sabato 16 dicembre 2006

Docet - Racconto


DOCET
Racconto di Filippo Messina


La notte del 16 agosto 1987, alla vigilia del suo settantacinquesimo compleanno, Ambrogio Grattenna, rizzatosi improvvisamente a sedere sul materasso, gridò con quanto fiato aveva in gola che le locuste avrebbero invaso il paese.
Purtroppo, era solo l'inizio di una febbre che avrebbe continuato ad ardere per più di un anno prima di ridurre definitivamente in cenere quella che era stata la mente più brillante del villaggio. Lo sconcerto dei paesani fu grande, giacché Ambrogio era considerato una quercia saggia e spesso i giovani lo additavano quale esempio di vigore e lucidità. Le cose, ahimè, stavano cambiando per sempre. Quell'intelletto sopraffino era tragicamente cagliato e al posto del vecchio maestro restava uno stolido energumeno che presto sarebbe sceso nella fossa.
In un breve elogio, scritto dal notaio Antonio B in occasione dei funerali, il maestro Grattenna fu definito con toni lirici: "Arca spaziosa traboccante dottrina e sagacia, nella quale erudizione e bontà d'animo vivevano concordi a dispetto degli anni grami e dell'ambiente arido in cui vennero a sbocciare."
Parole sincere, che molti vecchi allievi del compianto Ambrogio sottoscrissero con una mano sul cuore. Oggi, nella scuola di Villaggio dei Giusti, tra la carta dell'Europa e l'ingresso allo schedario, un ritratto ingiallito rammenta a tutti il volto austero del maestro. E ogni mattina, al cospetto di quelle basette venerande, scoprono il capo insegnanti e bidelli, tributando un istante di silenzio alla memoria dell'illustre fondatore.

«Io fui il primo dei suoi allievi» dice lo spazzino Ugo P torcendosi un tantino imbarazzato nella tuta sudicia. «Credeteci o no, è con me che iniziò il suo lavoro d'insegnante. In paese incontrerete una caterva di bugiardi che dicono d'essere stati il suo primo scolaro. Sfido! C'è da leccarsi le dita nel poterlo raccontare. Ma io conservo ancora una vecchia prova di scrittura corretta da Ambrogio, con tanto di data e la sua firma. E quella, porcocane, è vera come il Vangelo!
Alla fine della guerra, Ambrogio tornò in paese senza neppure un graffio e si rimboccò subito le maniche. Una sera, rientrai in casa passando per l'orticello e sentii i miei parlare con un estraneo nella cucina. Non riconoscevo la voce, ma mia mamma lo chiamava per nome. Ambrogio. L'uomo stava dicendo di avere studiato lettere, di avere molte idee e di voler provare a trasmettere qualcosa. Diceva anche che i tempi stavano cambiando e che era il momento di ricostruire Villaggio dei Giusti a partire dai paesani. Allora non capivo bene, ma i miei genitori sembravano molto interessati alle sue chiacchiere. Papà non aveva mai imparato a leggere e mia mamma sapeva fare appena qualche conto elementare. Ambrogio era molto persuasivo. Le bombe avevano ridotto il nostro paese uno straccio, diceva, ma ci saremmo rimessi in piedi. E il primo mattone dovevano essere i ragazzi. Alla fine, la mamma baciò Ambrogio su una guancia e papà tirò fuori la bottiglia di vino che teneva nascosta nella stalla. Brindarono. Non so a che cosa, ma lo posso immaginare. Fui affidato alle cure di Ambrogio già l'indomani. Per gli adulti la guerra era finita, ma per me, piccolo somaro, stava per iniziarne un'altra.
Ambrogio mi aspettava ogni giorno alle quattro del pomeriggio. Io avevo sette anni ed ero un cinghialetto ribelle. Me ne sbattevo di leggere, di scrivere, del più, del meno, della storia e di quella lavagna color merda di capra. Quindi me la davo a gambe ogni volta che potevo, ma Ambrogio… Caspita! Era un vero cagnaccio. Potevo correre fin sul lago, accovacciarmi nell'erba alta della campagna o nascondermi tra le fascine nel capanno di mio zio. Giungeva sempre ad acciuffarmi per un orecchio. Si spostava su un calessino in legno d'abete, veloce come il vento e puntuale come il raffreddore. Le lezioni le teneva in casa sua. La stessa vecchia, grande casa che oggi è la scuola dei nostri figli. Si può dire che Ambrogio mi ficcò in testa l'ABC a viva forza, riempendomi di concetti e pizzicotti. Intanto prendeva al laccio altri marmocchi. Giovannino, il figlio del fornaio, mio cugino Melchiorre, Silvestro il pidocchioso. Le lezioni di Ambrogio non duravano meno di quattro ore. Poi ci conduceva nel giardinetto attiguo per farci fare un po' di moto. Per un'altra ora d'inferno ci imponeva una serie di esercizi, flessioni e roba del genere. Sul finire della mattina, ci dava una palla mezza sgonfia e si allontanava un tantino per lasciarci giocare…»

