domenica 26 aprile 2020

Spoorloos (cioè The Vanishing, l'originale)


Fa davvero uno strano effetto scoprire oggi "Spoorloos", film franco-olandese diretto da George Sluizer nel 1988, tenendo ben presente il remake statunitense che lo stesso regista avrebbe diretto qualche anno dopo, nel 1993, con un budget più alto, qualche nome di richiamo e il titolo "The Vanishing ". Parliamoci chiaro. Che la versione originale fosse più riuscita era qualcosa che si sentiva dire da tempo. Dalla critica che non accolse con molto entusiasmo il rifacimento e dai pochi fortunati che avevano avuto la possibilità di vederlo. In effetti, il confronto con la pellicola che Sluizer realizzò con Kiefer Sutherland, Jeff Bridges e una quasi esordiente Sandra Bullock nei ruoli principali, accanto alla prima versione fa l'effetto di una copia molto sbiadita e dalla personalità annacquata. Il vero pregio di "Spoorloos" ("Senza Traccia", ma anche la prima versione aveva avuto come titolo "The Vanishing" per il lancio internazionale) è che riesce a essere disturbante nonostante lo scialbo remake americano abbia ormai svelato il punto di arrivo della storia. Anzi, è un film malsano e angosciante proprio perché SAPPIAMO dove il racconto sta per andare a parare. La vicenda di Rex e Saskia (così si chiamano i protagonisti, a differenza della rilettura USA, in cui si chiamano Jeff e Diane) si apre subito con presagi funesti di quello che avverrà, e la semplicità quadrata del tutto, una conduzione dove alla fine tutti i pezzi del mosaico vanno al loro posto con una perfezione devastante, fa vivere allo spettatore un incubo cinematografico che picchia duro nella forma oltre che nella sostanza, magari già nota ai più. E non si tratta solo del fatto che, a differenza della versione pensata per il pubblico americano, il finale è agghiacciante e per niente consolatorio (una storia del genere non potrebbe proporre niente di diverso). Sarà forse la presenza dell'attrice Johanna ter Steege, che riesce a farci empatizzare con il suo personaggio in pochi minuti, e a rendere un vero pugno nello stomaco quello che le succederà. Qualunque cosa le succeda, che lo si sappia o no. Sarà la presenza di un luciferino Bernard-Pierre Donnadieu, che riesce nell'impresa non facile di eclissare la prova (tutto sommato manierata) di Bridges nel ruolo del villain del film. In parole povere, la curiosità cinefila potrebbe temere che il meccanismo di "Spoorloos - The Vanishing" sia disinnescato dallo spoiler storico generato da un remake non all'altezza. Cosa che potrebbe portare qualcuno a rinunciare di recuperarlo, ma non è così. Il film, di difficile catalogazione (thriller, drammatico, horror?), ha parecchie cartucce da sparare. Vanno tutte a segno e fanno un male cane. Insomma, vale la pena far finta di non ricordare il "The Vanishing" americano, che - ricordiamolo - fu diretto con mano meno felice dal medesimo regista olandese, e scoprire la prima versione. Con la consapevolezza che sarà un viaggio affascinante che ci farà stare malissimo.

venerdì 10 aprile 2020

Il fabbro e il diavolo

"Il fabbro e il diavolo" (in originale "Errementari") è un film diretto da Paul Urkijo Alijo e prodotta da Alex de la Iglesia nel 2017. Il film, una produzione basco-francese, è una fiaba nera che riprende motivi popolari presenti in molte culture e le colloca nel XIX secolo, dopo la prima guerra civile carlista. I protagonisti sono archetipi senza tempo. Il diavolo e la sua ricerca di anime da assoggettare tramite un patto, e una figura di popolano che in qualche modo gli resiste, con l'astuzia, la forza o magari entrambe. Questo piccolo, simpatico film, presenta una struttura in fondo molto semplice e per l'appunto archetipica. Ma vive soprattutto di forma, di tempi narrativi e delle caratterizzazioni dei personaggi, sia centrali che di contorno. La pellicola di Alijo non ha un budget altissimo, ed è possibile (anzi, è successo) che alcuni sentano il bisogno di criticare gli effetti speciali (in realtà didascalici) presenti nell'ultimo segmento del racconto. Cosa a mio parere abbastanza inutile, perché "Errementari" è un'opera che si regge sulle atmosfere e funzionerebbe anche su un palcoscenico teatrale, con le assi di legno che scricchiolano sotto i piedi degli attori, e con fiamme di carta mosse da ventilatori. Dimentichiamoci, dunque, gli effetti contemporanei, che ci hanno mangiato occhi e cervello, e concentriamoci su una novella semplice ma dalle passioni forti, che non racconta niente di nuovo, ma che lo fa con uno stile davvero accattivante.



