domenica 20 febbraio 2022

The Amusement Park: il film perduto di George Romero


“The Amusement Park” è un film considerato a lungo perduto, diretto da George Romero nel 1975, tra “The Night of the Living Dead” e “Dawn of the Dead” del 1978. In mezzo, Romero aveva realizzato “Season of the Witch” e “The Crazies”, entrambi film che avevano avuto un incasso molto prossimo allo zero, lasciando il regista in condizioni economiche difficili.

Fu così che una società luterana lo contattò per commissionargli un mediometraggio, una sorta di lungo spot di quelli che oggi potremmo definire “pubblicità progresso” sulla condizione degli anziani, che potesse sensibilizzare il pubblico su un argomento tanto delicato e possibilmente incoraggiare i giovani a prestare volontariato presso adeguate strutture. Romero si rimboccò le maniche e girò “The Amusement Park”. Mezzi poverissimi, attori per lo più non professionisti, molti dei quali veri anziani presi da case di riposo, e tutto il suo ingegno cinematografico.

Pare che i committenti, dopo avere visionato il lavoro di Romero, abbiano deciso di abbandonare il progetto, giudicandolo troppo sconvolgente, e destinando – di fatto – il film al dimenticatoio. Nessuna distribuzione e totale silenzio per decenni, al punto che lo stesso Romero non ne parlava più. Solo nel 2017, una bobina di “The Amusement Park” fu rinvenuta in un vecchio deposito e restaurato. Introdotto nel 2021 nel catalogo di Shudder, piattaforma streaming americana gestita dal network AMC interamente dedicata al genere horror e in seguito importato anche da noi dalla Midnight Factory, incluso nella "Romero Film Collection" insieme ad altri tre titoli del regista.  

Oltre a rappresentare una prova affascinante dell'estro di un grande regista scomparso, “The Amusement Park” è un film invecchiato benissimo, che oggi – forse anche più di ieri - fa bella mostra di un linguaggio metaforico spietato riuscendo persino ad andare oltre i temi che gli erano stati commissionati. Dicevamo che il film, relativamente breve (un'ora scarsa), avrebbe dovuto essere un elaborato spot sociale. Beh, scordatevi quadretti tristi e smielati risolti da improvvisi slanci di solidarietà. “The Amusement Park” pur non essendo canonicamente un horror, è un vero pugno nello stomaco, e non è neppure del tutto incomprensibile perché la società che aveva richiesto a Romero di realizzarlo avesse fatto un inorridito salto indietro davanti all'incubo visto durante la proiezione di prova. Bisogna davvero avere uno stomaco di ferro e la sensibilità di un palo elettrico per restare indifferenti di fronte a “The Amusement Park”. Un lavoro svolto per ragioni alimentari, ma in cui l'estro di George Romero è tangibile, e in cui è possibile scoprire i semi di opere che arriveranno dopo.

Una larga parte del film è affidato alla mimica dell'attore Lincoln Maazel, il padre del direttore d'orchestra Lorin Maazel, diretto da Romero anche in “Martin” del 1977. Una struttura straniante che potrebbe far pensare a un episodio di “The Twilight Zone”. Non tanto per il prologo, qui affidato allo stesso attore protagonista che illustra i temi del film e i suoi presupposti sociali, quanto per la chiave narrativa scelta dal regista, che apre il racconto con una scena onirica e terribile che nel giro di pochi secondi afferra il cuore dello spettatore e lo rompe in quattro pezzi. Una stanza candida, un anziano vestito a sua volta di bianco siede ferito, pesto e ansimante. Un altro uomo anziano entra nella stanza aprendo una porta altrettanto bianca. Veste di bianco anche lui. Anzi, è evidentemente un doppio dell'uomo esausto e ferito che abbiamo visto prima, ma si presenta più energico e con un tono dell'umore decisamente alto.


«Ciao. Non vuoi uscire?»

«Non c'è niente fuori.»

«Lo scoprirò da solo se permetti.»

«Non ti piacerà.»