Il maestro è ricordato altrettanto bene dal notaio Antonio B, autore del suo elogio funebre. Il notaio è al centro di un episodio pittoresco. In paese si racconta che Ambrogio, per prima cosa, gli insegnò a riconoscere le stelle. Nel sentirlo ricordare, Antonio ride di gusto. Poi commenta:
«L'astronomia? Che sciocchezza! Ancora gira quella vecchia storia? Beh, il paese è pieno di contafrottole. Ne sentirete raccontare tante, ma fui io il primo fanciullo che imparò a scrivere per merito di Ambrogio. Il maestro Grattenna aveva creato un personalissimo abbecedario. Non si fidava a sufficienza dei testi didattici reperibili in città. Né col senno di oggi potrei dire che si sbagliava. Soleva dare inizio ai propri corsi esortando innanzi tutto l'allievo a disegnare. Ma in verità, pochissimo era lasciato alla fantasia dei bambini. Ogni animale che ci ordinava di ritrarre doveva riprodurre un modello ben preciso che egli stesso disegnava su una lavagnetta. L'orso aveva una grande testa tonda come la O con la quale iniziava il suo nome. La mosca due larghe ali che ricordavano una M, e via su questa traccia con grande inventiva. In questo modo, lettere dell'alfabeto e immagini rimanevano facilmente impresse nella mente dello scolaro e la memoria non faticava ad associare le une alle altre. Diverse contorsioni di una serpe messe in successione davano origine alle lettere della parola S-C-U-O-L-A. Fu la prima parola che imparai a scrivere mediante il sistema dell'alfabeto figurativo ideato da Ambrogio. Quell'uomo aveva l'insegnamento nel sangue.
Conobbi Ambrogio a capodanno. Il nostro incontro fu indimenticabile. Rammento che nel varcare la soglia del suo studio, tremante al fianco di mio padre, non riuscii subito a distinguerne le fattezze. Sedeva a braccia conserte su una modesta poltrona, dando le spalle a un'ampia finestra con le tendine scostate. Sul momento, la luce che inondava la stanza mi abbacinò e pertanto di Ambrogio potei vedere solo la sagoma imponente. Da quell'ombra, ancora senza volto, proveniva la voce che ci invitava a entrare. Restai sorpreso nell'accorgermi che sul suo scrittoio non si trovava neppure un libro o un qualsiasi manuale di grammatica. Solo qualche foglio scarabocchiato, una tabacchiera e una grossa ampolla di scolorina che, per quanto ne so, non fu mai usata. Ambrogio scambiò un rapido saluto con mio padre. Quindi mi fece cenno di avvicinarmi. Nel sentire per la prima volta la sua voce ebbi la sensazione di stare ascoltando il rimbombo di un gigantesco gong. Un vocione che a ritmo quasi regolare si strozzava in una serie di piccoli colpi di tosse secca, tipica di un fumatore incallito. Anche in quel momento, Ambrogio teneva la pipa tra i denti, ma non l'accese mai in presenza dei suoi allievi. Mi strinse la mano in modo energico. Poi mi chiese di scandire per esteso il mio nome e cognome. Rimasi muto per la soggezione. Quando capì che non gli avrei risposto mi pizzicò la guancia talmente forte che vidi le stelle in pieno giorno. Quella sera raccontai l'avventura ad altri bimbi e così ebbe inizio la leggenda sulla lezione di astronomia. Ambrogio riteneva fondamentale che i suoi allievi imparassero a pronunziare correttamente ogni sillaba. Gli accenti tonici segnati in rosso sui quaderni dal suo implacabile pennino non si potevano contare. Fu sempre intransigente a questo proposito. Presto, inserì nella sua didattica anche qualche parola in inglese. Ambrogio affermava che le distanze si stavano accorciando e che un'infarinatura di quella lingua ci sarebbe servita tantissimo. Si era appena usciti dall'ostracismo fascista dei vocaboli stranieri, così per qualche tempo certi vegliardi in paese brontolarono dicendo che Ambrogio ci insegnava le parolacce. Inutile dire che si sbagliavano di grosso.
Ambrogio era un giovane possente, con il naso ingombrante e schiacciato come quello di un pugile. Già allora sfoggiava le sue leggendarie basette rosse. Non poteva dirsi una bellezza, e non è neppure vero che fosse tanto dolce con i suoi alunni. Era assai rigido, invece. Sprizzava da ogni poro l'entusiasmo di insegnare e accarezzava il progetto di trasformare la propria casa in una vera scuola per il nostro piccolo paese. In quel tempo a Villaggio dei Giusti non esisteva niente del genere. I pochi ragazzi che avevano la fortuna di studiare, affrontavano ogni mattina un viaggio in treno fino alla più vicina scuola elementare, alla periferia di Bambera. A sera, tornavano esausti e raramente proseguivano gli studi. Considerando la diffusa indolenza, penso che il nostro paese non avrebbe mai avuto una scuola tutta sua senza l'impegno di quell'omone rude e manesco. Correva il 1946 e Ambrogio aveva trentaquattro anni. Il padre gli aveva lasciato in eredità una dimora spaziosa, a due piani, con un cortile adiacente. Era l'abitazione più grande del paese, un po' trascurata, ma sontuosa a confronto delle nostre catapecchie. La casa era miracolosamente scampata alle incursioni delle fortezze volanti, segno che il progetto di Ambrogio era gradito al buon Dio. La scuola sarebbe stata riconosciuta e aperta a tutti un paio di calendari più tardi, lo stesso anno in cui Ambrogio si sposò. La casa era molto grande, quindi non gli fu difficile rinunziare a qualche stanza per adibirle ad aula, biblioteca e dormitorio. Ambrogio e la signora Clara vivevano al piano superiore, dove oggi si trova la direzione. All'inizio, i bambini delle prime classi trascorsero in casa loro dei mesi, quasi fosse stato un vero e proprio collegio. Ambrogio rispettava le norme disciplinari che imponeva ai ragazzi e a se stesso con spaventevole solerzia e non senza un pizzico di compiacimento. Di frequente, agli albori della giornata, ordinava ai ragazzi di seguirlo nel boschetto, e lì si intratteneva con loro affrontando più temi d'interesse. Dalla botanica generale alle modalità d'uso di specifiche erbe mediche, ottime per curare cefalee e costipazione. Una volta aperta la scuola, Ambrogio portò le lezioni da quattro ore a sei. La signora Clara, infaticabile massaia, cucinava per tutti. Il suo apporto venne meno solo brevemente, quando nacque la piccola Monica. Amici cari, credetemi… Ancora oggi, a pensarci, mi commuovo. Per noi paesani, quello scricciolo di bimba diventò il simbolo dell'ardore di Ambrogio e della rinascita che tutti auspicavamo. Il maestro poteva già contare molti figli ideali, ma questa era la prima a non essere nata mentre intorno scoppiavano le bombe.»

