venerdì 31 agosto 2018

Le cose che tornano (Altroquando e la Biblioteca SRA)



 «Mia mamma diceva sempre che le cose che perdiamo trovano sempre il modo di tornare da noi... Anche se non sempre come noi ce l'aspettiamo.»


Così dice Luna Lovegood a Harry Potter. E a volte... E' VERO. Cose perdute, per sfortuna, per scelte sbagliate, per cause incontrollabili, possono ritornare da noi. Una quantità di fumetti per una ragione o per l'altra persi per strada, stanno lentamente tornando. Una grossa donazione da parte di un vecchio amico di Salvatore Rizzuto Adelfio (che oggi dà il nome alla biblioteca in cui la sua libreria, Altroquando, si propone di reincarnarsi) ha riportato a casa una gran quantità di titoli. I primi 200 numeri di Nathan Never, speciali compresi. Collezioni di Julya, Magico Vento. Miniserie complete come VoltoNascosto, Demian. Ken Parker. I primi, mitici speciali di Dylan Dog. Lazarus Ledd, la serie completa originale di Cybersix e tante riviste antologiche d'autore. 



Molti di questi fumetti erano stati acquistati da Altroquando. Tanti conservano ancora la storica busta con il nostro timbro di famiglia. Non possiamo che essere grati a quanti, dimostrando una vera amicizia, hanno scelto di far tornare a casa questi titoli. La nostra iniziativa di uno spazio per condividere gratuitamente il fumetto a Palermo continua a crescere. E noi siamo entusiasti e grati. 




Per sostenere la biblioteca autogestita potete donare libri e fumetti (contattateci alla mail altroquandopalermo@gmail.com) o fare una piccola donazione monetaria sul nostro conto Paypal: http://paypal.me/altroquandopalermo
Ma potete anche scegliere un titolo dalla nostra lista dei desideri su Amazon (http://amzn.eu/5qHcH99e farlo pervenire alla nostra associazione. Grazie a tutti per l'affetto e la solidarietà che dimostrate. Ci sarà sempre un Altroquando.









lunedì 27 agosto 2018

Reminisc[i]enza - Yellow Kid e Buster Brown



Torna l'asincrona rubrica "Reminisc[i]enza" (la storia della TV non l'hanno fatta solo gli Anime e Raffaella Carrà, ragazzi. C'è stato anche Enrico Ghezzi, per quanto... fuori orario). Pillole di storia del fumetto tanto per gradire. Yellow Kid è praticamente il simbolo del fumetto, ma Buster Brown è suo fratello minore e non le manda a dire. Nati entrambi dal pennello di Richard Felton Outcault per fare storia.

giovedì 23 agosto 2018

Fantastic Four: un nuovo numero #1


La prima famiglia Marvel ritorna dopo un periodo di letargo. Molte aspettative e un cast di autori collaudato. Siamo solo all'inizio, ma certe cose non cambiano mai. 
«Io ti osservo, Marvel! Io ti OSSERVO!»

lunedì 20 agosto 2018

Les Incidents de la Nuit [di David B.]


Un fumetto sui libri e sui librai. Sulle letture, sulle librerie e i mondi che possono aprirci. Sulle storie, sui misteri che ammantano città e persone. David B. autore de "Il grande male" ci narra una saga esoterica e poetica, in cui le idee più intriganti, gli incontri più particolari, avvengono... di notte. Un video con cui torno a parlare di fumetto d'autore e grandi metafore, nona arte e alta letteratura. Per gli sbadigli (forse) di tanti e per un tubo (si spera) meno standardizzato.

martedì 14 agosto 2018

"The End? L'inferno fuori" di Daniele Misischia



The End? L'inferno fuori” dell'esordiente Daniele Misischia è un film italiano di genere. Ok. Partiamo da questo dato scontato. E cioè che dopo un lungo silenzio, qualcuno in terra italica torna a percorrere quei sentieri dell'immaginario perturbante che nel nostro cinema è stato consegnato alla storia da nomi del calibro di Dario Argento e Lucio Fulci (ma prima ancora arrivò Mario Bava), soprattutto negli anni 70 e in parte negli 80. Tempi eroici in cui dire “di genere” aveva una valenza diversa da quella odierna. Principalmente dispregiativa. E in cui venivano prodotte pellicole di una genialità artigianale che spesso sarebbero state rivalutate solo dopo un lungo e colpevole atteggiamento di sufficienza culturale. Il film di Misischia (esordiente alla regia sul grande schermo, ma già rodato alla scuderia dei Manetti Bros) subisce l'ennesima angheria di essere distribuito a Ferragosto, per di più insieme a blockbuster con i quali la partita al botteghino è impari in partenza. E proprio per questo, pur con tutte le sue imperfezioni, è un film che si dovrebbe scoprire, godere e valorizzare. Sempre che – elemento necessario – siate cinefili e soprattutto amiate l'horror. O quel tono di sufficienza, molto anni 70, potrebbe tornare a mordervi come gli zombi di cui stiamo per parlare. Sì, perchè il film di Daniele Misischia si basa tutto su un'idea e sulla tecnica per fare di un limite virtù. E sono sforzi che bisogna sapere apprezzare.