"Il fabbro e il diavolo" è un film fantastico, in una cornice storica ricostruita piuttosto bene. E' un film horror sotto diversi aspetti, e a sorpresa è anche una commedia grottesca. Il suo tema centrale è la diversità e l'incomprensione che condanna questa alla solitudine. E' una parabola morale sul senso della colpa e della punizione. L'inferno, diceva Thomas Mann in un suo romanzo, è una condizione dell'anima. Soltanto chi aspira a essere giusto comprende i propri difetti, le proprie colpe e ne soffre, condannandosi all'inferno. Ed è per questo che all'inferno, praticamente, ci finiscono solo le brave persone. "Errementari" in qualche modo sfiora questo pensiero etico e confeziona una favola sull'ambiguità di bene e male. Siamo il nostro inferno, e le circostanze possono renderci non troppo diversi dallo stesso diavolo venuto a reclamare la nostra anima. Visivamente, il film ha una sua potenza, e la figura centrale, quella del fabbro, figura temibile, ma anche mitica, acquista una simbologia non scontata, che parla di colpa attraverso un percorso di redenzione disseminato comunque di violenza e crudeltà. Piacevoli i rimandi (sicuramente volontari) a feticci del cinema e della televisione di genere. Qualcuno ravviserà il seminale "Ululati nella notte", celebre episodio di "Ai confini della realtà", già omaggiato dal film "I trapped the devil" (ma qui si va oltre e si supera il limite). Al genere slasher, echeggiato dalle location, dalla narrazioni che circondano il misterioso protagonista e la sua prima, spettacolare apparizione (che prende comunque una direzione ben diversa). In definitiva, "Il fabbro e il diavolo" pur non essendo un film particolarmente originale o riuscito, è un divertentissimo esercizio di stile a cui è facile voler bene. E se i serpenti vi fanno paura, se li odiate... stavolta potreste ricredervi, e piangere persino.