«Quando il babbo mi disse che avrei dovuto passare un intero mese nella casa di quell'uomo, piansi tutta la notte» riprende lo spazzino Ugo. «Ambrogio (venni a sapere dopo) aveva affrontato lunghe imprese legali perché il suo sogno scolastico si realizzasse. Sogno del quale noi piccoli paesani occupavamo una parte importante. Come ho già detto, pretendeva di tenere sotto controllo anche la nostra forma fisica. Di polvere, in quel dannato cortile, ne dovemmo digerire a quintali. I pasti cotti dalla moglie, poi, erano un vero supplizio. Ambrogio era rigorosamente vegetariano e la brava donna faceva del suo meglio per non contrariarlo. Nell'assecondare i gusti del marito, però, finiva spesso col perdere di vista le esigenze alimentari di noi ragazzi. Tanto che anche i nostri sogni erano popolati da legumi, freschi e secchi. La colazione consisteva in un misto di verdure crude e latte freddo. Pasto che Ambrogio ingoiava con vera delizia. A pranzo ci toccava insalata di carciofi e per cena barbe in brodo o cavolfiore bollito. Naturalmente nessuno di noi osava protestare per il vitto. Troppo era il timore che Ambrogio ci incuteva. Questo per non dire che se era irritato menava. E forte! Capitava, alle volte, che la signora Clara decidesse di proporci una bistecca, un cappone o del pesce, ma se non sbaglio questo si verificava soltanto la domenica, giornata che Ambrogio era solito trascorrere nei boschi alla ricerca di uccelli da spiare...»

Le testimonianze in merito non si esaurirebbero mai. Voluminosi libri potrebbero essere riempiti con le rimembranze degli anni in cui Ambrogio trasse alla vita intellettuale dozzine di giovinetti.
Frattanto il tempo passava. Lento, ma inesorabile.
Nel 1979, ormai vedovo e decisamente stanco, Ambrogio si sarebbe visto costretto all'inevitabile resa. Cedute le briglie dell'insegnamento a mani più giovani, abbandonò definitivamente la scuola per trasferirsi in casa della figlia Monica. Il maestro del villaggio adesso si sarebbe riposato. Tuttavia non fu così che la leggenda ebbe termine.

«Mi chiese di diventare sua moglie circa tre mesi dopo la morte della signora Clara» rivela Maddalena G, una simpatica vecchietta che conserva graziosi vezzi da fanciulla. «Capite? Stavo tornando da una commissione e lo vidi ritto davanti la porta di casa, tirato a lucido e impettito come un tacchino. Fino a quel pomeriggio c'eravamo parlati solo poche volte. Di solito, lo incontravo alla messa della Domenica o in casa di certi conoscenti. Non potevo dire di conoscerlo veramente. Quindi fu una grossa sorpresa, per me, la sua improvvisa proposta di matrimonio.
Non mi era mai piaciuto. Fisicamente, intendo. Ma confesserò che quel giorno mi parve ancora più brutto. Solitamente vestiva in maniera sciatta. Non prestava molta cura alla propria immagine. Per diversi anni l'avevo visto portare sempre la medesima giacca di tela, e sentivo dire che odiava i cappelli come un gatto odia l'acqua. Per questo quando lo vidi sotto casa ad aspettarmi, impalato in quel vestito color sabbia, capii immediatamente che qualcosa bolliva in pentola...»