The End? L'inferno fuori” è un film horror, dunque. Anzi, uno zombi-movie, di quelli che ormai fanno etichetta a sé. Ma è anche un esercizio di stile che combina più sottogeneri, tutti ascrivibili alla categoria più ampia del thriller. Il film vive inteamente nel suo spunto di partenza. Un apocalisse zombi (o di infetti furiosi e cannibali, ormai non importa più). Un uomo intrappolato in uno spazio angusto. Una serie di eventi terrificanti che si succedono al di fuori, e di cui c'è dato scoprire solo il punto di vista del protagonista. Quello offerto dalla finestra ricavata dalle ante semiaperte di un ascensore bloccato tra due piani. Rifugio e nello stesso tempo strumento di tortura, che porta lo spettatore a chiedersi dove sarebbe effettivamente meglio trovarsi? Se in trappola con il protagonista o fuori, alla mercé di un'orda di zombi famelici. Se in fuga là dove si può essere sbranati a ogni angolo o rinchiusi dove con molta probabilità si farà la fine del topo.

Potremmo definire questo sottogenere, un “punto di vista relativo”. Una narrazione classica ridotta alla visione soggettiva e parziale di un personaggio defilato. Un po' come nel film “Cloverfield”, dove la classica invasione del mostro gigante che mette a ferro e fuoco una città è raccontata attraverso gli occhi di un pugno di cittadini ignari di quanto sta succedendo, quasi venisse data voce alle comparse che si solito si limitano a correre urlando. Inevitabile è anche pensare aBuried”, film interamente ambientato nel chiuso di una cassa dove un uomo, sepolto vivo, cerca di darsi aiuto con un telefono e pochi altri arnesi. Il tutto collocato nello scenario ormai canonizzato dell'epidemia zombesca, in cui l'appassionato di horror sa perfettamente che cosa sta succedendo, ma dove l'ansia e il senso dello spettacolo è fornito dal crescendo di consapevolezza, terrore e reazione, dell'uomo intrappolato in uno spazio che ne limita i movimenti e la comprensione dei fatti. C'è poi quell'elemento che risale addirittura al teatro del Grand Guignol e agli orrori suggeriti più che mostrati. Sempre attraverso il telefono, come nel classico “Au telephone del drammaturgo francese André De Lorde, in cui un uomo in viaggio, attraverso l'apparecchio telefonico appena installato nelle case del primo novecento, ascolta impotente i suoni che descrivono l'assassinio della sua famiglia.

Il cinema di zombi, a partire dal suo capostipite romeriano, “La notte dei morti viventi”, nasce da subito come cinema della costrizione. Racconto d'assedio, dove l'inferno fuori è catalizzatore di discordia e orrori interni, secondo l'idea infernale immaginata da Jean Paul Sartre in “Porta Chiusa”. Qui l'assedio riguarda un singolo e il catalizzatore della paura non sono tanto gli zombi, quanto l'ignoranza di cosa succede fuori, e gli inesorabili sviluppi della catastrofe che si rivelano in dettagli mostrati dapprima con piccoli squarci di mondo esterno, e poi con una progressiva penetrazione dell'orrore all'interno. Se nella trilogia di George Romero gli zombi assediavano l'ordine costituito, la famiglia, l'istituzione, la società dei consumi, le forze dell'ordine e alla fine dichiaratamente il capitalismo, in “The End?” si scatenano all'interno di un complesso aziendale e tengono emblematicamente in ostaggio un imprenditore cinico e dispotico. Potremmo definirla una miniatura dei topos romeriani, dove sia il luogo dell'assedio (una casa, un ipermercato, un bunker... qui lo spazio angusto di un ascensore) e i totem da abbattere (qui riassunti in un unico personaggio simbolo) sono felicemente concentrati con un ottimo uso del ritmo e dello spazio scenico volutamente ridotto.