giovedì 26 marzo 2020

The Invisible Man



In questo momento buio, la distribuzione di tanti film è rimandata a data da destinarsi. Ma qualche scelta differente fa discutere. La Universal ha infatti deciso di anticipare l'uscita per lo streaming di una manciata di film. "Emma", "The Hunt" e "The Invisible Man". Per quanto sia un peccato che film interessanti e attesi non possano attualmente essere visti in sala, è consolatorio poter fruire di alcune novità nonostante il periodo dell'isolamento. C'era, infatti, una discreta aspettativa circa il nuovo "Uomo Invisibile" di Leigh Whannell. Pellicola che si presenta come un possibile nuovo inizio del progetto che doveva intitolarsi "Dark Universe", e si proponeva di essere una rivisitazione moderna dei classici horror che la Universal produsse a partire dagli anni 30 del ventesimo secolo. Parliamo, quindi, di una nuova versione de "L'Uomo Invisibile" di H. G. Wells e dell'omonimo film diretto da James Whale nel 1933 con Claude Rains protagonista. Quel che va detto subito è che il film di Whannell (che aveva diretto il piacevole "Upgrade") non è esattamente un remake dell'opera di Whale. Non potrebbe, non vuole esserlo. Possiamo dire che le somiglianze con il film del 1933 e il romanzo di Wells sono soltanto il concetto dell'invisibilità e il nome del villain. Detto questo, il film di Whannell naviga su ben altre rotte, e per una volta il panorama è molto interessante. Un modo per reimmaginare il topos narrato da Wells alla luce di una sensibilità aggiornata, rendendolo specchio di una realtà inquietante. “The Invisible Man” si potrebbe ascrivere alla fantascienza, ma la scelta estetica vira decisamente nei territori dell'horror. Di un horror sociale, peraltro, simbolico, in cui la paura e il sangue dipingono mali contemporanei. Bastano i primissimi dieci minuti di “The Invisible Man” per mettere un'ansia insostenibile. Una sequenza quasi muta, ma che comunica più di una valanga di parole, descrivendo in poco tempo un inferno e un senso di angoscia che già da soli sono sufficienti a suscitare nello spettatore un disagio incredibile. E il film è soltanto all'inizio.
E' facile prevedere che, a visione ultimata, non mancheranno le segnalazioni di qualche buco logico, ma per una volta... lasciamoli perdere. “The Invisible Man” va visto come un'allegoria da guardare in prospettiva non come lavoro geometrico. E da quel punto di vista funziona alla grande. Ha ragione da vendere chi lo ha paragonato, per forma e intenti, a “Babadook” di Jennifer Kent. Anche in quel caso, l'orrore era un pretesto per parlare di un antico male del quotidiano, un incubo da vivere e da riconoscere come proprio... o del proprio vicino. E questo “Uomo Invisibile” è uno dei terrori peggiori del nostro tempo, proprio perché non viene visto, non è riconoscibile, non ha un volto, e di conseguenza non esiste. O così vuol farci credere. Così ci fa comodo credere. Elisabeth Moss (vista ne “I Racconti dell'ancella”) rappresenta il punto di vista (!) e vero cuore del film. La sua espressività, suscita un'empatia cruciale che deve fare riflettere. La minaccia narrata dal film, che per una volta non riguarda un genio folle che usa la sua scoperta per andare alla conquista del mondo, può essere letta in modo più o meno circoscritto o in modo più o meno esteso. E quello che vediamo... Anzi, quello che non riusciamo a vedere, fa paura. Maledettamente paura.


lunedì 23 marzo 2020

El Hoyo (Il Buco)


Il film "El Hoyo" presentato da Netflix, rappresenta uno di quei casi in cui gli odiati servizi di streaming possono rendere possibile la visione di opere interessanti, che magari non avremmo visto e che potrebbero giacere nel dimenticatoio per molto tempo. Al di là di queste riflessioni, "El Hoyo" (intitolato "The Platform" per il mercato internazionale, e in Italia "Il Buco", con lungimiranza incommentabile), sta facendo discutere molta gente. Tanti ne sono entusiasti. Altri sconcertati. Qualcuno ritiene di riconoscere influenze di opere già viste. Altri ancora ne lodano gli intenti metaforici, accettando gli aspetti più esoterici di una trama che lavora in sottrazione. Opera prima del regista spagnolo Galder Gaztelu-Urrutia, "El Hoyo" (perché non tradurlo "La Fossa", cazzo?!) è una vera sorpresa, che magari non brillerà in modo particolare per originalità, ma che se recupera semi del passato lo fa con criterio, stile, e ottime intenzioni in larga parte ben realizzate. Non è semplice parlarne. In primo luogo perché è uno di quei racconti di cui è meglio scoprire il meccanismo poco per volta. In seconda istanza, perché presenta un curioso e riuscito mix di generi pur non essendo (a sorpresa) un vero film di genere. Potremmo parlare di fantascienza distopica, di horror (sotto parecchi aspetti), di thriller, e di apologo politico. Ma anche mistico, filosofico. "El Hoyo" è anche un ottimo esercizio di stile in cui un pugno di attori, tutti molto bravi, riescono a creare un microcosmo angosciante da uno scenario ridotto e da un'idea semplicissima nella sua crudeltà. Chi conosce e apprezza il teatro dell'assurdo di Samuel Beckett potrebbe avere qualche dejavu da incubo. La costrizione, il senso di vuoto morale, la mostruosità di personaggi che hanno perso quasi del tutto la loro umanità. Finita la visione del film, è lecito interrogarsi in quale misura il messaggio (neanche tanto) nascosto verta sulla rappresentazione allegorica di un ordinamento sociale in classi dove l'incapacità di collaborare destina tutti all'abisso o sulla ricerca di una ragione per andare avanti nonostante tutto, nutrendo la speranza nel domani per i posteri se non per se stessi. Ma un'opera veramente riuscita formula domande e incita alla riflessione più che elargire risposte. E "El Hoyo" questo lo fa. Lo fa dannatamente bene, mettendo in scena un dramma dove conta molto il dialogo, la parola e le atmosfere. Davvero un bell'esordio per un regista che incoraggiato su questa strada potrebbe offrire meraviglie in futuro.

giovedì 19 marzo 2020

Cronache del coprifuoco...