La signora Sofia Z insiste per dire la sua. E' un donnone dalla capigliatura corvina, di una bellezza selvaggia, un po' arrogante. Vive del proprio lavoro di sarta in compagnia del figlioletto e del marito invalido. In paese si dice sia una persona scontrosa e taciturna, ma stavolta scalpita per parlare. Racconta senza nascondere un discreto sprezzo.
«Era successo già molte altre volte» afferma. «Solo una settimana prima, Ambrogio aveva chiesto a mia madre di andare a vivere con lui. Ve lo immaginate? Non voglio negarne i meriti, ma il vecchio Grattenna non era il santo che si racconta in giro. Al contrario, era un uomo molto egoista. Piuttosto ottuso, sia pure intraprendente e colto. Per di più era brutto da far schifo. Una testa di rospo sopra un corpo da scimmione. Non che la cosa lo frenasse. Oh, no. Infatti, si diede da fare pur durante il matrimonio con la remissiva e stupidissima Clara, sempre pronta a compiacerlo quando si degnava di rivolgerle una parola meno brusca del solito. Credo fosse a caccia di un'altra donna che si dimostrasse pronta ad accudirlo. Contava poco il suo nome, la sua età, purché questa gli facesse da serva. Il fatto è che per tutti quegli anni Ambrogio fu attivo solo in funzione della scuola. Non so se sia più corretto parlare di devozione o di mania. Qualunque operazione estranea all'insegnamento, contesto nel quale Ambrogio era avvezzo a muoversi come un re nel suo regno, lo lasciava disorientato. A occuparsi delle faccende domestiche, a procurare il cibo, a riordinare era stata sempre Clara. Ed egli non aveva mai mosso un dito per aiutarla.
Una volta ottenuta la pensione, era andato a vivere in casa della figlia. Però Monica era già sposata. Aveva appena messo al mondo due gemelli. Vivere presso quel focolare doveva pesargli un po'. Quindi prese a infastidire le donne nubili del paese con le sue sciocche profferte. Gli andò sempre male, ma dovette passare un anno prima che si rassegnasse a gravare sulla figlia.»

Maddalena continua:
«Fu molto garbato, e se il mio rifiuto lo addolorò non me lo fece pesare. Negli anni precedenti la pensione, aveva fatto costruire uno chalet fuori del paese dove di tanto in tanto trascorreva il fine settimana con la figlia e il genero. L'autostrada non c'era ancora, e vivere vicino al boschetto doveva piacergli tantissimo. Mi chiese di sposarlo e di trasferirmi con lui là, tra gli alberi. Fui costretta a rifiutare. Che cosa potevo fare...? Non era il mio tipo…»

Giunse il crepuscolo.
Ambrogio visse gli anni della pensione in compagnia della figlia e dei nipotini. Visse in salute, onorando di tanto in tanto la scuola con qualche visita e facendo frequenti e sempre più lunghe passeggiate nella vicina campagna. Era arrivato ai settantaquattro anni in ottima forma. Non era più tanto brutto. Gli anni avevano sparso un po' di miele su quei lineamenti un tempo così rozzi. S'era acchetato anche nel modo di conversare. Non tuonava più con suono grave da trombone. Ora sussurrava gentilmente come un flauto rurale, e se provocato manifestava la sua stizza a bassa voce, scandendo appena le usate imprecazioni. Smise di citare Ovidio e Petrarca, e con il deteriorarsi della sua vista anche di divorare libri. Trascorreva invece una quantità di tempo nei boschi. Sfuggiva la compagnia degli altri anziani e dormiva molto. Anche questo senza più russare, in perfetto silenzio.
Quindi smise di parlare del tutto.

«In principio non ci feci molto caso» ammette Monica, che non si fa mai pregare quando si tratta di ricordare il padre. «In casa era maturata la consuetudine che ogni mattina io entrassi nella camera per destarlo con un bicchiere di latte tiepido e allargare le persiane. Bussavo due volte. Dunque entravo e ci auguravamo la buona giornata. Lui sorbiva il latte e si alzava per recarsi in bagno. Era un vecchio rito.
Sarò più precisa: non è che mio padre parlasse puntualmente ogni volta che entravo nella stanza. C'erano state un'infinità di circostanze in cui mi lasciò capire d'essere desto con un breve grugnito assonnato. Ma fu proprio da quel giorno di luglio, e non prima, che rimase immerso nel più completo e impressionante silenzio. Da diverso tempo in casa eravamo rassegnati a non sentirlo parlare che di rado. Per questo quando ci sedemmo a tavola ed egli non spiccicò parola, né io né mio marito ci preoccupammo. Solo qualche giorno dopo cominciai a notare che in mio padre qualcosa non funzionava più. Era diventato muto come una tomba centenaria.
Ricordo che il suono più udibile proveniente dalla sua persona era il respiro. E anche quello era molto leggero. Non si lamentava più per i reumatismi, non sbuffava e neppure tossiva. Mesi prima il medico gli aveva tassativamente proibito di fumare. Io stessa avevo provveduto a nascondere la sua pipa, ma questa precauzione si rivelò inutile. Non la cercò mai, e il giovamento che ricavò dall'astinenza lo portò a sfoggiare un respiro limpido che rese il suo silenzio ancora più inquietante. Se interrogato non rispondeva che a cenni. Diniego o assenso, e nient'altro. Capitò un certo numero di volte che lasciasse sul tavolo del tinello un biglietto con su scritto dove stava andando o in cui mi chiedeva di cucinare per il pranzo questa o quella pietanza. In seguito perse anche questa abitudine e prevedere le sue mosse diventò impossibile.
Allora feci in modo che non uscisse più di casa senza il mio diretto controllo. Badiamo bene: si mostrava ancora abbastanza tranquillo perché non dovessi temere per la sua incolumità, ma a quell'innaturale silenzio aveva aggiunto una nuova, preoccupante, stramberia.
Fissava i muri del paese per delle ore. Da molto vicino, neppure volesse baciarli. Rubava una seggiola dal tinello, si sedeva in strada e rimaneva lì, la faccia al muro come un bimbo in castigo. Oggi era la parete macchiata all'ingresso del vicolo, domani il muretto bianco della pescheria. Passava così interi pomeriggi. Se provavo a spostarlo, si ribellava pestando i piedi. Ma anche questo nel più completo silenzio.
Lasciai il mio impiego alla merceria appositamente per stargli vicina il più possibile. Ma non era sempre facile. Troppe volte, affacciandomi sulla strada, vidi che la sua sedia era rimasta vuota.»