Questo inizio racchiude in sé tutto l'orrore che seguirà. Meno di sessanta minuti di un viaggio surreale e crudele. Un mondo visto come un luna park festoso e affollato, pieno di voglia di vivere e abbondanza, ma che si rivela un labirinto da incubo per un soggetto fragile, che nessuno rispetta, nessuno ascolta, nessuno guarda se non per nuocergli in qualche modo. Un crescendo di solitudine e malessere. Sequenze che riproducono le dinamiche del cinema muto nelle sue forme più inquietanti, e una chiusura dolorosissima, su un'immagine che lancia un grido silenzioso che suggerisce decadenza, ma soprattutto lo spreco di risorse preziose.

La forza terrificante di “The Amusement Park” è la capacità di dimostrare con poche scene espressive quanto possa essere vuota l'esistenza per un soggetto considerato dalla comunità “scaduto” o “difettoso”. Il mondo esterno, nella sua totalità, diventa una trappola in cui il più fragile è retrocesso all'ultimo posto nella catena alimentare di un sistema consumistico che si rivolge esclusivamente ai giovani, ai fisicamente forti, ai sicuri di sé, e agli abbienti. Non a caso, Lincoln Maazel, in qualità di narratore all'inizio del film, sottolinea che tutti diventeremo vecchi, ma che è anche la condizione sociale a pesare sulla bilancia del nostro futuro. La reputazione e la condizione economica possono rappresentare una rete di sicurezza. Ma se queste mancano, si precipita inesorabilmente all'inferno.


Anche in questo sta l'attualità e l'universalità di “The Amusement Park”. Parla soprattutto di vecchiaia, d'accordo, qualcosa che prima o poi ci riguarderà inesorabilmente tutti. Ma la forza del suo simbolismo resiste al tempo valendo anche per quanti, per svariate ragioni, sociali, mediche, ambientali, non hanno mai potuto essere veramente giovani, e convivono da sempre con la consapevolezza di essere considerati roba di poco conto. Vulnerabili, alla mercé di una società senza scrupoli.

In un mondo dove frasi formula come “Ok, boomer” hanno un successo planetario, in cui alcuni social media sono considerati regno esclusivo dei più giovani, in cui influencer si ritirano dalle scene a trent'anni, al culmine come Greta Garbo, lanciando il messaggio che andare oltre è disdicevole se non ridicolo, dove le lotte per la parità dei diritti inciampano ottusamente contro l'ageismo (termine anglofono bruttissimo, ma non ne è ancora stato coniato un altro per indicare la discriminazione in base all'età), c'è ancora posto per un film come “The Amusement Park”. Un titolo che va affrontato con la consapevolezza che non sarà uno spettacolo divertente. In definitiva, ben più di un semplice spot di pubblicità progresso. Un segnale, una richiesta d'aiuto, da un passato che è non invecchia, giacché è sempre con noi, e l'estrema, riscoperta, prova di stile di un grande regista.





mercoledì 12 gennaio 2022

Di fumetti e di parole: la questione Piero Dorfles

 


I miei due centesimi sulla questione Piero Dorfles e i fumetti.

Solitamente, evito di entrare in polemiche del genere, spesso affidate a slogan da stadio che finiscono con il fare apparire sterili e stereotipate entrambe le sponde della discussione.

Preferirei andare al nocciolo del problema. O se vogliamo, indicare l'elefante nella stanza. La domanda cui Dorfles è stato chiamato a rispondere nella trasmissione “Le Parole” era non solo mal posta, ma inutilmente provocatoria. Una di quelle domande che, insomma, suggerisce già la risposta, e più che interrogare esprimono un'affermazione in cerca di conferme.


Che cosa significa: “Se ho letto tot fumetti... posso dire di aver letto tot libri?”

Sicuramente, Piero Dorfless (che non ho motivo di difendere) non ha avuto la prontezza di rispondere a tono. Possibilmente perché non preparato a muoversi sul campo minato su cui veniva invitato ad avventurarsi. Cosa che lo ha spinto a rispondere con la formula più ingenua (che l'interlocutore gli aveva già servito su un piatto d'argento). La sua risposta, però, più che sbagliata, risente dell'assurdità della domanda, e si presenta come il coronamento di un dialogo tra sordi. Un contesto, diciamocelo, tremendamente superficiale.