Cronache del coprifuoco...

19 Marzo, San Giuseppe. Festa grande a Palermo. Festa di tradizioni... irrinunciabili. In questi giorni di coprifuoco, la fila fuori del panificio, in cui si entra solo due clienti alla volta, non era mai stata così lunga. Ma non era questa la cosa che balzava agli occhi. Nell'uso diffuso delle mascherine (servono, non servono, in che misura servano... non spetta a me dirlo), dilaga sempre più il trend di tenere il naso fuori. Coprendo, insomma, soltanto la bocca. Cosa già incomprensibile di suo, considerata la necessità di coprire le vie aeree. Ma altrettanto frequente è diventato l'uso incomprensibile di tenerle abbassate, o penzoloni, sul petto o dondolanti da un orecchio. La distanza in fila si tiene come si può. Raramente, vedo, è più di un metro scarso. Non so più dove mi devo piazzare, e lotto per non cedere alla paranoia. Un mendicante, un bellissimo anziano nero che nel quartiere conosciamo da anni, esce dal panificio mangiando una pizza che gli è stata offerta. Tò, solo il giorno prima aveva notato la totale assenza di questuanti, ma a quanto pare oggi è diverso. Forse perché è festa, e in un modo o nell'altro la gente fa compere. In tanti, infatti, chiedono se il panificio ha preparato le tradizionali sfince con la ricotta.
Due signori, in fila per il pane, si incontrano. Sono due amici che non si vedevano da un po'. Inizia un teatrino dell'assurdo, tra le risate dei due. Non possono toccarsi. Stringersi la mano, o scambiarsi baci sulle guance. Ma non riescono a rinunciare a qualche gesto simbolico. Un gesto della mano da distante non gli basta. No, uno dei due avanza sporgendo il gomito ridendo. Poi... si prendono a calci. Anzi, no. Si urtano le punte dei piedi, per aria, a calci volanti, per inventare una "stretta di piedi" forse a loro avviso loro più sicura. Solo che per farlo, magari, si sono avvicinati troppo. La fila nel frattempo cresce. Da lontano si avvicina una giovane nomade che spinge un bimbetto nel passeggino. Non vedevo da un po' neppure loro. Ha un fazzoletto legato sulla faccia. Chiede l'elemosina al mendicante nero (Ah!). Poi si rivolge a me. Troppo vicina. Ma che posso farci? Mi chiedo se arriveremo alla violenza quando la paranoia avrà raggiunto il giusto caglio. Io non ho spiccioli (e neppure un reddito, attualmente). Chi le dà qualcosa è uno dei signori che si sono salutati con i piedi.
Alla fine compro il pane e vado via. Se non una folla, quel gruppuscolo di varia umanità mi ha lasciato una sensazione di inquietante trasandatezza. Non so. Teniamo a bada la paranoia, le esplosioni di rabbia. Ma cerchiamo anche di essere prudenti. Per questo ho preso più pane, oggi. Magari domani non dovrò uscire.
Oggi, dopotutto, era festa.
Già. Festa.