«Non mi liberai del vecchio fino all'ultimo» riprende Ugo, deciso a vuotare il sacco. «La signora Monica viveva con il marito, i bambini e il padre ad appena una ventina di metri da casa mia, e questo faceva di me la persona alla quale era più comodo rivolgersi nei momenti di allarme. Quasi tutti i loro vicini erano pendolari, impegnati in città. Alberto, il marito di Monica, aveva appena ottenuto un posto di usciere al municipio di Berzagallo e non tornava prima di sera. Io, invece, sbrigavo il mio lavoro nella mattinata ed ero sempre a portata di voce. Per di più ero l'unico negli immediati dintorni ad essere fornito di un mezzo di trasporto. Insomma: Ambrogio mi aveva proprio incastrato.
In paese eravamo già in molti a sapere dello strano silenzio in cui il vecchio si era chiuso. Solo più tardi, invece, si seppe delle sue abituali fughe. Monica correva a chiedermi aiuto almeno due volte la settimana, implorandomi di far presto e di non dire a un'anima dove stessi andando. Ambrogio scompariva, e il suo calesse con lui. Monica non voleva vendere i cavalli, e tenere il padre sottochiave le ripugnava. Frugavamo la campagna a bordo del mio furgoncino. La caccia al maestro fuggiasco, a volte, durava delle ore. Il vecchio non restava mai in paese. Montato sul calesse, spronava le bestie finché non si sentiva esausto. Ma il bastardo era ancora forte e poteva arrivare molto lontano. Al termine della prima ricerca lo trovammo nel bosco. Aveva abbracciato il tronco di un pioppo e piangeva in silenzio senza emettere il più piccolo singhiozzo. Doveva essere rimasto immobile in quella posizione per parecchio tempo perché la resina aveva letteralmente incollato la sua camicia alla corteccia. Monica lo sgridò per essere scappato in quel modo. Gli disse che per colpa sua non aveva fatto da mangiare per i bambini, che Alberto l'avrebbe certamente rimproverata, e tante altre menate. Ambrogio la guardava senza muovere un muscolo e piangeva. Gesù! Era come vedere lacrimare una statua.
La stessa storia si ripeté un fottìo di volte. Monica finì col fidarsi completamente di me. Allora mi toccava rovistare nei dintorni da solo alla ricerca del vecchio deficiente. Poi iniziarono i lavori per l'autostrada. Monica incatenò le ruote del calesse e legò alla cavezza dei cavalli un paio di grossi campanacci. Sarebbe stato davvero imbarazzante se il padre, in una delle sue silenziose febbri, fosse giunto a dare spettacolo di sé davanti agli operai.
Il vecchio citrullo non scappò più. Ma… porcocane se fece di peggio!»

