martedì 23 dicembre 2008

Il Cavaliere Grasso - Racconto


IL CAVALIERE GRASSO
Racconto di Filippo Messina


Per interminabili, angoscianti momenti aveva temuto che sarebbe caduto sempre più giù, fino a perdere ogni speranza di risalire. Invece si era fermato. Per la prima volta nella vita benedì la sua obesità. La pancia prominente e i cuscinetti di grasso sui fianchi lo avevano bloccato in una strozzatura del pozzo. Non doveva contare troppo sulla fortuna. Nella caverna tutto era umido e scivoloso. I suoi abiti erano impregnati di argilla fluida, ancora un poco e sarebbe precipitato nelle viscere della terra. Si aggrappò alle pareti scalciando nel vuoto. Un fetore insopportabile saliva dalle profondità tenebrose. Doveva essere l'inferno. Pesantemente, tirò fuori le gambe e prese a strisciare nella melma allontanandosi dall'orrendo buco. Granelli di luce gelida lo spiavano dall'alto della caverna. Fosforo, probabilmente. Molto più avanti indovinava la frastagliata apertura nella roccia e la notte senza stelle che era stata teatro della sua fuga ignominiosa. Neanche la promessa del più grande regno della terra l'avrebbe persuaso a mettere il naso fuori. E se la bestia avesse allungato il collo? Se fosse stato più magro di quanto gli era stato detto, avrebbe potuto sprofondare le fauci fin dentro la caverna e divorarlo.
Si toccò il capo. L'elmo col pennacchio verde era ancora al suo posto. Anche la spada non era sfuggita dal fodero. In compenso aveva perduto la lancia. L'unica arma che avrebbe potuto dargli una briciola di speranza. Quel fottuto cavallo pezzato lo aveva disarcionato non appena fiutato il pericolo, ed era fuggito al galoppo portandosi dietro picca e scudo appesi alla sella. Maledetta scalogna!
Aveva scelto quella notte perché era plenilunio. Pensava di orientarsi a sufficienza per prendere il mostro di sorpresa. Mentre cavalcava verso il fiume, quel pomeriggio, aveva scorto le nuvolaglie giungere da oriente. Niente luna, quindi. Mentre guadava il fiume era già buio pesto. Perché diavolo non era tornato indietro? Mille volte sciocco!
Strisciò sul terreno vischioso stringendosi a una parete. Poteva sentire vicinissimo il puzzo della bestia che lo cercava. Udì di nuovo il suo verso sardonico esplodere tra gli alberi e congiunse le mani grassocce raccomandandosi alla Santa Vergine. Ripensò con affetto alla Compagnia. Al vanesio Bartolo, che ogni giorno lucidava il suo scudo con il grasso. A Claudio, lo spadaccino smilzo, e persino al muso sfregiato di Diego. Nei giorni trascorsi li aveva sdegnati. Ora ne sentiva terribilmente la mancanza. Mai, prima di allora, s’era reso conto di quanto coraggio gli infondesse la vicinanza degli altri mercenari. Certamente a quell’ora si trovavano in una locanda accogliente, a ridere e a ubriacarsi con una puttana sulle ginocchia. Si era unito alla Compagnia dei Rampini per noia, e per lo stesso motivo se n’era separato. Due anni di avventure al servizio di un signorotto capriccioso. Botte, sangue e borse sonanti per riempire la pancia. Aveva combattuto, sì. Lui, la palla di lardo più tosta del mondo. Capace di schiantare le teste a mani nude. Lavorare in squadra presentava i suoi vantaggi. Sembrava tutto molto facile, finché si trattava di menare degli uomini…
Del drago aveva sentito parlare non appena messo piede in paese con i compagni. I pastori li avevano accolti con un'ospitalità squisita, e subito avevano lamentato la presenza del mostro che infestava il fiume. Pare che il drago vivesse laggiù da decenni. I suoi escrementi infettavano le acque, avventurarsi fin sulla riva era da folli. Da tempo immemorabile, ogni pastore era costretto a condurre il proprio gregge a valle per farlo pascolare presso un ruscello sicuro. Tuttavia lo sforzo e la povertà dei pascoli provocavano ogni anno la morte di numerose pecore e insieme la rovina di molti allevatori. La Compagnia aveva rifiutato di occuparsene nonostante i doni e le promesse.
«Ammazzare un drago,» aveva detto Bartolo «non è un’impresa da uomini. Forse un mago esperto saprebbe avvelenarlo. Un gigante farebbe cadere il mostro in una trappola adeguata alla sua mole. Se la bestia non appartiene alla specie alata, un esercito potrebbe provare ad accerchiarla, ma l’esito della battaglia sarebbe comunque incerto. Niente da fare, non ci interessa.»
La sosta nel villaggio era stata per lui un gradevole diversivo. Accolto nel letto da una villanella bene in carne, s'era lasciato coccolare, pasciuto con biscotti e frutta fresca, per tutti i giorni in cui la Compagnia aveva sostato nel paese. Quindi, gonfio e soddisfatto, aveva definitivamente salutato gli amici in partenza. Le cosce calde di Marina e la buona tavola l'avevano innamorato della tranquilla vita di campagna. Dopo tante scorribande, era tentato di piantare la spada in mezzo a un campo e vivere beato dei prodotti della terra. Non gli importava niente del drago, delle tribolazioni dei pastori. Almeno fino a una notte non lontana, quando Marina, dopo averlo rallegrato tra le lenzuola, gli aveva parlato accarezzandogli dolcemente il petto.
«E' un bestione molto vecchio. Già centenario mentre io venivo al mondo. Il suo alito di fuoco si è ormai spento, giacché sono anni che non incendia i nostri boschi. E’ diventato completamente cieco e a renderlo tuttora pericoloso è il fiuto. E' grande, grasso e pigro. Come te, amore mio. Attende immobile che qualche incauto animale gli giunga a tiro per poterlo divorare. Basterebbe un solo uomo abbastanza ardito da avvicinare la bestia nel sonno e colpirla a morte. I nostri giovani avrebbero potuto ucciderlo da anni, non fosse stato per la loro sconfinata codardia. Tu, mio tesoro, potresti farlo con facilità. Scivoleresti di fianco al mostro, sottovento perché non senta il tuo odore, e affonderesti la picca in uno di quegli occhi velati dall’età. Immagina la gratitudine del borgo. La casa più confortevole sarebbe tua. Saresti servito fino alla fine dei tuoi giorni, senza mai dover lavorare. Una volta che il fiume sarà purificato, avrai ai tuoi piedi un paese ricco. Vivrai alla maniera di un re, libero da responsabilità. Dopo un’impresa facile, che richiede soltanto una manciata di coraggio.»