mercoledì 18 marzo 2020

Riscoprire "Castaway on the Moon" durante la quarantena


Questo periodo di isolamento potrebbe essere l'occasione per recuperare (o rivedere) "Castaway on the moon", film sud-corano diretto da Lee Hae-Jun nel 2009. Una commedia agrodolce che dà molteplici spunti di riflessione sulla solitudine (vera o presunta), i possibili modi di arginarla, la riscoperta della fantasia per superare le difficoltà e una diversa modalità di interazione con gli altri, al di là delle convenzioni sociali e delle dinamiche di cui siamo in larga parte dipendenti. Un giovane uomo afflitto dai debiti e dal senso di fallimento, tenta il suicidio lanciandosi da un ponte nel fiume che attraversa la sua città. Ma si ritrova su un piccolo atollo, circondato dall'acqua, in un punto in cui nessuno può vederlo o sentirlo. Quindi naufrago di fatto sia pure vicinissimo alla civiltà da cui si era sentito schiacciato. Non sapendo nuotare, e non potendo lasciare l'isolotto, l'uomo cerca di sopravvivere come può, sfruttando gli oggetti che trova per imparare nuove pratiche, nuove forme di vita, e costruendo giorno dopo giorno una rinnovata forma di indipendenza. Da lontano, tuttavia, qualcuno che si accorge di lui c'è. Una ragazza con seri problemi di agorafobia e asocialità, quello che nel linguaggio orientale è definito hikikomori. Persone afflitte da problemi relazionali che le inducono a isolarsi in una stanza mantenendo con l'esterno solo contatti telematici. Il rapporto, stabilito attraverso mezzi tecnologici e un cannocchiale, getta un ponte emotivo tra i due soggetti isolati, e... E il resto è da scoprire. E amare. "Castaway on the moon" è un film semplicemente delizioso, fatto di dettagli e di un'idea potentissima nella sua tenerezza. Se vi sentite soli, annoiati, prigionieri, e non lo conoscete... cercatelo, scopritelo. Se lo conoscete già, meditatelo. Magari rivedetelo. Ci sono troppe cose date per scontate che contribuiscono a farci sentire soli e inermi se ci vengono sottratte all'improvviso. E l'arte, come questo bellissimo film è qui per ricordarci che le nostre risorse non sono poche, e che dobbiamo solo allungare la mano e darci da fare per scoprire che possiamo andare avanti comunque. E che ci sono tanti modi per smettere di essere soli, impauriti, alla deriva, naufraghi. Si può essere naufraghi. Ma sulla luna, e guardare le stelle da vicino. Vedete "Castaway on the moon". La bellezza può ancora salvare il mondo.

lunedì 16 marzo 2020

Die Farbe (Il Colore)


"Die Farbe" (letteralmente "Il colore") è un film indipendente tedesco del 2010 ispirato a "Il colore venuto dallo spazio" di H. P. Lovecraft. A parte la variante geografica, che ambienta la vicenda nella campagna tedesca, e qualche libertà, il film diretto da Huan Vu è molto più fedele alla fonte letteraria di tanti altri adattamenti. Il racconto è articolato in tre atti che rimbalzano su altrettanti piani temporali. Subito prima il secondo conflitto mondiale. Subito dopo la fine della guerra, e quindi molti anni più tardi, dal punto di vista del figlio di un ex militare americano che di recente è tornato a visitare la Germania, dove aveva vissuto una strana esperienza, facendo perdere le sue tracce. La vera peculiarità del film è la scelta di lavorare in sottrazione. Nessun effetto speciale vero e proprio, nessuna mostruosità evidente e in piena luce, ma solo tanta suggestione. Né più né meno dell'irriferibile portato in scena dallo scrittore di Provvidence nei suoi racconti. Un altro aspetto importante di "Die Farbe" è quello di essere una pellicola in bianco e nero, dove l'unico colore è quello maligno venuto da un'altra dimensione. Qui ancora più alieno, in quanto unico colore presente nel film. Curiosamente, anche qui parliamo di una sfumatura di fucsia, come avrebbe scelto molto tempo dopo Richard Stanley per la sua recente versione. Peccato per l'uso di una CGI molto approssimativa in alcune scene di cui si sarebbe potuto fare a meno. Peccato per un uso forse non del tutto equilibrato del contrasto tra fotografia in bianco e nero e colore fuori contesto. Idea molto interessante, ma che forse poteva essere sfruttata meglio e in modo più ossessivo. "Die Farbe" è comunque un esperimento interessante. E se vi chiedete se è migliore del recente film di Richard Stanley... Non credo abbia senso paragonarli. Troppa distanza formale, intenzioni troppo diverse, con la sola base del racconto di Lovecraft che rende i due film lontani cugini. Ovviamente è inedito in Italia, e nel dvd mancano i sottotitoli nella nostra lingua. Questi sono comunque reperibili in rete, nei consueti modi esoterici.