Nella conversazione c'è un difetto di base. La parola “libro” è usata come un termine generico e sacrale. “Libro” inteso come oggetto nobile. Archetipo divinizzato di cultura, intelligenza, arte. Qualcosa di “intoccabile”, “incriticabile” per fede.

Quante volte, noi che ci occupiamo di fumetti, ci siamo sbracciati per differenziare quello che è un linguaggio complesso e tuttora in fase di sviluppo? Un mare magno di prodotti dove possiamo trovare sia opere estremamente semplici e commerciali che esperimenti di livello altissimo, a volte anche di difficile catalogazione.

Beh, la verità è che non è troppo diverso se parliamo di “libri”, e li osserviamo al di là della parola sacra, assurta a dogma culturale, che spesso induce in errore e fa deragliare conversazioni come quella ascoltata nel salotto televisivo di Massimo Gramellini.


Immaginiamo se la domanda fosse stata posta in un modo diverso. Per esempio, così: “Se leggo un paio di romanzi della collana Harmony, la famosa trilogia con i colori nel titolo dove la tipa s'innamora di un pazzoide che la riempie di lividi, una manciata di romanzetti che fanno correre gli adolescenti a tappezzare Roma di lucchetti, magari l'ultimo volume di memorie di quella certa star della TV... posso dire di aver letto altrettanti libri?”

Se il dialogo si svolgesse in termini adulti, la risposta più onesta sarebbe comunque... sì. Perché il “libro” è un oggetto che contiene parole, pensieri, storie, idee, che possono appartenere a mondi molto diversi tra loro, e soprattutto dimostrare qualità diverse. Possono nutrire, intossicare, intrattenere, fare crescere, disturbare, aprire mondi, non lasciare nulla, e avere la stessa funzione di una bibita gassata in una giornata calda.


Esattamente come può capitare ai fumetti. Intendiamoci.


“Libro” come contenitore. Scrigno di gioielli dal valore inestimabile o scatola di scarpe, utili, ma destinate a consumarsi. Involto di carta per avvolgere il pesce da consumare entro poche ore... e altro ancora.


Sono libri. Libri buoni. Libri brutti. Libri utili. Libri inutili. Libri commerciali. Libri che accendono le anime. Arte e non arte, sebbene quest'ultima contrapposizione potrebbe aprire un'altra riflessione interminabile.

La stessa cosa la possiamo riscontrare nella musica, nelle arti figurative, nel cinema. Quel cinema che continua a chiamarsi cinema, anche quando è debole, moscio, o fatto solo di soldi e gente che sgambetta.

Film che possiamo criticare, magari dicendo che “non sono veri film”, come quando per insultare qualcuno e stigmatizzare una condotta riprovevole si dice che “non è un uomo”. Eppure, anche davanti al peggiore dei peccati, non potremmo negare che si tratta pur sempre di una creatura antropomorfa, ascrivibile al genere umano, che respira, mangia, beve e va di corpo. Se non altro, per linee generali. Parliamo sempre di codici, fatti per comunicare, che in quanto tali possono essere portatori di cose belle, bellissime, brutte, pessime, anonime, inutili.


Siamo anche abituati a dire che il fumetto è un linguaggio ancora relativamente giovane. Il cinema, ricordiamo, ha praticamente la stessa età del fumetto. La nona arte muoveva i primi passi in parallelo con la settima tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo. Quel che c'è di diverso, l'elemento discriminante, è che il cinema, anche nella sua versione più leggera, non è mai stato considerato un linguaggio indirizzato all'infanzia. Non ha mai avuto, insomma, quel marchio paternalistico di “roba per bambini” che ha accompagnato la nascita del fumetto e ancora oggi (nonostante le tante evoluzioni) pesa su questo linguaggio alimentando il pregiudizio dei più distratti.


Quel che voglio dire, è che nella domanda, e di conseguenza nella risposta di Piero Dorfles, vedo soltanto una grande superficialità. Un approccio al dialogo che prima ancora di parlare di fumetti si è dimostrato insulso parlando innanzitutto di libri.