Allessandro Roja, volto della serie televisiva “Romanzo criminale” è funzionale al suo personaggio e alla lenta evoluzione (anche quella simbolica che affronterà). La performance non è forse memorabile, ma non necessita di esserlo in quanto il film vive di attese, suggestioni e vampate di terrore che l'interprete è in grado di reggere. Più incisivo è il giovane Claudio Camilli, che riempie lo schermo con la sua mole e il suo carisma non appena entra in scena, ed è il perno di alcuni dei momenti più intensi della pellicola. I comprimari, la maggior parte dei quali appaiono solo di sfuggita, e la moglie del protagonista (Carolina Crescentini, presente solo come voce al telefono) sono veicolo di tutti quei cliché che lo spettatore si aspetta, e che fanno parte del lavoro di attenta miniatura che la regia offre a un pubblico scafato, ma in grado di apprezzare la tecnica del racconto.
In definitiva, “The End? L'inferno fuori” è un riuscito, piacevole giocattolo per mettere paura. Senza esagerazioni, è un'opera prima da promuovere per la forma e la capacità di osare. Una variazione su un tema ormai abusato che trova i suoi punti di forza nella sottrazione anziché nell'eccesso. Un giocattolo che riesce persino a spaventare in più di una scena là dove pellicole mainstream hanno ormai rinunciato, oppure falliscono nel più frustrante dei ja vu. E se dovrà esserci un ritorno al cinema di genere italiano, magari possiamo considerare proprio il film di Daniele Misischia il punto da cui ripartire.

sabato 11 agosto 2018

Riscoprire "52"

 

Ho appena finito di rileggere "52", la saga settimanale che copre le 52 settimane seguenti all'evento DC "Crisi Infinita", e che sostanzialmente reintroduce il concetto di multiverso (cancellato anni prima da "Crisi nelle Terre Infinite"). Pubblicato nel 2006, scritta da Geoff Johns, Mark Waid, Grant Morrison, Greg Rucka e Keith Giffen, "52" illustrava l'anno del cosmo DC durante il quale i personaggi fondamentali di Superman, Batman e Wonder Woman erano scomparsi. I protagonisti, infatti, sono le retroguardie dell'universo narrativo, personaggi secondari o addirittura marginali, alcuni dei quali ripescati dal dimenticatoio editoriale. Un'operazione bizzarra, che si dipana come un grande feuilleton fitto di enigmi ben congegnati, in cui villains storici acquistano un definitivo spessore (soprattutto Black Adam) e nuovi eroi ricevono la loro consacrazione (la nuova Question e la nuova Batwoman). Un dipanarsi di trame e sottotrame intricate, complotti complessi, risvolti fantapolitici e squarci di space opera. Un mistery dove spionaggio e soprannaturale si mischiano, seguendo il cammino del detetive Ralph Dibny (l'ex Elongated Man) che cerca un modo per riportare in vita la moglie defunta, mentre il signore del tempo Rip Hunter (anche lui scomparso) muove dietro le quinte le fila di una machiavellica resistenza. Un storia supereroistica dedicata ai comprimari che è anche un ottima occasione per i neofiti di studiare un compendio di storia DC, e imparare ad amarla. In fondo, un gran bel lavoro nella sua particolarità. Peccato sia difficile recuperare tutti e 52 gli albetti (uno per settimana) che compongono la saga. Ma una ricerca che vale la pena di fare per chi non ha avuto occasione di leggerla.


mercoledì 1 agosto 2018

Hereditary


Ossessione. Infestazione. Possessione.
Visto “Hereditary” di Ari Aster. Film horror che divide il pubblico. Chi lo esalta, chi lo boccia senza appello. E tutto sommato un motivo c'è.

“Hereditary” è un'opera ambiziosa, volta a essere un horror d'autore. Ari Aster, regista giovanissimo al suo esordio, dimostra di non essere un velleitario qualunque, e di possedere delle felici intuizioni visive. Il problema è la confezione generale, la cesura quasi netta che sembra dividere il film in due blocchi narrativi collegati ma sotto certi aspetti non omogenei. Cosa che porta alla nascita di una creatura attraente, ma claudicante. Gioca la sua parte anche un'eccessiva caduta di stile nel finale, in cui la volontà di concludere in fretta sembra mostrare il conto a una regia interessante che giunta a quel traguardo ha però esaurito le cartucce, e si adagia in un manierismo che dopo tanta atmosfera risulta tanto più fastidioso. Parecchio fastidioso. Lacuna ancora più grave quanto tutta la prima parte del film è stata affascinante, sprecando in sostanza un buon potenziale e presentando in definitiva un'opera non del tutto compiuta.


