete di sangue è stata azzerata, così ogni velleità
da cattolico esaltato. Quello che adesso ci troviamo davanti, per
indole e attitudini, è semplicemente Superman, ma noi –
complici – lo chiameremo Supreme.
Non è un mistero che la fase fumettistica relativa agli eroi
in costume più amata dal Bardo di Northampton fosse la Silver
Age. Quel periodo editoriale che si colloca tra il 1961 e i primi
anni settanta, quando le avventure degli eroi con poteri erano più
ingenue, ma anche dense di avventura, senso del fantastico e di
invenzioni iconiche memorabili. Moore era rimasto deluso nel vedere
che il suo lavoro di svecchiamento dei supereroi svolto su Watchmen
aveva figliato soltanto rampolli degeneri, che dal suo capolavoro
prendevano soltanto gli aspetti cupi ed efferati, ignorandone
completamente la profondità e la riflessione esistenziale. E'
probabile, pertanto, che abbia affrontato il rilancio di Supreme
come una sfida personale. La fantasia e il piacere della meraviglia
rialzavano la testa contro quell'industria che stava uccidendo le
storie a favore dello spettacolo disegnato più superficiale,
violento e alla lunga stucchevole.
Supreme – The Story of
the Year è un monumentale
atto d'amore al Superman più classico, ai suoi comprimari
storici e a tutti i suoi feticci e tormentoni, anche i più
pazzi e desueti. L'invenzione metafumettistica di Moore pone il
protagonista di fronte a un fenomeno di palingenesi generale. Tornato
dal suo lungo viaggio nello spazio, Supreme scopre che l'intero
universo è soggetto a ciclici assestamenti che ridisegnano
tanto il passato quanto il presente (lavoro che nella realtà
stava venendo svolto dallo stesso Moore), sostituendo di fatto la
realtà conosciuta con una nuova e differente. Supreme, dunque,
non uccide nessuno. Anzi, non lo ha mai fatto, non ci pensa neanche.
I suoi vuoti di memoria sono riconducibili al ridisegnarsi della sua
realtà personale, e nella Supremazia,
limbo dove si rifugiano e prosperano come in un Valhalla tutte le sue
versioni passate, avrà modo di incontrare le varianti più
demodé e strampalate che siano state date dell'Uomo d'Acciaio
(comprese le sue versioni parodistiche e zoomorfiche).
Dopo la definizione
filosofica del concetto di riavvio come nuova genesi e della
Supremazia come memoria storica del personaggio, il Bardo si
scatena e consegna ai posteri il più divertente e ben scritto
compendio sulla mitologia di Superman che sia mai stato realizzato.
Nel mondo di Moore, Supreme ha un'identità umana, si chiama
Ethan Crane e disegna fumetti per la Dazzle Comics dove lavora come
sceneggiatrice la donna dei suoi sogni: Diana Dane. Ogni singola
icona è recuperata da Alan Moore e forgiata in un fuoco che la
rende diversa eppure identica al suo omologo DC Comics. Incontriamo
così Radar, il corrispettivo di Kripto il supercane,
Supergirl-Suprema (cugina per Superman, sorella per Supreme).
Esploriamo la sua Cittadella-Fortezza della Solitudine, un vero e
proprio museo del fantastico, pronto in alcune occasioni a
trasformarsi in un pericolosissimo Luna Park. Lo stesso vale per
luoghi (come Smalville che diventa Littlehaven) e concetti (la città
in bottiglia Kandor, qui invece trasformata in un cristallo). La
Justice League – immancabile – si trasforma negli Alleati,
e il contributo di molti disegnatori (ognuno con il suo stile
peculiare) consegna all'immortalità ogni dettaglio del mondo e
dei tempi storici di Supreme-Superman, con una sarabanda di storie
che spaziano dal nostalgico al parodistico, alternando anche gustose
riflessioni metafumettistiche e dichiarate frecciatine all'Image
style che dopo l'iniziale successo aveva già intrapreso la sua
fase calante.
Unico punto debole
(se così si può dire) di Supreme – The Story of
the Year, è forse che può essere goduto appieno da
veterani che conoscono bene il mito di Superman e le sue declinazioni
decennali. Il divertimento è tanto quanto più è
possibile riconoscere l'humus fumettistico con cui Alan Moore ha
realizzato le proprie alchimie, cogliendo variazioni, citazioni e
affascinanti trasfigurazioni concettuali. Un pubblico molto giovane
potrebbe magari apprezzare la coerenza fantasiosa del tutto, ma senza
coglierne gli aspetti ironici e critici. Rappresentativa la trilogia
di episodi realizzata nello stile dei Racconti della Cripta
della EC Comics, che negli anni 50 strappò lo scettro di
fumetto più seguito agli eroi in costume e segnò
l'inizio della loro crisi dopo i fasti del periodo bellico. Già
allora – rammenta Moore – le ansie sociali erano ben al di sopra
delle capacità di un supereroe, anche del più potente.
Neppure Supreme può nulla contro il mutare dei costumi, come
gli ricorda (allusione al magazine satirico Mad) l'improvvida
trasformazione in una versione distorta e ridicola di se stesso. Da questo punto di vista, la giostra del gioco fumettistico innescato da Moore con la sua ciurma di artisti al seguito è strepitosa, e riesce a presentare dei veri salti nel tempo, mutando stile a seconda delle epoche e dei contesti che va a toccare.
Questa recensione è stata pubblicata anche su FantasyMagazine.
[Articolo di Filippo Messina]
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