La vera risposta, più sensata, avrebbe potuto essere: “Quali libri hai letto? Non è roba che va a peso.”


La stessa cosa vale per i nostri amati fumetti.


Quello che dobbiamo imparare a pretendere (penso), prima del rispetto dovuto agli argomenti cui teniamo, è un modo onesto di conversare, e il giusto peso dato alle parole. Non può esserci comunicazione, altrimenti.

In una trasmissione intitolata “Le Parole” questo andrebbe tenuto presente.

Non solo parlando di fumetti. Su tutto. Per onestà intellettuale.





giovedì 28 ottobre 2021

DDL ZAN: Basta parlare di morte...

 Ora anche basta.

Parole come "Morte". "Addio". " "Requiescant". Non sono di nessun aiuto. Capisco il momento di sconforto. Il disgusto e la depressione. Ma parole come queste sottintendono una resa. No. Non mi sta bene. L'incazzatura ci sta tutta, ma è il momento di rimboccarsi le maniche e ricominciare. Da tre o da zero non importa. Neppure attendere i sei mesi formali previsti dal parlamento. Quello che alcuni non hanno compreso, è che ieri al Senato non si è votato per approvare la legge, ma per il suo rinvio. Cosa sicuramente grave, ma che non rappresenta un finale definitivo. Un finale che non può, non deve esserci, finché esistono in Italia persone che vogliono fortemente una legge contro l'omotransfobia, il sessismo e l'abilismo (quale il ddl Zan sarebbe stata a dispetto del pensiero dei dinosauri). Ieri, in Senato, la destra italiana ha soltanto dimostrato la sua vera natura, e il suo irrinunciabile dna fascista, oltre a un totale scollamento dalla realtà del paese. E' brutto. E' triste. Ma per favore, basta con i simboli da funerale.
E' il momento di riunirsi. Di manifestare. Di fare rumore e progettare nuove strategie politiche. A Palermo, il Pride (slittato per le restrizioni) avrà luogo tra un paio di giorni. Dovrebbe essere solo la prima delle occasioni affinché quella che spesso è vissuta come una festa, diventi un momento di lotta e di pertinace protesta. Parlo anche a chi ci rappresenta in parlamento. Non voglio pianti e vesti lacerate. Voglio programmi. Voglio che non sia data tregua a questo sistema ormai fradicio, che la società e le nuove generazioni stanno lasciando indietro. Voglio che non sia una fine. Voglio che sia un nuovo inizio.
Voglio che quelle risa e quegli applausi siano ricacciati in gola a chi li ha prodotti. Con i voti. Con i comportamenti. Con le legittime richieste. Con un'azione politica mirata. Basta parlare di morte, per favore. Voglio che assieme a Papillon, sulla sua zattera, noi tutti e tutte si possa gridare: «Sono ancora vivo, maledetti bastardi! Sono ancora vivo!» #ddlZan

giovedì 16 settembre 2021

DUNE di Denis Villeneuve: impressioni a caldo



 Dune. Detto così com'è scritto D-U-N-E.