Venne l'ora delle locuste.
Il pescivendolo Rocco M, se interrogato, ne parla volentieri. Lo incontriamo al bar della piazzetta, ciarliero e giocondo come lo descrivono gli amici.
«Quell'estate fu senza dubbio la più calda e fetente che il paese abbia sofferto negli ultimi decenni. L'aria bruciava come in un forno a legna. Tenere il pesce in fresco era un'impresa. Poche ore e già mandava una puzza sospetta. Ci spupazzammo un merdoso scirocco per settimane, roba che ti faceva sentire in Africa. Cazzo, persino le mosche cadevano svenute. In bottega, tenevo la borsa del ghiaccio tra la zucca e la paglietta. La notte dormivo nella vasca da bagno e mettevo la testa sotto il rubinetto ogni mezzora. Ma non c'era scampo. L'afa uccideva.
Personalmente, credo che il caldo bastardo di quell'anno abbia avuto un ruolo importante nella coglioneria del vecchio Ambrogio. Passava giornate intere seduto davanti casa a far nulla. Là, sotto il sole che picchiava, con la canizie che diventava gialla come il piscio. Solo a vederlo c'era da sentirsi male. Una volta pensai di offrirgli un copricapo, ma poi mi sfuggì di mente. Poveretto!
Ambrogio gridò che erano da poco passate le due. Non ero riuscito a prendere sonno quella notte. Il caldo rompeva da pazzi. Quando iniziarono gli strepiti ero immerso in una tinozza d'acqua fredda con la finestrella della stanza da bagno aperta. Così udii tutto forte e chiaro.
All'inizio sentii un lungo lamento. Sembrava il belare di un caprone con la diarrea. Poi arrivò l'urlo. Sul momento non seppi che cosa pensare. Non capii subito che a gridare era il vecchio Grattenna. Stava succedendo qualcosa di terribile e io avevo una strizza boia. Perché non si trattò di un urlo isolato, ma di un vero e proprio quarantotto. Ambrogio ululava come se lo stessero spellando vivo e tra le grida sputacchiava frasi senza senso e certe bestemmie che mammamia!
Saltai fuori dalla tinozza, infilai le mutande senza neppure asciugarmi e corsi fuori a piedi nudi. La luce in casa di Monica era accesa. Dalla strada riuscivo a vedere sulle pareti un putiferio di ombre che giravano impazzite come falene intorno a una lampada. Ci fu un rumore di vetri rotti e altre voci urlanti. Quindi presero a rischiararsi anche le case vicine. Ugo, lo spazzino, saltò fuori armato della sua scopa e mi chiese se alla fine qualcuno stava ammazzando il vecchio. Ambrogio non accennava a chetarsi. Ogni tanto il suo strepito era soffocato, come se stessero tentando di chiudergli la bocca a viva forza. Ma subito riprendeva con maggiore lena. I versacci sonavano all'incirca così: Uuuuuusss... ssssttttttteeeeee! Ghblblbl... blhhhhhh... engonoooooo! Y-alalalalalalalalah... sssssssteeeeeee!!! E giù con una valanga di parolacce.
Anche donna Sofia si unì a noi di corsa, in camicia da notte e con un lume in mano. Bussammo, ma senza ottenere risposta. Quando giunse Argisto, il fabbro, buttammo giù l'uscio ed entrammo. Tutte le luci della casa erano accese. I gemelli sedevano sul pavimento abbracciati e frignanti, mezzi morti di paura. Monica e suo marito, invece, stavano lottando con un toro infuriato. Ambrogio si dimenava sul letto e gridava, ormai rauco, che a Villaggio dei Giusti stavano per arrivare le locuste, che avrebbero divorato tutto, che tutto quello che conoscevamo sarebbe stato ridotto in segatura. La mano di Alberto sanguinava. Era stato morsicato.
Infine il vecchio perse i sensi.»

«Mi accorsi solo l'indomani che si era troncato con i denti la punta della lingua» racconta Monica. «Doveva essere successo all'inizio delle convulsioni. Aveva mandato giù il sangue e anche il pezzettino mancante. Infatti, non riuscii a trovarlo tra le lenzuola.
Il medico ci chiese se mio padre avesse abusato di farmaci antidepressivi o se fosse sua abitudine bere smodatamente. Ma era semplicemente assurdo. Mio padre non aveva mai fatto uso di farmaci del genere ed era sempre stato astemio. Non poteva certo aver preso a bere di nascosto negli anni della vecchiaia, quando lo vigilavo con la massima attenzione.
Gli fu prescritto un sedativo che gli somministravo giornalmente. Non credo, però, che riuscisse a sentirne i benefici. Capitò ancora che si mettesse a urlare nel cuore della notte, e rimase fino alla fine inquieto e imprevedibile. Dalla notte del 16 agosto sentivamo di nuovo la sua voce, ma questo non si poteva definire un miglioramento. Adesso non faceva che parlare degli enormi sciami di locuste che secondo i suoi misteriosi intuiti erano in viaggio per abbattersi su di noi. Previsione, ovviamente, del tutto infondata. Mai dalle nostre parti si è vista una sola di quelle bestie, e comunque c'è ben poco nella zona per attirarle in gran numero.
Papà ricominciò a scappare di casa. Stavolta per aggirarsi in seno allo stesso villaggio. Camminava spettinato e sporco per la piazzetta, bussava a tutti gli usci, fermava la gente per la via e a tutti ordinava di guardarsi: perché le locuste sarebbero giunte molto presto. Non fu mai pericoloso, sebbene l'aspetto che aveva assunto incutesse un certo timore.
Quando si arrampicò sul campanile e per poco non saltò giù, pensai fosse meglio per tutti che ci trasferissimo nello chalet. Ormai in paese non si parlava che della sua malattia, e per me e mio marito la situazione si faceva di giorno in giorno più penosa. In campagna sembrò calmarsi un pochino. Stette in silenzio per due giorni. Poi ripresero le escandescenze.
Nel frattempo i lavori per l'autostrada erano giunti a buon punto. Avevo saputo da una fonte attendibile che nel giro di qualche mese sarebbe stato aperto uno svincolo proprio davanti alla nostra abitazione. La malattia di papà mi aveva costretta a lasciare il lavoro e a trascurare troppo a lungo gli interessi della mia famiglia. L'autostrada, dunque, rappresentò per me una specie d'insperata ancora. Fu allora che decisi di dar fondo ai miei risparmi per trasformare lo chalet in un autogrill…»