Così aveva accettato. I villici avevano esultato per la sua scelta. C’erano stati dei festeggiamenti in suo onore. Dunque lo avevano fornito di un robusto cavallo e di una lunga lancia. Un pugno di uomini lo aveva accompagnato per un tratto, ma presto era stato lasciato solo con la sua avventura. La riva del fiume gli era sembrata serena. L’acqua ingiallita dalle feci indicava però che il grande rettile era nelle vicinanze. Al primo boato, il destriero lo aveva sbalzato di sella. Era caduto sul grosso deretano, confuso dallo strepito furioso che all’improvviso gli tuonava nelle orecchie. Il mostro era vigile. Incombeva invisibile su di lui, ridendo della sua stolta iniziativa. L’usuale baldanza lo aveva abbandonato d’un tratto. Dopo la fuga del cavallo, gli erano stati compagni soltanto il buio e la paura. Un terrore folle che lo aveva spinto a rifugiarsi in quella spelonca puzzolente. Tremante e inerme palla di grasso.
Se fosse uscito vivo dalla caverna, la vergogna non gli avrebbe permesso di tornare al villaggio. Lo credessero morto. Piangesse per lui Marina, troia bugiarda. A giudicare dall’eco dei rutti, il dragone era vispo e famelico. Probabilmente ci vedeva benissimo e cacava fuoco peggio di un vulcano. Pensare alla lancia perduta gli strappò un singhiozzo. Era uscito dal borgo gonfiando il petto, acclamato da vecchi e bambini. I paesani gli avevano leccato il culo per giorni, i monaci lo avevano benedetto. Molte giovani donne avevano voluto baciarlo sulla bocca prima che partisse. Come poteva quella gente credere che l’avrebbe spuntata contro il drago? Come aveva potuto pensarlo lui, quando solo udendone il ruggito s’era pisciato addosso?
Urlò nel sentire qualcosa che gli colpiva la schiena. D'istinto sguainò la spada saettando fendenti nell'oscurità. Qualche pipistrello cadde sventrato ai suoi piedi. Lo stormo infastidito dalla sua presenza gli svolazzò brevemente intorno. Infine volarono fuori accolti dal sardonico verso del mostro. Gesù! Si stava avvicinando. Si buttò in ginocchio e pregò che se ne andasse. Che un animale selvatico abbastanza grasso da distrarlo solleticasse il suo fiuto allontanandolo da lui.