Allora, per cominciare, la domanda di rito. E cioè: ti è piaciuto?
In verità sì.
Magari non mi ha entusiasmato particolarmente (ma io sono un pezzo di ghiaccio, quindi questo non conta), con qualche piccola riserva. Nel complesso, però, l'ho apprezzato. E devo anche dire che ero discretamente prevenuto.
Prevenuto per via della monumentalità del testo che prova a trasporre (e che amo). Prevenuto perché la lettura di alcune recensioni di chi l'aveva visto in anteprima avevano iniziato a confermare i miei timori. Cioè di trovarmi davanti a un prodotto ben confezionato, ma pretenzioso e sterile.
Dopo averlo visto non penso sia così. "Dune" di Denis Villeneuve è sicuramente un film ambizioso. Così come è anche un film imperfetto, che punta in alto e non centra tutti i bersagli che si propone. E' un film d'autore, e preso nel modo giusto anche un bel film d'avventura. Inoltre, sono sicuro che sarà un film che dividerà il pubblico.
Non ho riscontrato le lentezze estreme e opprimenti rilevati da altri. Ho seguito il film in modo abbastanza agevole. Forse perché mi annoiano altre cose. Magari prodotti che pretendono di essere fin troppo leggeri e spumeggianti, e mi soffocano proprio per questo.
C'è da dire, comunque, che parlo da fan. Appassionato della saga letteraria, che conosce i personaggi, gli snodi della trama ed è pronto a colmare i buchi e i dettagli appena accennati. Non saprei dire come sarà accolto il film da chi dell'opera di Frank Herbert non sa nulla. Sarà interessante scoprirlo.
Per concludere, dopo essere uscito dalla sala, l'idea di spezzare i primo romanzo (il migliore della saga, anche perché fruibile a se stante) in più capitoli non mi sembra più una cosa tanto barbara. In fondo è stato fatto più volte con altre opere. Quello che conta è la resa. Quindi perché non Dune?
A questo punto, spero solo che Villeneuve abbia la possibilità di completare l'arazzo narrativo. L'ipotesi contraria sarebbe un vero peccato.

sabato 17 aprile 2021

Antebellum

 

Siete tra quelli cui piace il "politicamente scorretto"? Che pensano sia figo?

Ok. "Antebellum", allora, è il film che fa per voi. Dico questo perché il film, opera prima del duo di registi Gerard Bush e Christopher Renz, picchia durissimo ed è politically incorrect dall'inizio alla fine. Non solo. Lo è nel modo giusto. Quello che piace a me. Quando questa visione si applica alle categorie privilegiate, forti, e non a quelle diseredate e messe in un angolo dalla storia. E' scorretto anche nel portare in scena le dinamiche del contrappasso, nel rifiutare soluzioni concilianti e nel suggerire soltanto paura e rabbia. Le etichette di genere che accompagnano "Antebellum" sono tre. "Drammatico", "Thriller" e "Orrore". Credo di potere affermare che sono tutte e tre veritiere. Il film di Bush e Renz passa da un genere all'altro senza che quasi ce ne rendiamo conto, e lo fa assestando calci nello stomaco mica da ridere. Il punto è che "Antebellum" è uno di quei film di cui non è possibile parlare veramente senza sciupare tutto. Sarebbero sufficienti quattro parole in fila per guastare l'esperienza immersiva e ansiogena che si propone. Insomma, è uno di quei film che sarebbe meglio vedere senza sapere nulla della trama. Magari anche niente dello scenario, in modo da affrontarlo e lasciarsi travolgere dai suoi sottotesti nel modo più neutro possibile. Anche se l'esperienza, se siete sensibili, può essere dura. E' stato scritto anche che il film soffre, forse, di una cifra stilistica fin troppo estetizzante. Elemento che potrebbe impoverire la forza viscerale di alcune tra le scene più disturbanti. Può darsi. Di sicuro non ci troviamo di fronte a un film perfetto. Ma io penso che "Antebellum" svolga benissimo il suo sporco lavoro di horror politico. Fa stare male. Ti resta in testa. E ti spinge a chiederti se tra le righe non ci sia tanto, troppo di corrispondente alla nostra realtà contemporanea. Una realtà che spesso ti induce a pensare che il peggio sia passato, quando il passato (come recita la citazione di William Faulkner in apertura) non muore mai, si annida tra noi, e detta l'agenda al presente in modo spaventoso.

mercoledì 3 marzo 2021

Paranormal: dall'Egitto con... terrore


«Se la mente ti fa dei brutti scherzi... Faglieli anche tu!»