Ascoltiamo nuovamente la voce di Rocco, il pescivendolo, che non sta più nella pelle per raccontare gli sviluppi successivi.
«Ambrogio quella volta sembrò davvero essere sparito nel nulla. I lavori allo chalet avevano avuto inizio qualche giorno prima e Monica non aveva potuto fare a meno di ricondurre il padre in paese. Il vecchio uscì di casa verso le undici approfittando di una distrazione della figlia impegnata con i bambini e non fece più ritorno. Lo cercammo per ore senza trovare la più piccola traccia. Era una cosa abbastanza insolita, dato che nell'ultimo periodo Ambrogio aveva fatto ogni sorta di schiamazzo per attirare su di sé l'attenzione dei paesani e annunciare l'arrivo degli animalacci. Il tempo passava. S'erano fatte le tre del pomeriggio e di lui non si vedeva un pelo. Monica si spaventò molto. Il calesse non era stato toccato, nessuno sembrava aver visto suo padre neppure di sfuggita.
Sì, la faccenda era proprio preoccupante.
Allora sonarono le campane. Erano assolutamente fuori orario e facevano un casino della miseria. Padre Albino corse in maniche di camicia, trafelato e bianco come un cencio mentre i cani nella piazzetta giravano latrando tutt'intorno alla chiesa. Sembrava l'apocalisse. Non mi sarei sorpreso se in quel frangente le locuste fossero arrivate per davvero.
Don Albino non fece in tempo ad aprire il portone che già Ambrogio si affacciava dal campanile. Nudo, urlante e incazzatissimo. Resterà sempre un mistero come, alla sua età, fosse riuscito ad arrampicarsi su per quella scaletta ripida che faceva girare la testa al sagrestano. Fu comunque spiegato l'enigma della sua ultima sparizione. Allontanatosi da casa, doveva essersi recato in chiesa per assistere alla funzione di mezzogiorno e con molta probabilità s'era assopito tra i banchi. Padre Albino non s'era accorto di lui e al momento di chiudere l'aveva fatto prigioniero. Da giù lo vedemmo sventolare quel che restava della sua camicia e spenzolarsi nel vuoto con una temerarietà che faceva tremare i polsi. Farneticava come di consueto. Non potevamo sentirlo, ma senza ombra di dubbio stava ancora avvisando tutti dell'imminente arrivo delle locuste.
Quando quattro giovani lo riportarono giù, discutemmo a lungo sul da farsi. La bravata del vecchio, stavolta, aveva incasinato l'intero villaggio. Non che fossimo una massa di stronzi ingrati. Ambrogio era sempre nei nostri cuori, ma la sua malattia faceva al paese l'effetto di un tafano sul dorso di un mulo. La notte, i bambini si spaventavano alle sue urla e i pendolari reclamavano le giuste ore di sonno. Monica decise di portarlo via dal villaggio per qualche tempo. Affittò un appartamento in città dove sperava di riuscire a tenere Ambrogio lontano da tutte le sue ossessioni. Ma durò poco. I lavori per l'autogrill procedevano veloci, e Monica fu costretta a tornare per occuparsi di varie faccende. Naturalmente, con lei rientrò anche Ambrogio, e il casino ricominciò...»

Un attimo di silenzio, prego. Rocco sa che quanto sta per raccontare adesso non sarà affatto allegro. Si raccoglie e continua a narrare con voce commossa.
«Ambrogio morì il primo di novembre. Se ne andò con grande strepito, figliando mille chiacchiere come aveva sempre fatto. I suoi ultimi giorni li passò urlando ai quattro venti la sua profezia, battendo con un legno su una pentolaccia arrugginita. A sentire lui, le locuste erano ormai vicinissime e questo lo rendeva più inquieto del solito. Aveva frequenti crisi di pianto e chiedeva di essere accompagnato nella casetta al limite del bosco, il suo antico rifugio. Povero vecchio! Nessuno aveva il coraggio di dirgli che lo chalet era stato smantellato. Il grill di sua figlia era quasi finito, ma Ambrogio non lo vide mai. Dubito, comunque, che l'avrebbe apprezzato.
Monica in quei giorni era particolarmente impegnata. Adesso era lei che si dileguava sul calessino del padre. Spesso si recava a ispezionare di persona il cantiere e diventava sempre più difficile incontrarla in paese. Ambrogio restava chiuso in casa, accudito frettolosamente dal genero che, dati i suoi impegni lavorativi, non poteva dedicargli che poche ore. Tuttavia, Ambrogio non restò mai solo. Dietro preghiera di Monica, alcune donne andavano e venivano dalla casa durante la sua assenza. Per lo più antiche allieve del vecchio che avevano accettato di prendersene cura. A turno si occupavano dei suoi bisogni e tutti i giorni gli apparecchiavano la tavola. Allora filavo con una di quelle gonnelle, così ebbi modo di vedere da vicino con quanto zelo fosse adoperata la cucina. Era un viavai di massaie esperte riunitesi in un gruppo affiatato. Lavoravano in squadra, chi pelando patate e pomodori, chi mettendo l'acqua sul fuoco. Grazie a quelle sante, il vecchio poteva contare su un lauto pasto a pranzo e a cena, ma anche su un amorevole aiuto a espletare quelle funzioni corporali che non riusciva più a gestire per proprio conto. Faceva bene al cuore vedere che, a dispetto dei recenti guai, Ambrogio godeva ancora di un affetto sufficiente a far di lui un grosso bebè viziato dalla comunità. Lo vidi aumentare di peso mangiando manicaretti d'ogni specie, vezzeggiato e confortato al punto che quasi lo invidiavo. Lo stesso non potrei dire per le sue caritatevoli infermiere, disposte ad accudirlo incuranti delle continue urla, dei piatti rotti, delle mani sul culo e del diluvio di bestialità che zampillavano dal vecchio come da una generosa fontana. Mi capitò di udire qualcuna borbottare che se il grill non fosse stato ultimato presto, avrebbe finito con l'ammattire pure lei. Ma niente più di tanto. Ambrogio era trattato con esemplare dolcezza da quelle pie donne, neppure fosse stato loro padre.
Il giorno in cui venne a mancare, Monica non era in casa.
Lo trovarono che si torceva sul pavimento imprecando e schiumando come un serpente a sonagli. Aveva fatto a brandelli il tappeto della sua camera, fracassato una sedia e mandato in frantumi il vetro della finestra. Si rotolava premendosi lo stomaco e ringhiava come non aveva mai fatto prima. Doveva accusare dei dolori molto forti, ma chi lo soccorse, purtroppo, non distinse questi sintomi dalle solite crisi. Ambrogio moriva, avvelenato da funghi colti con poca attenzione e a lui serviti nel suo ultimo pranzo. Il medico arrivò che già l'infermo si spegneva e non poté fare altro che constatarne la morte.
Prima di evaporare per sempre, Ambrogio lanciò un'occhiata circolare che gelò i presenti. Si sarebbe detto che stesse cercando intorno a sé qualcosa che gli premeva molto. Rimanemmo pietrificati. Tutti avevamo notato che sul suo viso era tornata l'espressione severa del maestro. Ambrogio s'inumidì le labbra e disse:
- …siamo fottuti! -
Roteò gli occhi e… Adieu