«Eh?»
Il chiarore improvviso di una lanterna lo ferì agli occhi. Distinse a malapena la magra figura che era entrata danzando nella caverna. Si ritrasse e cadde a sedere. Il nuovo venuto sguazzò nel fango cantando a squarciagola. Dunque scivolò a faccia in giù fino a cozzare con la testa calva contro la pancia sporgente del cavaliere. La lanterna non s'era spenta.
«Che bizzarro personaggio sei!» squillò un volto rugoso da vecchio matto. «Dio mi fulmini se ho mai visto un copricapo più buffo. Donde sbuchi, compare? Queste grotte sono mie!»
«Tue? Da quanto, vecchio?»
«Non so... Da tanto!» rispose il matto facendo dondolare la lanterna. Appeso a questa, tintinnava un campanaccio da vacca.
«Hai visto il drago?» lo interrogò il cavaliere. «Si aggira nei dintorni. Come hai fatto a sfuggirgli?»
Il vecchio proruppe in una risata chioccia.
«Il drago dorme della grossa, amico. Lo fa sempre a quest'ora. E' cieco e sordo. Un mollaccione! Perciò io danzo tra le rocce... E canto!»
Il cavaliere sudò freddo. Il vecchio era proprio pazzo.
«Non senti il suo verso? Urla come un dannato!»
Ancora una volta risonò il terribile lamento. Il vecchio non perse la sua aria gaia.
«Sono i nottoloni,» spiegò con una risatina. «Strepitano per tutta la notte sulle cime. L'eco acchiappa i loro strilli e li porta fin qui con la forza di un tuono. Il drago è silenzioso come un serpente. Da anni non fa una scoreggia. Solo io canto!» Fece tintinnare il campanaccio.
Diceva la verità? Possibile. Tuttavia quell’uomo era un demente. Un vecchio eremita abituato a convivere con l'eterno pericolo del mostro. Doveva fidarsi? Come l'arcobaleno dopo la pioggia gli balenò un'idea.
Il vecchio era pelle e ossa, ma faceva un fracasso del diavolo. Se il drago fosse stato davvero nelle immediate vicinanze, ne avrebbe fatto un boccone. Se invece il matto diceva il vero, ed erano i nottoloni a strepitare, lo avrebbe visto saltellare indisturbato davanti alla caverna. Allora sarebbe uscito anche lui.
Si sforzò di abbozzare un sorriso alla luce della lanterna.
«Dì, vecchio,» chiese. «Conosci la Ballata della Falena Sbronza?»
Il vegliardo si fece raggiante. Restituì il sorriso con la bocca sdentata. Prese subito a sguazzare nel pantano intonando la canzone a pieni polmoni. Il cavaliere lo resse per impedirgli di scivolare ancora e con le mani paffute lo spinse decisamente verso l'esterno. Una volta all'aperto, il vecchio matto si lasciò andare a una danza sfrenata. Il cavaliere lo vide cadere un paio di volte e subito tornare ritto con la scioltezza di una marionetta.

Il frastuono provocato dal vecchio canterino e dal suo campanaccio si mischiava al rauco verso che echeggiava su di lui. Poteva vederlo volteggiare fuori della grotta. La luce della sua lanterna danzava come la falena della canzone. Tiepida e rassicurante.
Fu allora che la terra prese a tremare facendo cadere su un fianco il grasso cavaliere. Che cosa significava? Poteva sentire lo sciacquio del pantano, il lento ma deciso sollevarsi del terreno viscoso. Ruzzolò spinto dalle violente scosse mentre fuori della caverna il vecchio continuava a danzare senza nessun timore. Affondò disperatamente le dita nella terra per non scivolare nuovamente nel pozzo. Un putrido brontolio emerso dalle profondità beffò i suoi sforzi. Tutto vibrava, ogni angolo del suo umido e tenebroso rifugio lo spingeva in direzione del vuoto. Si domandò perché non riuscisse più a vedere il vecchio pur sentendone la voce stridula. Scorgeva invece le nuvole ormai rade e la luna brillare tonda sopra la boscaglia. Vide gli spunzoni di roccia che incorniciavano l'ingresso della spelonca scendere inesorabili fino a nascondere del tutto l'astro notturno. Il cavaliere s’accorse di non potere più stare dritto. Lo spazio tra la volta e il terreno s’era fatto di colpo angusto. In che buca d’inferno s’era andato a cacciare? Tutta la sostanza di quell’antro fetido agiva come fosse stata vivente e risoluta a imprigionarlo.
Quando un ulteriore fiotto di liquido denso lo travolse, capì che non sarebbe mai uscito dalla caverna. Il terrore e l’oscurità lo avevano reso artefice della propria sventura, inducendolo a consegnarsi quale pasto saporito. La voragine nera della gola lo accolse vivo e urlante mentre un torrente di saliva pestilenziale lo trascinava giù, verso l’osceno abisso dello stomaco.
Il drago s'era infine svegliato. Aveva chiuso le fauci, e adesso lo stava inghiottendo.

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