"Paranormal" è una serie Netflix egiziana a tema soprannaturale, tratta da una serie di romanzi, molto popolari in patria, scritti da Ahmed Khaled Tawfik. La serie è partita in sordina, ma grazie a un discreto passaparola sta pian piano conquistando una discreta fetta di pubblico. All'estero pare essere andata molto bene, e già si discute se confermarla per una seconda stagione. Nel panorama delle serie TV (o streaming che dir si voglia), dominato decisamente dalla cultura anglofona, "Paranormal" è una proposta davvero bizzarra. Innanzitutto per la sua ambientazione, discretamente diversa da quelle cui siamo abituati, e per il modo di intendere il soprannaturale, il misterioso e l'horror, qui rappresentato riferendosi, volta per volta, a leggende popolari in Egitto, spesso mutuate anche dalla cultura greca. Il plot di "Paranormal" si fonda molto sulla caratterizzazione del suo protagonista, il dottor Refaat Ismail. Personaggio che più antieroico non si può. Medico razionalista schivo, misantropo, nevrotico, il cui mal di vivere ha origine, però, in un trauma infantile legato a qualcosa di tuttora inspiegabile. Esperienza che farà da perno all'intera serie e alle avventure, apparentemente indipendenti, ma in realtà collegate da un sottile filo esoterico, che sconvolgeranno la vita del dottore e di tutta la sua famiglia.


"Paranormal" è quindi un racconto di fantasmi, di magia e di mitologia, con sprazzi horror e una curiosa alternanza tra i toni del dramma e quelli della commedia. L'attore Ahmed Amin, che interpreta Refaat, infatti, è noto in patria per essere soprattutto un comico. Ma il suo personaggio si arricchirà di più strati di episodio in episodio, così come l'avventura si farà sempre più nera e inquietante.
Una piccola, interessante sorpresa, quindi. E' probabile che molti storceranno il naso per la povertà degli effetti visivi (non se ne può più, gente. Seguite il cuore delle storie, è importante anche quello). Eppure "Paranormal" è una perla da scoprire tra le tante proposte, fatte con lo stampino, dal colosso dello streaming. Umorismo nero, paura, personaggi ben caratterizzati. E la costruzione di una mitologia interna che, se la serie sarà confermata per nuove stagioni, promette di crescere ulteriormente. Il mondo è grande. Le storie possono essere raccontate in molti modi diversi, in contesti molto variegati. E "Paranormal" è un ottimo biglietto da visita. Auguriamoci che a questo esperimento (a mio parere riuscito) ne seguano altri altrettanto interessanti.

sabato 6 febbraio 2021

Wandavision... ipotesi sul multiverso

Ok, un commento (pleonastico e non richiesto) sull'ultima puntata (la quinta) di Wandavision lo faccio anch'io. Innazitutto... SPOILER come se piovesse. Quindi evitate di leggere se non siete in pari con la serie. . . 

Io sono abbastanza convinto che Wandavision sia pensato per fare da prologo alla nuova fase dell'intero MCU. Che cioè abbia la funzione di introdurre nuovi spunti, nuovi personaggi, nuove minacce e forse anche un nuovo trend generale. La teoria che furoreggia in queste settimane è che Wanda non sia l'unica responsabile nella creazione dell'universo bolla, ma che sia stata in qualche modo indotta a fare ciò che fa. 

Una teoria validissima, che andrebbe bene in ogni caso. Sia che l'intenzione sia quella di fare di Wanda il nuovo villain della fase 4 che farne l'innesco per l'esordio di qualcun'altro. O qualcos'altro. Si fa un gran parlare di Mefisto (o Mephisto, fate voi!). Da un lato a me sembrerebbe un arrivo ingombrante. Nelle saghe a fumetti, Mefisto operava un ruolo di retrocontinuity, ed era funzionale alla cancellazione dei figli di Wanda dal cast degli Avengers (almeno finché non si è deciso di farli ritornare, in un modo ancora più contorto, come Wiccan e Speed). Introdurre Mefisto, considerato che questi è praticamente il diavolo dell'universo Marvel (proprio il diavolo della tradizione giudaico-cristiana, ma con un look da supercriminale), a mio parere sarebbe un eccesso e farebbe pensare ad altri piani. Una decisa virata mistica per il MCU e l'arrivo di quello che (in termini di potenza e pericolosità) dovrebbe essere il nuovo grande antagonista della macrotrama. Non che questo sia da escludere, ma non mi persuade del tutto. Non così presto, almeno. 