Questo non rende “Hereditary” un film da buttare. Ricordiamoci, soprattutto, che ci troviamo di fronte a un'opera prima. E ad averne. Il giudizio si colloca in una posizione intermedia, una materia potenzialmente buona, una regia suggestiva e soprattutto un ottimo comparto attoriale guidato da una Toni Collette al suo meglio. Se non fosse per quello scotto pagato a una conclusione che se scritta con maggiore cura, se fosse stata più suggerita e meno declamata, magari avrebbe reso di più e conservato la solidità della prima ora. Diciamolo. “Hereditary”, come molti altri film di genere, echeggia spunti già visti, e in questo non c'è niente di insolito né di male. Nella fattispecie, a me ha ricordato “Darkness”, film spagnolo di Jaume Balaguerò del 2002, che presenta più di un dettaglio in comune con la narrazione di base del film di Aster. Dal mio punto di vista, il confronto tra questi due horror è curioso. Infatti, se in “Darkness” la rivelazione dell'intrigo soprannaturale e delle sue dinamiche aveva una sua efficacia drammatica, mostrata più che spiegata, “Hereditary” pecca proprio in questo, ma risulta (sempre a mio parere) più riuscito del film di Balaguerò dal punto di vista del ritmo e del crescendo preparatorio, laddove “Darkness” girava a vuoto senza seminare le suggestioni malate che invece nel film di Aster abbondano.


“Hereditary” si affida molto ai dialoghi, anche quelli che sono apparentemente relegati a rumore di fondo, per suggerire significati e dare un senso a quanto vedremo accadere sullo schermo. I vari riferimenti mitologici, uno scambio di battute tra madre e figlia, il ricordo di tragedie passate. Il racconto di spavento fa leva sulla memoria e sull'attenzione per il dettaglio dello spettatore. Se si guarda a questi elementi con occhio distratto, il film perderà un'altra ampia porzione della sua ragion d'essere. Come dicevo all'inizio, è un'opera ambiziosa che fallisce sul lungo tragitto, ma che è apprezzabile per le buone intenzioni e non lascia del tutto indifferenti. Al contrario, fornisce sequenze e situazioni che generano autentico raccapriccio (in senso emotivo, non come shock visivo, in ogni caso molto ridotto). I rapporti di causa e di effetto, le scelte dei personaggi (che quasi sempre finiscono col produrre un risultato opposto a quello che si proponevano di ottenere) esprimono un sottotesto fatalista e claustrofobico (reso benissimo dalla sovrapposizione con l'arte artigianale cui si dedica la protagonista, che realizza miniature in scala dei momenti cardine nella vita della propria famiglia) trovano la loro ragion d'essere in una verità angosciante espressa chiaramente sin dalle prime battute del film. Per questo “Hereditary”, nonostante l'intrusione non sempre ben gestita del tema demoniaco, potrebbe essere interpretato come la metafora di una malattia ereditaria. Ineluttabile, immeritata, e contro il cui decorso è vano ribellarsi. Un dna malato il cui destino è già stato scritto.


La regia di Aster sceglie un ritmo lento ma scandito, e alcune scelte visive sono realmente inquietanti. Compresa la scelta del volto particolare di Milly Shapiro (cinicamente mi ha fatto ripensare all'uso fatto da Wes Craven dell'attore Michael Berryman in “Le colline hanno gli occhi”), vera e propria maschera del film in un ruolo che non si dimentica.
Poi arriva la parte finale. La corsa (eccessiva) alle rivelazioni, e la scelta di espedienti fin troppo dozzinali per svelare un background che per tutta la prima parte è stato latitante. I riferimenti a “Rosemary's Baby” sono evidenti, ma se il film di Roman Polansky sin dal principio era generoso di indizi che lentamente formavano un mosaico d'angoscia, “Hereditary” si affida a poche sequenze che veramente non reggono per immaturità e faciloneria il confronto con le intuizioni drammatiche del primo tempo. Si legge in rete che in alcune sale il pubblico risponde ridendo a determinate scene. Ci può anche stare, ma lascia il tempo che trova. Al di là della fretta di determinate soluzioni, e quindi alla loro goffaggine, sono abituato a sentire la gente ridere in sala di tutto senza distinzione. Quando è giustificato e anche quando non lo è. Ricordo di aver sentito la platea ridere davanti al cadavere congelato di Leonardo Di Caprio nel finale di “Titanic”, pertanto non do alcun peso a questo fenomeno di massa.

In definitiva, “Hereditary” è un film che gli appassionati di horror dovrebbero vedere con molta attenzione. Giusto per coglierne gli spunti migliori separandoli da quelli palesemente malriusciti, valutando lo stile di alcune variazioni su un tema già affrontato in passato. Non mi sento di condannare l'intero film nel suo complesso, la valutazione si colloca nel mezzo. Come un lavoro che dimostra un potenziale che però dovrà forse esprimersi e confermarsi in produzioni future.
Del resto, l'eredità cinematografica di Ari Aster non era agevole. Bacchettate sulle mani per la chiusura del film, e rimandato a Settembre per portare a compimento tutto quello che di buono ha lasciato intravedere.