Tutto, per esistere davvero, ha bisogno di visibilità. Cose, persone e concetti, senza la testimonianza costante della parola, senza una presenza adeguata, svaniscono come un anello di fumo, e altrettanto presto si deteriora ogni ricordo di essi. Per questo esiste la Storia, quella con la maiuscola. O almeno così credono, sperano, alcuni tra noi.

E' un onore poter fare finalmente la conoscenza di Antonio Angelicola, detto Ninella, giovane sarto partenopeo protagonista di “In Italia sono tutti maschi”, la cui tragica storia è rimasta ignorata per cinquant’anni. O, ancora meglio, incontrare Giuseppe B, il suo alter ego nella vita reale, diretto testimone delle persecuzioni fasciste ai danni delle persone omosessuali relegate nella prigione a cielo aperto sull’isola di San Domino, nell'arcipelago delle Tremiti. Confino che ebbe termine nel 1940, con l’inizio della guerra e un ritorno a casa gravato dall’infamia e da anni di arresti domiciliari. Un crimine contro l’umanità cui, come testimonia la drammatica intervista che conclude il volume, neppure l’avvento della Repubblica avrebbe posto rimedio, in quanto nessuno degli omosessuali mandati al confino dal regime fascista furono mai riabilitati. Se il ventennio fascista era giunto a termine, l’omofobia italiana stava sbocciando, pronta a mettere subdolamente radici nei terreni più disparati. Gli omosessuali non saranno stati “nemici della patria”, ma restavano comunque vittime troppo poco presentabili perché se ne potesse parlare apertamente. Persino le leggi razziali promulgate nel 1938 non contenevano espliciti riferimenti all’orientamento sessuale. Mussolini liquidò la questione con la frase a effetto che “In Italia sono tutti maschi”, pronti a combattere per la patria e far figli a carrettate. Il peccato di omosessualità era talmente infame da non giustificare neppure l’esistenza di una legge repressiva apposita. Se i nazisti, ricorsero al famigerato triangolo rosa per marchiare le persone omosessuali, in Italia la persecuzione seppe essere crudelmente discreta. Meglio tacere il fatto, perseguendolo poi con espedienti pretestuosi, e togliere quella spazzatura dalla circolazione, in modo che nessuno potesse vederla. Un capitolo nero soffocato tra gli orrori della guerra e la tragedia del fascismo, e tuttora per lo più rimasto celato.

Nell'opera di Luca de Santis e Sara Colaone il ponte tra passato e presente è rappresentato mediante il ricorso a due piani narrativi. Il giovane giornalista Rocco, intenzionato a realizzare un documentario sulla vicenda degli omosessuali al confino, è simbolo di un punto di vista attuale, che guarda alla storia trascorsa con interesse, ma non è ancora del tutto libero dalle catene dell’imbarazzo. Il suo rapporto con Antonio, ormai vecchio e stanco, riluttante testimone di quei tragici giorni, assume le atmosfere del viaggio iniziatico di due anime speculari. Quel tragitto in auto che dovrebbe portare giornalisti e testimone ancora una volta sul suolo di San Domino è più volte interrotto – così come il racconto retrospettivo – per sottolineare la difficoltà culturale ad assimilare informazioni scomode, e a far proprie certe emozioni.
Il documentario, alla fine del viaggio, potrebbe anche non essere prodotto, ma quel che importa, e che ci viene suggerito dal libro, è che la comprensione avvenga al livello delle viscere più che del cervello. Solo in questo modo, sembrano dirci de Santis e Colaone, si può arrivare veramente a capire cosa significa essere “Uomini”, e che la semplice etichetta di “Maschi”, fieramente consacrata da Mussolini e ancora così cara a una certa destra, di per sé non indica nulla di cui andare realmente fieri.
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