E' sempre possibile che tutto sia da ricondurre alla follia di Wanda (e per il momento lo accoglierei come un twist drammatico accettabilissimo), ma è pur vero che nei fumetti (successivamente) lo sbrocco della strega è stato ricondotto all'intervento di altri agenti negativi (nella fattispecie, il Dottor Destino). E' plausibile anche che (come già fatto in passato) la scrittura in live action ibridi e sintetizzi temi fumettistici. Per esempio riassumendo in un unico demone dimensionale i personaggi di Chthon e Mefisto, ricordando che il primo, nei fumetti, ha svolto un ruolo nello sviluppo dei poteri di Wanda, preparandola per essere il suo tramite terreno. Vedremo quindi Wanda posseduta? Non lo escluderei, ma secondo me non immediatamente. Piuttosto nei film seguenti, di cui Wandavision rappresenterà il trampolino di lancio. 

Un altro aspetto sul quale rifletto molto è l'introduzione del concetto di multiverso. E' praticamente dichiarato, lo stiamo aspettando. Anzi, è qui. Il mio sospetto è che la scelta di rappresentare la vita idilliaca immaginata da Wanda come varie sitcom della storia della televisione, sia qualcosa di più di un semplice gioco citazionistico. Penso che possa avere una maliziosa funzione metaforica. La presentazione di una componente metafilmica e metatelevisiva che diventa simbolo del multiverso. L'arrivo di Pietro con le sembianze di Evan Peters, il Quicksilver più longevo sullo schermo, più amato e più ricordato (dopo la toccata e fuga di Aaron Taylor-Johnson in "Age of Ultron") sembrerebbe suggerirlo. E' un po' come dire tra le righe "Tutto ciò che prima era della Fox adesso è nostro, possiamo usarlo. Lo abbiamo preso da un'altra dimensione, un'altra realtà mediatica, e adesso è qui. Esattamente come Wanda attinge a dinamiche e format da sitcom televisive per vivere una vita spensierata." La battuta di Darcy Lewis («Ha dato il ruolo di Pietro a un altro attore!») avrebbe dunque una valenza pirandelliana. Sì, Pietro è tornato, ma operando uno spostamento da una dimensione dell'immaginario (cinematografico) a un'altra. Eppure è sempre lui, perché il suo ruolo è comunque quello. Se l'intenzione è questa (una lettura pirandelliana del multiverso che attinge anche a precedenti letture filmiche) sarebbe divertentissimo. E anche coerente, se ricordiamo che nei fumetti, a volte è stato teorizzato che Wanda cerca i propri desideri tra tutte le realtà possibili, e una volta individuati li porta nella propria realtà. Detto così è un'astrazione, ma il multiverso e la capacità di direzionare i suoi contenuti potrebbe diventare un modo interessante per spiegare i poteri di Wanda nella versione live action. 

Se tanto fosse vero, il tema della fase 4 potrebbe riguardare qualcosa di simile alla storica Crisi della DC comics negli anni 80, ma anche la più recente Secret War marvelliana, che dopotutto sono la stessa cosa. Una ridefinizione della realtà che sintetizza storyline, personaggi e situazioni prendendole da più universi narrativi per pianificare un nuovo status quo editoriale (o, in questo caso, cinematografico). Questo potrebbe portare gli X-Men della Fox a fare parte in qualche modo del passato del MCU, a dare per scontate le loro avventure già viste (o parte di esse) e ad andare avanti con nuove formazioni mutanti, o nuove versioni dimensionali di alcuni personaggi amati. Nella fattispecie, mi aspetto che il prossimo Deadpool vada a nozze con questo gran casino, diventando addirittura un commentatore esterno al nuovo assetto. E' tutta una menata mentale nerd, ovvio. Eppure qualche traccia esiste. Spero che il Quicksilver di Evan Peters resti con noi in futuro. Almeno occasionalmente. Non avevo gradito la sparizione repentina della prima versione del personaggio. Scelta che ci ha privati di vedere approfondire il forte legame dei gemelli Maximoff, tema che ha un potenziale notevole. Per tutto il resto... Ok. Ricordiamo soprattutto che stiamo solo giocando.