Così Ambrogio se ne andò.
La vestizione della salma fu eseguita lo stesso giorno della morte dalla figlia e dalle donne che per ultime avevano assistito il vecchio maestro. Ci si accorse che sotto le unghie dei piedi l'estinto conservava alcuni residui di terra scura e muschio come se di recente avesse corso scalzo per la campagna. Solo che i suoi ultimi giorni li aveva trascorsi chiuso tra le quattro mura di casa, sotto lo sguardo vigile di un'intera squadra di matrone. Nessuno riuscì mai a spiegare il fatto. L'omelia di padre Albino lo ricordò soprattutto come insegnante, l'uomo che aveva donato una scuola al villaggio. I fiori piovvero numerosi sulla bara. Ambrogio: maestro, vecchio saggio e profeta di sventura, si dileguava lasciando una larga impronta sulla storia del paese. L'inchiesta sul decesso durò poco. I rimanenti funghi, una volta esaminati, furono definiti assolutamente innocui. Si giunse presto alla conclusione che l'unico esemplare velenoso fosse finito tra gli altri per pura fatalità. Un mese dopo, la scuola di Villaggio dei Giusti fu battezzata Scuola Ambrogio Grattenna.

L'autostrada fu terminata quell'inverno. Monica aprì il grill e dimostrò di essere una grande lavoratrice. In capo a un anno, l'attività si rivelò molto redditizia. Alberto si licenziò dal suo impiego a Berzagallo e iniziò a lavorare al fianco della moglie. Adesso l'asfalto era percorso da auto e camion, pullman e veicoli d'ogni genere. Chi viveva ai margini del paese sarebbe stato tormentato dai motori rombanti nelle ore notturne, dal discontinuo e allucinante lampeggiare dei fari, dall'insistente squillare dei clacson. Spessissimo furono rinvenuti i cadaveri martoriati di ricci imprudenti che avevano osato avventurarsi sul cemento. Molto presto vi fu un tremendo incidente proprio nei pressi dello svincolo. Due auto e un camion si schiantarono tra loro. Si udirono sirene e grida. Vennero le ambulanze, la polizia, un caos di luci, di strepiti, di fischi. Sull'asfalto c'era un lago sangue.
I primi di giugno ci fu un incendio nella campagna che bruciò un casolare e distrusse una larga fetta di bosco. Bruciarono i pioppi e un bel po' d'erba non sarebbe più ricresciuta. Una perizia stabilì che il fuoco aveva avuto origine dal mozzicone ancora acceso di un sigaro gettato dal finestrino di un'auto in corsa. Di lì a poco iniziarono i lavori per un residence di lusso. Monica, dal canto suo, distribuiva da bere e da mangiare ai viandanti, riforniva di carburante le auto di passaggio e faceva sonare la cassa. Faticava, sudava, guadagnava, dimagriva.
La sera del 12 luglio, Monica e suo marito vennero minacciati e malmenati da un pugno di uomini sconosciuti che li derubarono dell'incasso di un mese. Qualche tempo dopo, una rissa esplosa per un nonnulla produsse gravi danni all'interno dell'autogrill. Ci furono dei feriti. Un avventore si fece molto male, tanto da perdere un occhio.

Ambrogio, fai buon viaggio.

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